Alle due del mattino del 24 ottobre 1917, i cannoni austro-tedeschi cominciarono a colpire le linee italiane. All'alba le Sturmtruppen, protette dalla nebbia, andarono all'assalto. In poche ore, le difese vennero travolte e la sconfitta si trasformò in tragedia nazionale. Oggi sappiamo che quel giorno i nostri soldati hanno combattuto, eccome, finché hanno potuto. Ma perché l'esercito italiano si è rivelato così fragile, fino al punto di crollare?
Da cent'anni la disfatta di Caporetto suscita le stesse domande: fu colpa di Cadorna, di Capello, di Badoglio? I soldati italiani si batterono bene o fuggirono vigliaccamente? Ma il vero problema è un altro: perché dopo due anni e mezzo di guerra l'esercito italiano si rivelò all'improvviso così fragile? L'Italia era ancora in parte un paese arretrato e contadino e i limiti dell'esercito erano quelli della nazione. La distanza sociale tra i soldati e gli ufficiali era enorme: si preferiva affidare il comando dei reparti a ragazzi borghesi di diciannove anni, piuttosto che promuovere i sergenti – contadini o operai – che avevano imparato il mestiere sul campo. Era un esercito in cui nessuno voleva prendersi delle responsabilità, e in cui si aveva paura dell'iniziativa individuale, tanto che la notte del 24 ottobre 1917, con i telefoni interrotti dal bombardamento nemico, molti comandanti di artiglieria non osarono aprire il fuoco senza ordini. Un paese retto da una classe dirigente di parolai aveva prodotto generali capaci di emanare circolari in cui esortavano i soldati a battersi fino alla morte, credendo di aver risolto così tutti i problemi. In questo libro Alessandro Barbero ci offre una nuova ricostruzione della battaglia e il racconto appassionante di un fatto storico che ancora ci interroga sul nostro essere una nazione.
Si laurea in lettere nel 1981 con una tesi in storia medievale all'Università di Torino. Successivamente perfeziona i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa e nel 1984 vince il concorso per un posto di ricercatore in Storia Medievale all'Università degli studi di Roma "Tor Vergata". Nel 1996 vince il Premio Strega con il romanzo "Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle, gentiluomo". Dal 1998, in qualità di professore di Storia Medievale, insegna presso l'Università degli Studi del Piemonte Orientale "Amedeo Avogadro". Oltre a saggi storici, è anche scrittore di romanzi. Collabora con il quotidiano "La Stampa", e lo speciale "Tuttolibri", la rivista "Medioevo" e con l'inserto culturale del quotidiano "Il Sole 24 Ore". Dal 2007 collabora ad una rubrica di usi e costumi storici nella trasmissione televisiva "Superquark". Il governo della Repubblica Francese gli ha conferito il titolo di “Chevalier de l’ordre des Arts et des Lettres”.
Riuscire a spiegare in maniera chiara, e persino scorrevole, un evento immensamente complicato e colmo di dettagli quale una battaglia moderna - per di più, una battaglia su cui si è scritto di tutto e il contrario di tutto - è già di suo difficile. Riuscire a farlo con rigore storico inappuntabile, corredando il testo con uno sterminato apparato di note e bibliografia, e una chiarezza d'impostazione così netta, è un mezzo miracolo.
Quando parlo di chiarezza d'impostazione, non parlo (solo) di come è strutturato il libro. Parlo della capacità di Barbero di impostare il saggio senza preconcetti o tesi ideologizzate, arrivando in maniera naturale e storicamente corretta a delineare - con grandissima chiarezza - un quadro generale che prenda in considerazione tutti i punti di vista, per quanto possibile, dato che la storia è un animale complicato, dalle mille sfaccettature, e che poco si presta a letture secche, nette e prive di sfumature.
Caporetto rappresenta un momento chiave della storia d'Italia, non solo perché è la più spaventosa sconfitta militare della sua storia (paragonabile, come accennato giustamente da Barbero, anche per come si svilupparono poi le cose in seguito, a Canne), ma perché rappresenta un sofferto passaggio nella complessa e dolorosa strada dello stato unitario verso la consapevolezza di sé, dei propri limiti e delle proprie forze.
Come Canne, rappresentò uno di quei momenti in cui la Storia sembra prendere una certa direzione, che pare ineludibile, per poi evolvere nel segno opposto; come Canne, pur con tutti i distinguo del caso e senza fare paragoni storici campati per aria, considerato che in ogni caso l'uscita di scena dell'Italia nell'ottobre del '17 avrebbe provocato contraccolpi imprevedibili nello sviluppo della Grande Guerra, dato che il fronte orientale era già bello che morto.
Caporetto è una colossale disfatta militare, di proporzioni tali per cui usare il termine catastrofe non pare affatto una esagerazione: in tre giorni l'esercito italiano perde più o meno un terzo dei suoi effettivi, una quantità indescrivibile di beni materiali (armi, vestiario, artigliera, mezzi, bestiame, viveri, munizioni) e circa 150 km di territorio nazionale, quando in due anni e mezzo di durissima guerra ne aveva guadagnato qualche decina.
Barbero prova a spiegare i motivi che portarono a un disastro del genere: cosa non facile, data la complessità del tema e l'affastellamento di teorie e controteorie che seguirono, negli anni, sull'argomento. Sintetizzando. L'esercito italiano viene travolto a Caporetto, dopo due anni e mezzo di guerra combattuta quasi tutta all'offensiva, essenzialmente perché sul fronte italiano appare qualcosa di nuovo: l'esercito tedesco. Gli austriaci, allo stremo dopo l'XI e sanguinosissima battaglia dell'Isonzo, temono alla prossima spallata il collasso del proprio fronte; chiamano quindi in aiuto l'alleato, che a malincuore decide d'intervenire su un fronte che ritiene di nessuna importanza.
Qui urge una nota: i tedeschi, e in particolare i tedeschi dei due Reich (il Secondo, quello del Kaiser; il Terzo, quello di Hitler), furono l'espressione di uno stato fortissimamente improntato sull'assolutismo militare, dogma che Bismarck - pescandolo fra le principali eredità prussiane portate in dote alla Germania unita dagli Hohenzollern - utilizzò da subito come collante in una nazione da sempre politicamente divisa e frammentata. Se si unisce questo esasperato militarismo, fondato su una rigidissima disciplina sociale e su una casta di militari altamente professionalizzata e carica di prestigio, a una nazione di dimensioni demografiche e economico-industriali senza paragoni nell'Europa continentale, nonché culturalmente molto solida, il risultato non può che essere una macchina da guerra praticamente inarrestabile. E Caporetto non è altro che l'ennesima battaglia stravinta dal miglior esercito del mondo in qualunque scontro uno contro uno fin lì tenuto dopo l'unità (1866, Sadowa, Austria KO; 1870, Sedan, Francia KO; 1914-15, Tannenberg, Russia KO), grazie all'applicazione di tattiche assolutamente innovative (nel caso in questione, le celeberrime e rivoluzionarie tattiche d'infiltrazione); all'utilizzo di armi e quadri ufficiali di livello assoluto; all'organizzazione maniacale. Che poi i tedeschi abbiano sempre o quasi vinto tutte le battaglie, ma sempre o quasi perso tutte le guerre, dipende dal fatto che gli dei, alle nazioni come agli uomini, non concedono tutti i talenti: e se i tedeschi sanno indubbiamente organizzare e fare la guerra meglio di tutti, così come non sanno mangiare non sanno né improvvisare né guardare alla realtà scendendo dal piedistallo che si sono costruiti da sé.
Sfortuna volle per l'Italia che l'attacco da parte di un avversario così fuori portata avvenne anche in un momento delicato, dopo la sanguinosa presa della Bainsizza: male guidato da ufficiali spesso inetti, male in arnese per via delle perdite, male organizzato e preda di continui e incomprensibili stravolgimenti d'organico, l'esercito collassò, esaurito per via dei suoi stessi difetti di costruzione, che il sorprendente attacco tedesco portato con tecniche del tutto nuove fece venire di colpo a galla. Erano i limiti di un intero paese, arretrato e ancora lontano dal compimento della sua rivoluzione industriale, che si riflettevano sull'esercito, di cui dopotutto era una rappresentazione speculare.
Un esercito di contadini, strappati dalle proprie campagne senza una spiegazione, trattati come numeri da ufficiali spaventosamente classisti, sottoposti a una vita infernale e mandati, letteralmente, come pecore al macello. Nell'inedia di quei primi due anni di guerra covava già la più cupa rassegnazione, l'esasperazione e l'avvilimento che portarono poi la truppa, a Caporetto in molti casi, a smettere di combattere pur di porre fine a quella vita orrenda. Molto comprensibilmente direi.
Gli errori furono molti, e si sommarono - fra quelli fatti prima della battaglia e quelli fatti durante (e i responsabili sono molti, da Cadorna giù fino a Capello e Badoglio, e giù ancora) - ai difetti di una struttura che, come detto, non poteva reggere l'urto di un avversario del genere (mentre avevo retto, e messo seriamente in difficoltà, un avversario alla portata come l'Austria-Ungheria dei miei avi).
Terribile fra l'altro il resoconto della ritirata fino al Piave, che assunse le dimensioni di una vera e propria apocalisse con scenari da fine del mondo. Sconfortante la vuota retorica dei comandi e del corpo ufficiali e la malsana concezione di patriottismo da cui questa scaturiva (ma direi che questo accomunava l'Italia a tutti gli altri paesi in guerra).
Contro ogni ipotesi, come noto, la linea del Piave tenne: e gli stessi tedeschi che avevano sbaragliato intere divisioni sull'Isonzo vennero irrimediabilmente bloccati sul Piave (rimarcando il clamoroso errore strategico commesso dai tedeschi stessi che, contrariamente all'opinione dei parenti poveri austriaci - che, come spesso capita ai parenti poveri, sono più umili e sanno guardare più in là del loro superbo naso - insistettero nel puntare in profondità verso la pianura veneta, invece di aggirare verso il mare la rimanente parte dell'esercito italiano assembrata sul Carso - mossa che avrebbe inevitabilmente costretto l'Italia alla resa). E' un errore che la Germania pagherà caro: perché il Piave terrà, gli austriaci andranno incontro a una disfatta - questa sì, esiziale - nell'ottobre dell'anno dopo e alla Germania, rimasta sola e accerchiata da forze preponderanti, non rimarrà che la resa incondizionata. Sic transit gloria mundi.
Il saggio è veramente di qualità superiore, senza sbavature. Ovviamente sono 500 pagine dense e fitte, consigliate agli appassionati ma leggibili e comprensibili veramente da tutti. E questo è il merito più grande delle capacità divulgative di Barbero.
Una panoramica di livello altissimo su una delle più immani tragedie della nostra storia, la battaglia di Caporetto. Alessandro Barbero unisce al rigore scientifico dello storico le grandi doti di affabulatore e di simpatico intrattenitore che chi frequenta i programmi di Rai storia già conosce, ottenendone un risultato doppiamente prezioso. Questo immenso lavoro è infatti da apprezzare sia perchè un evento che ha provocato centinaia di migliaia di prigionieri e decine di migliaia di morti non può non essere conosciuto, sia perchè l'analisi delle cause, dello svolgersi della battaglia e delle conseguenze della ritirata catastrofica mette a nudo magagne di quei tempi ma ancora di più dell' Italia di sempre: leggendo questo libro impariamo a conoscerci meglio ed a capire parecchio anche del nostro paese di adesso.
Sintetizzando all'estremo che cosa è stata la battaglia di Caporetto? Lo sforzo supremo degli imperi centrali per vincere una guerra che li stava stremando, spostando per la prima volta un intera armata tedesca (l'esercito meglio armato e meglio addestrato del mondo) nel settore italiano ed impiegando tecniche di guerra mai viste prima per vincere con un unico terribile colpo. Non stupisce che il Blitzkrieg di pochi decenni dopo nasca da tecniche simili a queste, nè che molti feldmarescialli nazisti ( da Rommel a Schoerner) si siano fatti le ossa proprio sulle terribili e sanguinose trincee che si stendevano tra Plezzo e Tolmino nell' Ottobre del 1917.
Fin quì niente di nuovo ma...e l' Italia? La battaglia è stata persa esattamente allo stesso modo in cui abbiamo perso la seconda guerra mondiale; l'esito nella prima è stato diverso solo perchè qui gli USA e l'impero britannico erano nostri alleati. Le guerre del ventesimo secolo (quelle del ventunesimo figurarsi) sono guerre industriali nelle quali il valore dei singoli soldati, l'attaccamento alla bandiera ed altre vuote retoriche sono un fattore assolutamente marginale. Si vincono nelle fabbriche che producono armamenti, nelle strutture logistiche che devono portare al fronte milioni di uomini e mantenerli in condizioni di vita accettabili, in un amalgama tra stato e popolo sufficientemente robusto da poter sopportare le privazioni di una guerra di sterminio senza provocare il collasso delle istituzioni. L'Italia del primo novecento era il patetico contrario di tutto questo. Un paese povero, con l'analfabetismo ai massimi livelli, con mortalità infantile da terzo mondo e assolutamente non in grado di poter fare a meno della propria generazione più forte per combattere una guerra. La produzione industriale era leggermente decollata nella seconda metà dell'ottocento, ma si era ben distanti dai due milioni di operai delle officine Krupp o della fantasmagoriche produttività americane: peraltro il fortissimo tasso di emigrazone negli USA di quegli anni stà lì a dimostrarlo. Dal punto di vista politico, se possibile, le cose andavano anche peggio. Una società becera e classista a livelli mai visti prima, in cui l'ascensore sociale e la meritocrazia erano totalmente inesistenti, totalmente bloccata da strozzature burocratiche a tutti i livelli e totalmente incapace di generare una classe dirigente all'altezza della situazione. In quell' Italia si andava avanti se si aveva un titolo nobiliare o molto denaro. E basta. Un sistema già corroso alla base dal malcontento di milioni di affamati, arriverà alla paranoia con l'avvento della settimana rossa: si scendo in guerra in fretta e furia senza valutare la preparazione bellica, solo per soffocare le rivolte sociali e dare al popolo qualcuno da odiare. Sembra di stare parlando dell' Italia di adesso.
Scendendo ad un livello più basso, a che livello era l'enorme e fornitissimo (dagli inglesi) esercito italiano? Ovviamente, pessimo. Luigi Cadorna e tutti i suoi collaboratori dell'alto comando erano italiani, e da italiani pensavano. Totalmente incapaci di disancorarsi da tecniche di guerra del secolo precedente che da tre anni provocavano massacri inenarrabili sul Carso, sono totalmente privi di elementi fondamentali della guerra moderna quali la gestione logistica di armi e vettovagliamento, un corretto trasferimento di ordini ed informazioni a tutti livelli e mille altre. Se si vanno a leggere le circolari che discendevano da cotanta classe dirigente la cosa diventa tragicomica. Ordini imprecisi, ineseguibili, contraddittori e capaci di generare solo confusione, però gonfiati di una pompa retorica che sarà superata solo dal fascismo, e fatti eseguire con una durezza tale da distruggere nei quadri ogni sorta di spirito di iniziantiva: e se ne vedranno le conseguenze. Ciò che è davvero imperdonabile è la concezione tutta italiana che l'esercito sia solo uno strumento, e non una immensa creatura fatta comunque di uomini. Mai uno che si schiodasse dalle comodità dell'alto comando per visitare le trincee, mai che si verificasse l'effettiva consistenza di una unità che agli occhi di Cadorna restava sempre e comunque una bandierina.
Risultato: siamo stati attaccati dall'esercito più potente del mondo dal quale ci dovevamo difendere con generali incompetenti ed avidi al comando di un esercito da parata, non addestrat0 alla guerra moderna, con armamento inadeguato, rimasto senza ufficiali di medio livello (guai a promuovere ufficiale un proletario! Orrore!), nel quale ogni spirito di iniziativa era stato schiacciato nel sangue da anni ed in cui la trasmissione di informazioni ed ordini in condizioni critiche non era stato curato un fico secco. Cosa c'è da stupirsi se unità stanche, demotivate, dissanguate, rimaste senza ordini e disorientate dai continui trasferimenti una volta accerchiate si arrendevano senza combattere? Qusta gente voleva la fine della guerra, non la vittoria. Volevano raggiungere e salvare le loro famiglie dalla fame, visto che da uno stato classista ed assente non erano protette.
Ma, ovviamente, per Cadorna la causa della rovinosa disfatta è stata la propaganda socialista che ha minato il morale dei soldati rendendoli vigliacchi. Uomini che sono morti a centinaia di migliaia per obbedire ai suoi ordini. C'è da restare basiti. Il vero problema è che un paese ingessato e totalmente incapace di guardare alle proprie contraddizioni interne non riuscirà se non in minima parte a cambiare questa visuale, e vedrà nella mancanza di disciplina l'unica causa reale del liquefarsi del regio esercito. Il risultato sarà una spinta fortissima per il nascere ed il crescere del fascismo. Ma questa è un'altra storia.
...e oggi? Se sostituiamo la guerra (per fortuna) con la competizione commerciale, le magagne sono rimaste esattamente le stesse. Un paese tecnologicamente rimasto indietro, logisticamente spaccato in due, popolato da masse impoverite ed incattivite; leggi vuote ed illeggibili, la piccola impresa sta morendo strozzata dalla crisi ma anche da un sistema che non premia l'iniziativa anzi la schiaccia sotto pile di carte bollate; un senso dello stato che non è mai stato così debole (in italia quello che è di tutti non è di nessuno). La spiegazione, ora come allora, è la mancanza di disciplina. E salta fuori sempre più spesso il coglione che celebra il duce o che vuole ripristinare il servizio di leva perchè i nostri giovani sono indisciplinati: prendere ordini assurdi da un panzone che non ha nessuna competenza di nulla ma solo due o tre stellette sulle spalle. Bel modo di stimolare le nuove idee e lo spirito di iniziativa.
Si potrebbe andare avanti per ore. Chiudo dicendo che chi volesse capire molti dei nostri problemi atavici, o chi si facesse sedurre da certe idee balorde, dovrebbe farsi un giro a Nikolajevka. Ma soprattutto a Caporetto, che è una batosta più vicina, è una batosta tutta nostra. Con buona pace di Rommel, di Krafft von Delmensingen e dei socialisti.
Spietata ricostruzione della grande sconfitta del 1917. Documentata, obiettiva, appassionante come tutti i libri di Barbero. Mi ha colpito tantissimo la pessima considerazione che i tedeschi avevano degli alleati austriaci, non l'avrei mai immaginato.
“Caporetto” di Alessandro Barbero è un ottimo esempio di saggio storico ben documentato, senza tesi preconcette ma soprattutto teso a far capire esattamente l'oggetto dello studio, con uno stile chiaro ed efficace. Della più grande catastrofe della storia militare italiana recente Barbero rievoca le premesse e segue gli avvenimenti tenendo sempre ben in vista l'obiettività ed evitando di partecipare al gioco sterile dell'attribuzione della responsabilità personale del tracollo.
“Quando si ha a che fare con grossolani errori di portata storica, con insuccessi di proporzioni davvero catastrofiche, il problema di individuare cause e responsabilità diventa immenso, non solo perché possono entrare in gioco i difetti di mentalità di un intero popolo, ma anche perché dopo una disfatta la principale preoccupazione di coloro che ufficialmente ne sono responsabili è di dimostrare che la loro condotta è stata al di sopra di ogni biasimo, se non sprecata nella sua genialità” scrive Charles Fair in “Storia della stupidità militare” e il professor Barbero mostra di credere a fondo a queste due linee di condotta e non si abbassa a cercare il più colpevole, tra Cadorna, Capello, Cavaciocchi e Badoglio ma li accomuna nella critica al loro atteggiamento poco professionale e costruttivo anche se poi giunge al punto cruciale; Gli italiani avrebbero perso anche se non ci fossero stati tutti quegli errori perché i tedeschi erano più forti, sia come armamenti ma soprattutto come concezione filosofica della guerra.
Quando arriva una crisi, non c'è mai un'unica motivazione ma sono molteplici le cause che creano il disastro e in questo caso specifico, ci furono l'arretratezza industriale del Paese, la sclerotizzata struttura militare, il caos politico interno, le poco chiare mosse che portarono alla dichiarazione di guerra. Tutti questi motivi, assieme a tanti piccoli errori, tante incompetenze, anche episodi sfortunati, portarono a Caporetto e Alessandro Barbero racconta tutto ciò con passione, capacità e competenza.
Cos’è successo veramente la notte del 24 ottobre 1917 “sulla fronte giulia”? Chi fu responsabile di quella che fu forse la peggiore sconfitta militare dell’esercito italiano? Come fu preparata l’azione d’attacco? Come ci si oppose? A tutte queste domande cerca di dare risposta il professor A. Barbero in questo saggio scritto a 100 anni da quei tragici giorni. L’Italia era ormai in guerra da due anni e mezzo e si era appena consumata l’ultima delle undici “spallate” dell’Isonzo. Scontri sanguinosi che portarono alla conquista di modeste porzioni di territorio. Il grosso dell’esercito era costituito da contadini provenienti da ogni parte d’Italia: dalle Alpi alle pianure del nord, alle aree del sud, alle isole. Moltissimi erano gli analfabeti totali che non parlavano e nemmeno capivano l’italiano, ma solamente i rispettivi dialetti, cosa che creava notevoli difficoltà agli ufficiali inferiori nel farsi capire con immaginabili conseguenze. Dopo due anni e mezzo di sacrifici inenarrabili (i soldati non erano solo impiegati nei combattimenti, ma anche per scavare trincee, tracciare strade, trasportare materiale bellico, ecc.) questi uomini erano stanchi, sfiduciati e demoralizzati. Emblematico e significativo quanto affermato da un fante romagnolo subito dopo il disastro: “Io sono un bracciante, quando faccio sciopero è perché protesto contro il padrone e allora non lavoro più alle sue condizioni. Così è stato, ho smesso di fare la guerra che era il lavoro che mi avevano assegnato nel 1915, perché non volevo più farla alle loro condizioni. Ossia, non volevo proprio farla più”. L’analisi di Barbero mette in luce un vizio atavico dell’Italia: burocrazia soffocante al limite del ridicolo se non fosse per la tragicità della situazione, tanto che “i generali italiani fossero convinti di averla predisposta (l’artiglieria), cadendo ancora una volta nell’illusione che bastasse emanare circolari per ottenere i risultati”; rigidità nella filiera di comando non consentendo, qualora ce ne fosse la necessità, a un qualunque ufficiale di dare ordini in piena autonomia, al punto che “qualunque reazione organizzata alle mosse del nemico richiedeva innanzitutto che quelle mosse fossero riferite per via gerarchica ai comandi superiori, i soli autorizzati a prendere le decisioni più importanti”, come nel caso del tenente Calligaris, comandante di compagnia del 155° Alessandria che “telefonò al comando di battaglione per chiedere l’appoggio dell’artiglieria. Dal comando di battaglione telefonarono al comando di reggimento. Al comando di reggimento promisero di inoltrare la richiesta”; scollamento totale tra il comando supremo e i reparti; ritardo nell’aggiornamento dei mezzi e delle tattiche di combattimento specialmente nei confronti dell’esercito tedesco. Infatti “l’esercito italiano, dove pure non mancavano i professionisti bene intenzionati, fosse culturalmente in ritardo” cosicché “il collasso dell’esercito italiano fu il fallimento di un’organizzazione in cui le direttive erano poco chiare, decisioni importanti erano prese in modo intempestivo, la professionalità era poco diffusa, la paura di prendersi responsabilità regnava sovrana […]. Il caos della ritirata, anch’essa male organizzata dai comandi, fece il resto”. Tutti questi problemi sembravano non essere noti non solo al comando supremo, ma anche a governo e parlamento. Come in ogni catastrofe, perché di questo stiamo parlando, la colpa è sempre di qualcun altro con la tecnica dello scaricabarile fino ad arrivare all’ultimo anello della catena, in questo caso il soldato che era stato strappato dalla sua casa, dalle sue montagne, dai suoi campi e dai suoi pascoli, per essere scaraventato in una fornace che consumava migliaia di uomini al giorno senza che questo provocasse il benché minimo scrupolo nei comandi (“Il colonnello Gatti, del Comando Supremo, nel giugno 1917 poteva tirare questo bilancio della X battaglia dell’Isonzo, con una serenità che oggi risulta agghiacciante: “[…] Prigionieri austriaci circa 23.000 … Di fronte a questi buoni risultati, la spesa nostra è stata circa 70.000 tra morti e feriti, e di circa 750.000 colpi di medio e di grosso calibro spesi””). Questo portò ad una repressione cieca e spesso inutile se non dannosa, come il caso dello “zelantissimo capitano Citerni dei Carabinieri Reali arrestava tutti i soldati che si avvicinavano al comando, compresi i portaordini del generale”. Finché si aveva di fronte l’imperial-regio esercito austriaco si trattava di “una guerra di morti di fame contro morti di fame” (cit. “Uomini contro” di F. Rosi) tant’è che dopo aver sfondato il fronte, la prima preoccupazione dei soldati austriaci fu quello di trovare viveri necessari alla sopravvivenza (“gli uomini […] riuscirono comunque a occupare la baracca di un comando di battaglione, e si fermarono a divorare il pranzo lasciato sul tavolo dal comandante italiano”), ma quando subentrarono i tedeschi, con la loro organizzazione, la loro efficienza e la loro “modernità”, tutto crollò. Credo che quanto avvenne in quei tragici anni di guerra sia ben sintetizzato nelle parole di Don Giovanni Minzoni (arciprete di Argenta che verrà assassinato dai fascisti nell’immediato dopoguerra): “Si dice che causa la malaria saremo mandati in un altro fronte; non ci credo perché non c’è serietà e conoscenza delle cose negli alti comandi: si va avanti senza conoscenza di causa e misure precise e ben ponderate, ma sempre a caso sperando sempre nella buona sorte…”. Barbero ha affrontato un argomento non facile e tutt’ora molto controverso. L’ha affrontato, documenti e testimonianze alla mano, in modo obbiettivo senza schierarsi per una parte o per l’altra, ma analizzando attentamente azioni, scelte e tattiche di vincitori e vinti con tono divulgativo e semplice ma non semplicistico.
La parola Caporetto è entrata sin da subito a far parte della nostra lingua; ancora oggi la parola viene usata – e chissà per quanto tempo ancora lo sarà – come sinonimo di disfatta, immane catastrofe o pesante sconfitta. Molto si è detto e molto si è scritto – tutto e il contrario di tutto – su questa battaglia e in questo saggio il professore Barbero cerca di spiegare, con il suo solito modo affabile e chiaro, questa battaglia campale per l'Italia. Dal maggio 1915 e fino all'ottobre del 1917, l'Italia ha sempre svolto una guerra d'attacco con molto spargimento di sangue e poche conquiste territoriali. Dopo la cosiddetta XI^ battaglia dell'Isonzo, svoltasi nell'estate del '17, l'esercito austriaco temendo di collassare nella successiva battaglia chiese aiuto all'alleato tedesco che accettò (un po' malvolentieri) di aiutare i suoi alleati più “poveri”. La battaglia di Caporetto fu una battaglia di aggiramento; un tipo di combattimento che l'Italia non aveva ancora sperimentato fino ad allora. Da sempre si parla di Caporetto come di un attacco a sorpresa, che l'esercito italiano non si aspettava l'offensiva congiunta austro-tedesca ma, invece, le cose non andarono realmente così. Nell'esercito italiano tutti sapevano dell'attacco ormai da mesi; grazie alle intercettazioni, alle informazioni delle spie ma soprattutto grazie ai disertori del fronte opposto; due ufficiali rumeni in particolare che addirittura consegnarono gli ordini d'attacco agli ufficiali italiani, con l'indicazione precisa degli orari e luoghi di partenza dell'attacco. Questa battaglia fece emergere tragicamente tutti i difetti e le inferiorità dell'esercito italiano (in quel momento inadeguato e inferiore all'avversario sul piano tattico, morale e professionale) e la superiorità di quello tedesco (quest'ultimo più forte e meglio organizzato, anche se alcuni errori gli hanno fatti anche loro come non aver ripiegato verso il mare (come suggerirono gli austriaci) e sopraffare così la maggior parte dell'esercito italiano; invece, si fecero prendere dall'ebbrezza della vittoria e dalla frenesia di sfondare in pianura); fu proprio in questa battaglia che i due ex alleati (Italia e Germania) si scontrarono per la prima volta nella Grande Guerra. Barbero nel suo saggio ci spiega che la disfatta di Caporetto ha avuto molte concause; prima di tutto gli errori degli alti comandi che hanno sottovalutato il nemico e hanno diramato ordini contraddittori e confusionari, l'artiglieria e le munizioni insufficienti, la scarsa competenza dei reparti italiani, l'impreparazione dei giovani ufficiali, la mancanza di iniziativa autonoma degli ufficiali inferiori, la mancanza di coordinazione tra la prima linea e gli alti comandi, la pessima qualità delle divisioni di riserva affluite al fronte all'ultimo momento su posizioni sconosciute, dopo trasferimenti lunghi e faticosi in condizioni fisiche e morali disastrose; ufficiali poco o per niente qualificati “piovuti” sul fronte alla vigilia della battaglia e non ultimo la troppa fiducia nella resistenza delle truppe. Nell'estate – autunno di quell'anno i soldati, invece, non vogliono più combattere, sono stanchi e logorati da questa lunga guerra estenuante, dalla dura disciplina con punizioni eccessive rispetto alle colpe effettive o presunte; sono afflitti da sentimenti di scoramento, sconforto e stanchezza dopo così tanti mesi ininterrotti al fronte e tante battaglie sanguinose e cruente. L'esercito italiano di quegli anni riflette la società italiana divisa in rigide classi sociali dove i nobili e i borghesi comandano sul popolo considerato come un essere inferiore che deve ubbidire ciecamente senza protestare. Nell'esercito, infatti, i soldati semplici venivano considerati come numeri, come pezzi di un ingranaggio, da ufficiali classisti; si preferiva promuovere ufficiale un giovane fresco di diploma dell'accademia che un fante operaio o contadino (così era composto l'esercito italiano) che combatteva ormai da tre anni in trincea e ne conosceva le dinamiche. Questo corposo saggio, ci fa inoltre capire come molti mali dell'Italia siano atavici e si riflettevano sull'esercito: la disorganizzazione, la sopravvalutazione di se stessi, la superficialità, il pressapochismo, il nepotismo. Un'Italia amministrata da una burocrazia cieca, governata da una classe dirigente incompetente e mediocre incapace di organizzare un grande sforzo comune com'è una guerra mondiale o una grande battaglia di schieramento. Per molti anni si è data la colpa ai soldati, accusati di aver abbandonato il fronte; ma non fu realmente così (perché combatterono fino a quanto poterono) e già la commissione parlamentare d'inchiesta istituita dopo la fine del conflitto appurò che la colpa dell'inevitabile sfondamento del fronte fu colpa dei generali che – anche nel dopoguerra – continuavano a rimbalzarsi le colpe dall'uno all'altro, accusandosi reciprocamente di non aver ricevuto informazioni dal fronte. La guerra è sempre un'immane tragedia che fa uscire i peggiori istinti dell'uomo e Caporetto non esulò da questo. La ritirata, spiegata con grande partecipazione nell'ultimo capitolo del libro, verso il Tagliamento e dopo verso il Piave è ancora più tragica, assume dimensioni apocalittiche in cui il caos regna sovrano; in appena tre giorni l'esercito perde circa un terzo degli effettivi, lascia centinaia di chilometri di territorio in mano nemica, vi sono zone occupate, mezzo milione di profughi, artiglieria abbandonata al nemico, depositi di munizioni incendiati, saccheggi, fucilazioni, magazzini e case devastate, truppe sbandate.
Caporetto è un saggio con uno sterminato apparato di note e bibliografia come vuole un saggio storico su questo argomento; un libro corposo, totalizzante, che richiede tutta l'attenzione del lettore; ricco di cartine ben dettagliate con lo schieramento del fronte che aiutano la comprensione del lettore dei fatti narrati. Un testo in cui grazie ad una minuziosa ricerca e ad uno studio delle fonti, l'autore riesce a compiere una illuminante analisi documentata, obiettiva e anche con un pizzico di ironia, spiegando in maniera chiara, con passione e competenza, un evento complicato e ricco di contraddizioni e dettagli quale fu la battaglia di Caporetto. Barbero riesce a coinvolgere il lettore nell'atmosfera degli eventi, delinea un quadro generale di quell'avvenimento prendendo in considerazione tutti i punti di vista, narrando i fatti da una doppia prospettiva italiana/austro-tedesca; racconta gli antefatti, la preparazione, la battaglia, i primi giorni post-disfatta; analizza tutti gli aspetti della battaglia, esplora le cause e le conseguenze di quella che fu una battaglia disastrosa per l'Italia; battaglia che fece da spartiacque nella guerra mondiale per la nostra nazione e poco ci mancò che non perdette la guerra per questo.
Un libro di quasi 700 pagine, dense, fitte, consigliato agli appassionati di storia, di storia militare e di Grande Guerra; una battaglia trasformatasi in tragedia nazionale che tutti dovrebbero conoscere per capire un po' di più anche l'Italia attuale.
Ogni battaglia a un certo punto finisce, ogni avanzata si arresta, ogni vincitore prima o poi si ferma esausto; avanzare combattendo e vincendo riempie di entusiasmo, ma alla lunga logora, tanto gli animi quanto i mezzi; i collegamenti si allungano e diventano più fragili, il compito di chi deve rifornire le truppe di munizioni diventa più difficile, le artiglierie rimangono indietro. Al Piave la spinta propulsiva di tedeschi e austriaci non si era esaurita, ma era diminuita a sufficienza da ridimensionare l'enorme divario morale e tecnico che aveva reso inevitabile lo sfondamento a Caporetto.
Molto ben fatto; a volte ci si perde, ma è il caos della guerra. L'unica cosa da appuntare sono le note collocate non a piè di pagina, dove sarebbe facile e comodo consultarle, ma addirittura alla fine del libro; dopo un po' ho smesso di leggerle. Peccato veramente!
Vado controcorrente rispetto alla maggior parte delle recensioni scritte qui: il libro è un lavoro di ricerca e di esposizione magistrale, non lo metto in dubbio. Tuttavia l'esposizione minuziosa e quasi da dizionario non si presta certo al grande pubblico o a chi voglia informarsi su questa pagina di storia, ma forse solo ai più appassionati e amanti del genere, rendendo a mio avviso la lettura molto difficile e quasi noiosa. Benché sia un fan del Barbero di cui ascolto ogni conferenza nel podcast non posso che trovare molte differenze tra quelle narrazioni orali e questo libro: le prime infatti sono chiarissime, alla portata di tutti e fluenti, mentre qui è difficile seguire la storia tra gli innumerevoli riferimenti a reggimenti, battaglioni, nomi di monti di cui bisogna cercare continuamente la posizione nelle cartine per capire qualcosa, tenenti, capitani etc etc
Ultimo punto: capisco la necessità di riportare le fonti, ma stampare un libro in cui ci sono 110 pagine di note su 630 totali (quasi il 20% quindi) non mi sembra una buona scelta, anche perché c'è anche una sezione apposita con l'elenco bibliografico che già potrebbe bastare: forse potrebbe essere una soluzione alternativa riportare un link con l'elenco completo vista l'evoluzione tecnologica
Il Maggiore (e per me migliore) divulgatore storico Italiano attuale , ritorna, 10 e più anni dopo Waterloo ad una Battaglia che, se pure non ha cambiato la storia, ha segnato 100 e più anni di polemica Italiana Per cui Cadorna, Capello, Badoglio Etc., che colpa ebbero nella Débâcle di Caporetto, Soprattutto, che tipo di Débâcle fu? Una sconfitta, pesante sì, ma paragonabile ad altre della 1 GM? Caporetto fu colpa della base, come con "signorilità" accusarono i comandi , o dei comandi stessi che stremarono la volontà dell'esercito. La differenza strutturale/di comando/logistica e, mi si lasci dire, di uomini al vertice, è impietosa per l'esercito italiano, che poteva competere con quello austriaco, ma usciva distrutto dal confronto con quelle tedesche e, indirettamente, con quello degli alleati anglo-francesi. Interessante il paragone tra i nostri arditi e le truppe d’assalto tedesche, Truppe disciplinate e addestrate che vivevano comunque la vita del reggimento e i "fegatacci" che compivano azioni eccezionali, ma di nessun aiuto, o addirittura negativi nel tran tran della vita dell'esercito (pag. 532)
Con chiarezza, ironia ed enorme preparazione, Barbero porta un resoconto dettagliato e ingrato di una delle più grandi disfatte dell'esercito italiano.
In un poderoso tomo ricco di testimonianze di ogni genere, che comprendono lettere di soldati semplici e ufficiali fino agli alti gradi, interventi di testimoni e giornalisti e soprattutto dichiarazioni e ricordi di parte non solo italiana ma anche austriaca e tedesca, Alessandro Barbero ricostruisce tutte le fasi dell'attacco che il 24 ottobre provocò lo sfondamento del fronte italiano e l'avanzata delle truppe nemiche fino alla linea del Piave, partendo dal momento della pianificazione dell'offensiva e arrivando fino alle sue conseguenze. https://athenaenoctua2013.blogspot.co...
Testo scritto magnificamente, come al solito. Personalmente l'ho trovato un po' prolisso nella preparazione e nella suddivisione delle fasi della battaglia, e avrei preferito una parte un po' più lunga sul post-, ma è una considerazione personale.
Ci sarebbero innumerevoli citazioni da prendere, purtroppo da Audible è difficile.
Questo splendido libro condivide pregi e difetti degli altri libri di Barbero, senza nulla togliere al sommo divulgatore ovviamente!
Un libro assai interessante, dopo il quale ci si sente padroni della materia. L’esposizione e l’analisi partono dai mesi precedenti alla battaglia, fino alla ritirata sul Piave. L’analisi di Barbero è profonda, ricca di dettagli e illuminante. Trovo che, nonostante tutti gli italiani conoscano la battaglia di Caporetto, molto pochi sappiano veramente cosa è successo e perché. E che sia importante che ciascuno di noi conosca un pezzo così incisivo della nostra storia.
Come sempre nei libri di Barbero, si viene letteralmente travolti dalla quantità di informazioni, e spesso bisogna fare attenzione a non affogarci. Fortunatamente, in questo libro l’autore si preoccupa di riassumere di volta in volta le conclusioni a cui giunge, per cui non è necessario prendere appunti e ricordare tutti i nomi dei sottotenenti di artiglieria della seconda armata. L’abbondanza di informazioni serve più a calare il lettore nell’atmosfera degli eventi, piuttosto che a fornire chiavi di lettura degli avvenimenti, pertanto si può eventualmente saltare qualche descrizione di assalti alle trincee qua e là senza perdere il filo del discorso.
Per quanto sia un libro, come gli altri del Professore, rigorosissimo dal punto rivista accademico e ricco di note, sono rimasto sbalordito dai ben 3 riferimenti a Wikipedia, in un paio di occasioni persino utilizzata per trarre conclusioni (come quando si parla delle medaglie di uno dei generali tedeschi); se l’avessi fatto io all’università, mi avrebbero fatto riscrivere la tesi.
Ovviamente si tratta di un’osservazione di minimo conto, e sicuramente l’autore ha le sue ragioni per aver fatto questa scelta!
In generale, un gran bel libro, molto consigliato.
Dettagliatissimo. Corredato da splendide mappe d insieme e di dettaglio che aiutano a comprendere dove e come avvenne la più catastrofica rotta subita dal nostro esercito. Racconta gli antefatti, la preparazione, i giorni della disfatta, le conseguenze sulla popolazione civile.
La sconfitta di Caporetto ha rappresentato uno degli eventi cardini della partecipazione italiana nella Grande Guerra e, anche, nella storia successiva d’Italia. Caporetto è difatti entrata nell’immaginario collettivo, come “la” disfatta per eccellenza. Pochi eventi hanno suscitato dibattiti, polemiche e processi, anche perché elevatissimo è il numero di testimonianze a disposizione.
Sgombriamo subito il campo da ogni dubbio per quelli che conoscono solo il Barbero divulgatore e personaggio televisivo-mediatico: Barbero è prima di ogni altra cosa storico vero e di valore. Non aspettatevi dunque che questo “Caporetto” sia un libriccino divulgativo dalla lettura agevole, nient’affatto. È un solido libro di storia, ricco di note ad ogni pagina, che non fa semplificazioni o introduzioni a favore del lettore che ne sappia di meno; a tratti, potrebbe risultare persino pedante. La solidità è anche quando Barbero ammette, in diversi passaggi, che, di fronte a testimonianze contrapposte o insufficienza di dati, non è possibile giungere a conclusioni. O quando siamo di fronte a testimonianze contrapposte: ad esempio, la constatazione degli austrotedeschi della ricchezza materiale (rispetto alla loro povertà di paesi sotto blocco commerciale) dei soldati italiani, in fondo ben nutriti; e al tempo stesso, l’ammirazione malcelata degli stessi italiani fatti prigionieri verso i tedeschi, descritti spesso come alti, biondi, sani e anche loro, ben nutriti! (faccio notare che l’inverno del ’16-’17 fu tra i più duri della Germania ed è passato alla storia come l’inverno delle rape). Come si capirà, questi e altri dati non possono essere presi alla lettera, ma vanno ragionati e filtrati.
Detto questo, passiamo al contenuto del libro. Quali fatti e quali tesi espone Barbero? Quali furono le cause di Caporetto? La mitologia amplificata o creata sulla battaglia (anche dagli stessi protagonisti) ha parlato di gas mortali che annientarono interi reparti; reggimenti traditori arresisi vilmente in massa ad un pugno di nemici; comandi insipidi o persino vigliacchi, ancorati a tattiche antiquate e vessatori contro i propri uomini. Barbero analizza ognuno di questi fattori e riconduce il tutto alle testimonianze e ai fatti storici. Particolarmente acuta e dettagliata l’analisi del mancato effetto dell’artiglieria italiana (il cui “silenzio” divenne uno dei miti della battaglia):
"È chiaro ormai che questa impressione [del silenzio], ripetuta da così tanti testimoni, non è da intendere alla lettera, ma esprime una verità più profonda: il fatto, cioè, che l’azione delle batterie italiane risultò paurosamente deludente rispetto alle attese. L’artiglieria tirò, ma troppo tardi, troppo poco, e non sui bersagli giusti; e l’attacco travolse tutto senza che l’enorme numero di cannoni ammassato alle spalle della prima linea, e che Capello si era rifiutato di spostare più indietro, riuscisse a impedirlo."
È vero che molti reparti italiani, con numerosissime artiglierie, furono catturati dopo scarsa resistenza e con una facilità che sorprese gli stessi austrotedeschi. Fu soltanto viltà dei soldati e tradimento di alcuni? Barbero ricostruisce in modo sapiente i motivi tattici che resero possibile tale risultato. Essi sono:
Bombardamento breve e intenso dell’artiglieria austrotedesca, mirante alla distruzione delle prime linee ma, anche e soprattutto, delle comunicazioni nelle retrovie; Coordinamento tra bombardamento e assalto della fanteria, che usciva dalle trincee così da non dare modo ai reparti italiani (nascostisi nei ripari e nei bunker per sfuggire all’artiglieria) di tornare in posizione; Tattica dell’infiltrazione, che prevedeva non l’assalto frontale alle trincee ma la penetrazione di piccole squadre anche al di là dei capisaldi italiani; Carente risposta dell’artigliera italiana, che non rimase interamente silente, ma fu inefficace soprattutto per la rapidità Debolezza numerica dei reparti italiani, logorati da tre anni di guerra, e scarsa coesione; Stato insufficiente di molte trincee, spesso mai utilizzate dal 1915, e riadattate alla meglio, oppure colpevolmente trascurate come quelle a valle dell’Isonzo. Citazione dal libro:
"Cosa resta, a questo punto, del luogo comune secondo cui le truppe si sarebbero battute poco e male, arrendendosi alla prima occasione? Preso alla lettera, il luogo comune è falso, e offensivo per quegli uomini che combatterono e morirono nelle loro trincee, per quanto basso potesse essere il loro morale; ma si capisce anche come abbia potuto nascere e diffondersi, perché in certi momenti il nemico ebbe davvero l’impressione di catturare prigionieri con irrisoria facilità. I resoconti trionfalistici di parte tedesca e austriaca, in cui poche intrepide squadre di assaltatori facevano prigionieri interi battaglioni, non possono essere generalizzati, e soprattutto non significano che quei prigionieri fossero dei vigliacchi; ma non sono del tutto falsi, perché molti reparti sorpresi al riparo nelle caverne prima ancora che cessasse il bombardamento si arresero davvero senza combattere. Quando fecero in tempo ad emergere dai ricoveri, le truppe si difesero e tennero duro finché vennero attaccate frontalmente; cedettero, talvolta di schianto, quando si trovarono il nemico alle spalle, grazie a quella tattica dell’infiltrazione di cui i nostri non avevano alcuna esperienza e che il lettore imparerà, invece, a conoscere a fondo."
Così caddero le munitissime postazioni del Monte Nero e del Mrzli, perni della nostra difesa. I gas furono mortali e decisivi soltanto in uno dei settori del fronte, a Plezzo, dove venne impiegata una nuova tecnica basata sul fosgene e che provocava una morte “indiretta” per asfissia. Per quanto riguarda i comandi, il “male” è da ravvisare nella scarsa autonomia consentita agli ufficiali di ogni ordine e grado, fattore che divenne fatale nel momento in cui gli austrotedeschi distrussero un gran numero di linee telefoniche e resero vani, con i fumi del bombardamento, altri mezzi di comunicazione possibili; a questi si aggiunga lo stato debilitato del generale Capello della II armata, afflitto da nefrite e per lunghi periodi convalescente; la “sfortuna” (parola necessariamente tra virgolette) di Badoglio, che non poté comunicare i propri ordini, una volta iniziato l’attacco e, più in generale, lo scollamento sociale tra gli ufficiali, spesso giovani borghesi inesperti, e la truppa, spesso costituita da veterani: situazione ben diversa dai reparti tedeschi, caratterizzati da una forte coesione tra i sottufficiali e la truppa e da una classe ufficiali più esperta.
Il disastro di Caporetto può apparire ancora più grave alla luce del fatto che, in linea di massima, i comandi italiani sapevano dell’offensiva. La notizia dell’apparizione di divisioni tedesche sul fronte del medio Isonzo era nota da fine settembre. Le numerose diserzioni nel composito e multietnico esercito austroungarico (particolarmente gravi quella dei due ufficiali rumeni, avvenuta il 21 ottobre, che consegnò la tabella degli attacchi e confermò che questo sarebbero avvenuto dalla testa di ponte di Tolmino). Difatti, i soldati italiani indossavano le maschere antigas, quella notte del 24 ottobre, ed erano stati preavvertiti. Alcuni provvedimenti predisposti da Cadorna, se applicati, avrebbero potuto attenuare la sconfitta; ma scrivere una cosa su una “circolare” non la rende automaticamente vera, anzi! Non a caso, le difese italiane, che nel settembre del 1917 erano molto deboli, erano state rafforzate nel corso di ottobre.
"Alla fine di questo giro d’orizzonte, è giocoforza ammettere che la scarsità del velo di truppe steso, in origine, sul fronte che il nemico aveva deciso di attaccare era stata in gran parte rimediata con i provvedimenti presi da Cadorna e Capello, Badoglio e Cavaciocchi negli ultimi giorni. Ai primi di settembre, quando Krafft von Dellmensingen [ex-comandante degli Alpenkorps e ufficiale di stato maggiore di von Below] aveva fatto il suo giro d’ispezione, i battaglioni inquadrati nelle quattro divisioni italiane schierate dal Rombon al Krad Vrh erano in tutto 45; con i rinforzi degli ultimi giorni, l’organico era salito a 57 battaglioni, uno per ogni chilometro di fronte."
Tutti questi movimenti di truppe furono spesso confusi. Si prenda ad esempio il caso della brigata Napoli, mal dislocata in difesa del monte Piatto, con troppi battaglioni nelle retrovie.
Perché dunque avvenne la sconfitta? I punti 4, 5 e 6 dell’elenco sopra si possono condensare con una spiegazione psicologica: l’esercito italiano era pronto (tatticamente e moralmente) all’offensiva, non alla difensiva. Del resto, era questo il presupposto con cui eravamo entrati in guerra: dare la spallata ad un impero morente e già impegnato su due fronti. E così era andata la guerra concepita da Luigi Cadorna, dal suo stato maggiore e dagli ufficiali. Il ribaltamento di tale concezione offensiva, a causa delle infiltrazioni tedesche, produsse sconcerto nelle truppe italiane, lasciate sole dai comandi (muti a causa dell’interruzione delle linee telefoniche) e disorganizzate dai recenti spostamenti e dalla consistenza “decimata” dei battaglioni.
Un cenno su Cadorna è doveroso. Barbero non critica eccessivamente il “generalissimo” italiano. Lo considera un buon generale, con concezioni forse antiquate ma in grado di aggiornarsi; le colpe di Cadorna sono nella sfiducia verso sottoposti e truppe (che si traduce nel dare loro poca autonomia decisionale) e nella scarsa capacità di autocritica, che inquinerà il dibattito del dopoguerra e l’operato della Commissione d’inchiesta.
Un libro di storia militare non può prescindere da un buon reparto cartografico. In questo senso, “Caporetto” brilla per la qualità delle cartine, che spesso riportano la disposizione delle truppe a livello di singolo battaglione e sono ricche di dettagli. In particolare, le carte 5-6 e 13 evidenziano un fatto indiscutibile, già accennato sopra: l’aumento delle forze italiane nel corso del medio Isonzo.
Stilisticamente, Barbero è un gradino sopra lo stile “arido” di molti libri di saggistica anglosassone (ne ho letti parecchi). Barbero scrive in modo semplice e, di tanto in tanto, inserisce le proprie considerazioni, a volte gustose a volte interessanti. Una cosa che invece non ho capito è la disposizione di alcuni capitoli: il bombardamento dell’artiglieria austrotedesca avvenuto la notte del 24 ottobre (capitolo VII), è analizzato dopo la narrazione dei primi giorni dell’offensiva (capitolo VI). Li avrei invertiti. Un altro “difetto”, se così si può dire, è il finale, a mio giudizio troppo rapido. Avrei gradito, confesso, che Barbero arrivasse almeno fino alla creazione della linea del Piave, invece di fermarsi ai primi giorni post-Caporetto (il famoso “carnevale”, cioè lo sbandamento delle truppe e i pochi giorni di clima permissivo che si crearono). L’analisi del perché l’offensiva s’arrestò sul Piave sarebbe stata molto interessante.
È un peccato perché i primi capitoli sono un’ottima introduzione alla battaglia, che viene inquadrata nel momento strategico (l’undicesime battaglia dell’Isonzo nell’estate del 1917 era stata un successo italiano); rivelatrice la descrizione del rapporto tra tedeschi e austroungarici, nonché delle personalità che allora erano nostre nemiche: dall’imperatore Carlo al generale tedesco von Below, Barbero coglie come gli austriaci “ce l’avessero” con l’Italia, considerata traditrice nonché una minaccia al porto di Trieste, vitale sbocco dell’impero.
In definitiva, un libro caldamente consigliato senza alcuna riserva.
L'elenco telefonico di Caporetto (ma le linee sono interrotte)
Testo veramente molto completo, storicamente informato e documentatissimo, sulla storica rotta dell’esercito italiano nel corso della prima guerra mondiale.
Il problema è che parte benissimo, quando tratteggia con piglio quasi romanzesco nomi e personalità degli ufficiali tedeschi e austriaci che sarebbero stati a capo delle operazioni, ma via via diventa una specie di elenco telefonico di nomi, dati, persone e luoghi; è veramente difficile procedere nella lettura (più di 700 pagine) senza farsi prendere dalla noia. Migliora verso la fine, quando racconta gli aspetti “folcloristici” della rotta di Caporetto, con migliaia di soldati festanti, convinti che la guerra fosse finita, amichevoli con tedeschi ed austriaci e pronti tutti insieme a dare assieme l’assalto a negozi e depositi di vivande (soprattutto gli austriaci pare fossero alla fame). Le ultime pagine, poi, fanno quasi ridere parlando di alti ufficiali e imperatori tedeschi e austriaci che si mettono a farsi vicendevoli dispettucci (non si sono mai troppo amati del resto; come si dice, Austria e Germania sono due Paesi divisi dalla stessa lingua) in merito all’assegnazione di onorificenze e medaglie.
Le conclusioni, comunque, sono molto interessanti; da un lato si ipotizza che la tenuta delle posizioni, dato il contesto e le forze in campo, sarebbe stata veramente molto difficile; dall’altra, non si fanno sconti a una mentalità militare troppo gerarchica, burocratica, fatta di chiacchiere, scartoffie e circolari più che di ragionamenti e decisioni. Se a qualsiasi ufficiale veniva di fatto impedito di prendere decisioni autonome sotto pena di sanzioni disciplinari pesantissime, è ovvio che, nel momento in cui la catena di comando veniva interrotta, non avrebbe più saputo bene cosa fare e come comportarsi; al contrario i tedeschi - proprio loro; strano eh? - avevano un’indipendenza tattica che permise alle varie squadre d’assalto di agire indipendentemente l’una dall’altra, aggirare le posizioni difensive e sfondare la linea nei punti deboli.
Peraltro in questo libro si evita la solita retorica sulla prima guerra mondale, quella di gente presa e mandata a morire a migliaia di chilometri da casa non si sa bene per chi e per cosa, o dei processi sommari e fucilazioni per tradimento e diserzione come se piovesse. Fatto apprezzabile, non perché la cosa non sia vera (e comunque se ne parla), ma perché di testi e interventi che affrontano i fatti in questa chiave ce ne sono stati veramente tanti, e difficilmente qui ci sarebbe stato qualcosa da aggiungere; al contrario, testi che affrontino la rotta da un punto di vista tecnico-strategico probabilmente fino ad oggi non se ne sono visti molti al di fuori delle accademie militari.
Un’ultima cosa. La prima guerra mondiale ce l’hanno raccontata per decenni come il momento in cui l’Italia andava alla riconquista di propri pezzi “casualmente” in mano ad altri. Sbagliato: non solo l’Alto Adige è pieno di sudtirolesi che, come diceva un mio libro di geografia delle medie, “non hanno mai voluto saperne di essere italiani” (azzardo un’ipotesi: che sia perché non sono italiani?). Non solo Trieste era una città austriaca praticamente da sempre, unico sbocco sul mare dell’impero, ed era sostanzialmente contenta di esserlo (commercio, soldi che girano… vuoi mettere?) e il fatto che vi si parlasse italiano non significava automaticamente che dovesse essere italiana di diritto. Leggendo questo libro si scopre che la valle dell’Isonzo, conquistata dall’Italia nel corso della guerra, persa nella rotta di Caporetto e poi assegnata all’Italia dopo l’armistizio (e successivamente alla Iugoslavia dopo la seconda guerra) di italiano non aveva proprio nulla. I toponimi, zeppi di consonanti e con pochissime vocali, erano tutti slavi, e la gente, ugualmente slava, non era affatto contenta dell’occupazione italiana. Ma allora, di che stiamo a parlare?
Preso su Prime reading perchè era di Barbero e volevo leggere qualcosa di suo, devo dire che è si un libro mastodontico e pieno zeppo di dettagli, ma è anche molto scorrevole e non risulta mai noioso. Di Caporetto avevo sempre sentito parlare in generale e per frasi fatte, è stato molto interessante approfondire l'argomento, soprattutto il come sia avvenuta la disfatta, nonchè le riflessioni sulle cause e tutte le varie colpe addossate all'uno o all'altro, dopo. In particolare mi ha fatto realizzare quanto credessi anche io, frutto di studi scolastici, all'immagine di soldadi codardi che scapparono alla vista del nemico. La cosa fu molto più complessa di così. Non era facile organizzare in modo preciso e ordinato tutte le varie tematiche e parti di questo argomento - penso anche solo alla descrizione dei vari corpi d'armata - ma Barbero è riuscito benissimo. Non lo vedo come un libro adato solo agli appassionati di guerre e battaglie, ma anche a chi vorrebbe conoscere meglio questo grande evento storico (diventato proverbiale).
Caporetto fu una sconfitta, e catastrofica; ma non fu una di quelle sconfitte decisive, come Waterloo, Gettysburg o Stalingrado, che decidono l'esito d'una guerra e cambiano il corso della storia. Caporetto rientra piuttosto nella categoria di Canne o Lepanto, sconfitte disastrose le cui conseguenze militari sono rapidamente riassorbite e già nel breve periodo si rivelano insignificanti.
Impressionante la quantità di informazioni che Barbero raccoglie in questo libro. Dopo un po' sinceramente si rinuncia a capire la complessità di battaglioni, brigate, ecc. ma si segue il flusso della vicenda fino al tragico culmine. Resta l'impressione che l'inettitudine dell'esercito, del governo e si può dire del paese ad organizzarsi e a far fronte per un obiettivo comune sia un atavico difetto degli italiani, che arriva fino ai giorni nostri.
Exhaustively researched, the book tells in meticulous detail the still painful story of a catastrophic defeat that paved the way to disastrous decades for all of Italy.z
Barbero riesce a spiegare con dovizia di dettagli e ampissima bibliografia e con una scrittura scorrevole uno degli eventi più tragici della storia d'Italia, una disfatta militare che si tramuta presto in disastro nazionale.
Tralasciando i dettagli sulle tattiche militari dell'epoca dei due eserciti, che potrebbero risultare ostici a chi non mastica storia militare, il libro tende cercare i motivi della disfatta in un esercito in cui la distanza, sia sociale che mentale, tra i soldati e gli ufficiali è immensa; un comando che non si pone il problema del morale delle truppe, ma è abituato a comandare emettendo dalla sue scrivanie circolari che mostrano un linguaggio retorico e pomposo, privo di qualsiasi indicazione chiara.
L'esercito italiano dell'epoca è molto classista, dove nessun soldato operaio o contadino, per quanta esperienza avesse fatto sul campo, poteva sperare di essere nominato ufficiale. Per essere ufficiale bastava essere borghese, non importa se si fosse diciottenni appena arrivati al fronte senza alcuna esperienza. Tutto il contrario di ciò che avveniva nell'esercito tedesco. Viene anche messo il punto sul fatto che quello italiano era un esercito in cui non ci si fidava di nessuno, e quindi nessun ufficiale era autorizzato a prendere iniziative al momento senza ordini dall'alto, e quindi la notte dell'attacco, con le linee telefoniche saltate per via del bombardamento, nessuno osa fare niente senza ordini. Tutto il contrario di ciò che avveniva nell'esercito tedesco.
L'ultimo capitolo secondo me è quello più esplicativo, dove si racconta la ritirata disastrosa dei soldati italiani verso il Piave, che tuttavia sembra più una grande festa che una fuga: soldati ubriachi che gettano le armi e non rispondono più agli ufficiali, felici perché la guerra per loro è finita e possono tornare a casa, saccheggiando negozi e case dei paesi che attraversano per rifarsi dei due anni passati in trincea a patire fame, freddo e costrizioni. L'atmosfera di festa viene spesso avvelenata dalle fucilazioni dei soldati che sono beccati a depredare e saccheggiare o a non obbedire a ordini dei loro ufficiali, o dall'ordine perentorio di distruggere tutto durante la ritirata.
Uno degli eventi più esplicativi secondo me è quel soldato che, ritirandosi con tutti gli altri, grida che i tedeschi possono anche andare a Milano e dare fuoco alla galleria, a lui non gliene frega niente, perché è stanco di "fare la guerra per i Veneti": insomma dopo più di cento anni, certe dinamiche italiane non sono affatto cambiate.
Mi ricordo come se fosse ieri. Avevo undici anni quando per la prima volta mi innamorai di un libro. Lo vidi sul catalogo mensile Euroclub al quale era abbonata mia mamma. Non so se fui io a sceglierlo, o lui a scegliere me. Fatto sta che lo pretesi. Letteralmente. Fu un colpo di fulmine. Un paio di settimane dopo le Poste recapitarono l’oggetto del mio desiderio tra le mie mani. Era una gigantesca “Storia fotografica della Prima guerra mondiale”. L’opera era organizzata in quattro grandi capitoli, ognuno dedicato ad un anno del conflitto. Corsi subito alla sezione del 1917, intitolata “Il mondo in lotta”. Scoprii allora con delusione che di Caporetto non se ne parlava che per due misere paginette. Il resto era consacrato a Vimy, Arras, Ypres, Passchendaele, Cambrai, l’entrata in guerra degli Stati Uniti e la Rivoluzione russa. E noi italiani? Dove eravamo? Non capivo. Una battaglia così catastrofica da mantenersi nella nostra lingua come proverbiale sinonimo di disfatta totale era davvero una nota a margine del 1917? Molti anni dopo, quando iniziai a leggere la storia della Prima guerra mondiale del grande storico Liddel Hart, la faccenda si ripeté: su seicento pagine, alla drammatica rottura del fronte italiano ne erano dedicate solo cinque. E piuttosto sbrigative, per giunta. A quell’età avevo però un po’ più di sale in zucca e iniziai ad essere sfiorato dal sospetto che le battaglie della storia non fossero tutte uguali. Alcune si rivelano decisive sin da subito. Da sole sembrano determinare l’esito di un intero conflitto: pensate a Waterloo, a Stalingrado, o alla Sedan del 1870. Altre invece, nonostante al momento appaiano risolutive, non lo sono. Le loro conseguenze in breve si riassorbono e alla fine non alterano il senso e la direzione generale degli eventi nei quali sono inserite. Caporetto è una di queste. In questo senso potrebbe essere paragonata a Lepanto, a Canne o Bunker Hill. Per questo uno dei migliori storici militari britannici può legittimamente liquidarla con poche parole. Con un po’ di onestà intellettuale siamo costretti ad ammettere che Caporetto non decise l’esito dello scontro tra l’Italia e gli Imperi centrali, e tantomeno quello della Prima guerra mondiale. Ma ovviamente c’è di più. Non solo le battaglie sono diverse nelle loro conseguenze sul piano militare. Lo sono anche – o forse soprattutto – nel modo in cui le vivono i popoli che si trovano a combatterle. Il significato e l’importanza di uno scontro non si misura esclusivamente sistemandolo sulle tacche di una ipotetica scala graduata della storia globale. Se così non fosse su Caporetto avremmo cessato da un pezzo di scrivere fiumi di inchiostro. In realtà la battaglia di Caporetto continua a catturare la nostra attenzione perché parla di noi italiani. Di quello che siamo, evidenziando i nostri difetti peggiori. Le onde d’urto prodotte da Caporetto scossero l’intera nazione al punto che ancora oggi, se tendiamo bene l’orecchio, possiamo udirne il riverbero. Ovviamente, l’aspetto militare di quella disfatta è ormai confinato nel recinto dell’analisi storica. Oggi, accostandoci ad essa, la nostra sensibilità è solleticata da altri spunti che ci sembrano sinistramente familiari: l’ottusità della burocrazia – in questo caso militare – e la pletora di comandanti da scrivania, parolai capaci solo di vergare circolari in “bello stilo” con le quali coltivavano l’illusione che per risolvere un problema bastasse metterlo in evidenza. Ma soprattutto l’impreparazione e il pressapochismo, la faciloneria, la paura di assumersi responsabilità che possano nuocere alla carriera. E ancora: gli yes-men in uniforme, i demagoghi dei giornali, i giochi di potere e la crudeltà di un apparato coercitivo forte con i deboli e debole con i forti. Direste, in tutta onestà, che l’Italia di oggi abbia ormai superato anche solo in parte questi suoi mali storici? Questo meraviglioso libro ci porta nel cuore di quella battaglia, descrivendo tattiche, strategie, condizioni ambientali e la complessità degli uomini, siano essi comandanti o semplici soldati. Ma nel contempo, in maniera discreta, ci insegna a tenere parte della nostra attenzione fissa sul presente. “Caporetto” di Alessandro Barbero è una “histoire totale” sulla scia dei grandi maestri della storiografia francese del XX secolo. La battaglia che divampò sul finire dell’ottobre del 1917 è un segno storico lontano e ancora molto vicino a noi: paradossalmente è un qualcosa che rivive ancora oggi, nella nostra quotidianità e nella continua presa d’atto delle storture del nostro vivere civile e collettivo. Non credo esista un libro migliore per riflettere su questi argomenti. Peccato solo per lo strisciante senso di amarezza che rimane. Ma questo ovviamente non è colpa di Barbero…
“ A ogni annuncio di temporale, quando cominciava a tuonare forte, anche se stava caricando il fieno già bell’e secco, piantava lì tutto e correva in casa a rinchiudersi. I cannoni di Caporetto “per il Toio continuarono a rombare finché visse”
"l’eccessiva facilità con cui venivano silurati i comandanti a tutti i livelli, l’ostentazione gratuita di inflessibile severità da parte di Cadorna e, per imitazione, di tutta la gerarchia, le continue pubbliche accuse di incapacità, negligenza, viltà fulminate contro generali e ufficiali di ogni grado, l’abitudine a punire chiunque manifestasse dubbi o esponesse difficoltà, la conseguente mancanza di franchezza nei rapporti fra superiori e inferiori, il continuo, indecente palleggio delle responsabilità giù per la scala gerarchica, fornivano “terreno propizio allo spirito critico, già così sviluppato nella nostra gente”, spingendolo a manifestarsi non con l’esposizione franca dei problemi, ma con un’atmosfera permanente di scetticismo e diffidenza verso tutti i comandi, i piani, gli ordini”
“il soldato italiano è intelligente e capace di sacrificio, “ma detesta in cuor suo i parolai, disprezza i diffonditori di luoghi comuni, e soprattutto poi non vuole essere ingannato. Ora molti dei predicatori grandi e piccini della 2a Armata tentarono d’ingannarlo sempre; egli se ne avvide e ciò contribuì molto a far perdere agli ufficiali ogni prestigio e quindi anche il dominio sulle masse nel momento di crisi”
Libro lungo, circa 514 pagine, ma mai lento o noioso. Aver rimesso insieme tutte le testimonianze riguardo un evento così controverso per la storia del nostro paese non dev’esser stato assolutamente facile. Il lavoro dello storico sí riesce dunque ad apprezzare ancora di più in queste occasioni.
Personalmente ho apprezzato molto il capitolo che racconta, come un vorticoso conto alla rovescia, i giorni imminenti prima del 24 Ottobre 1917, dove si registra lo stato di confusione (se non peggio) e di stanchezza che regnano nel l’esercito italiano; il capitolo che cerca le cause, pratiche e non della disfatta, andandole a ricercare tra i comandanti, nella società e nell’apparato militare; e infine il capitolo final dove si fa notare che Caporetto non fu una battaglia decisiva, come Waterloo o Stalingrado, ma fu più simile ad una Vanne o Lepanto (sconfitte militari che non determinano l’andamento della guerra, ma vengono riassorbite) e, nonostante questo, avrà conseguenze nefaste sul futuro prossimo del regno d’Italia. E quindi Caporetto come uno dei prodromi del fascismo.
Sarebbe bellissimo poter leggere in futuro il continuo: quindi la lotta sul Piave e Vittorio Veneto.
Beautifully written account of the infamous and tragic defeat by Italy as a country: the battle of Caporetto. It is a relatively long book that describes in detail the preparation and the happening and eventually the result of the terrible defeat during WWI by the Reign of Italy against the allied forces of the Austrian Empire and the German Empire army.
The book especially tended to be a bit boring as it often loses itself in describing every small detail of the preparation. However, the language and structure of the book allow it read through with motion and pace. Moreover, I thought this work would go into more detail in describing the organization of the military and its members which was the main cause of the defeat. However, it still gives an overview of what the generals were with their soldiers which makes this book a good choice to read. By the way, I think it is only available in Italian.
Obiettivamente non me la sento di dare 5 stelle. Indubbiamente è quasi fastidiosamente preciso. Va a spaccare il capello in quattro, c’è a chi piace ed a chi non piace, ma non per questo non metto quattro stelle, personalmente l’ho apprezzato, anche se della storia del parrucchiere del cognato dello zio di Konrad Krafft von Dellmensingen non è che mi interessi troppo. Metto quattro stelle per il contesto generale, Caporetto è stata una battaglia normalissima nel panorama della grande guerra, magari sbagliando, sento che sotto sotto, questo libro sia quasi disfattista. Probabilmente sono io prevenuto, ho male interpretato dei passaggi oppure altro, ma lo sento quasi contro italiano. Sento che manca quel principio di narrazione della storia “sine ira et studio”.
Un opera 😦 incredibile, sono appassionato di libri storici, questo è il primo che tratta della prima guerra mondiale ( solitamente prediligo e adoro le Civiltà antiche e perdute) ma c’è anche una seconda prima volta: ed è dovuta alla sua “stesura” , magari agli addetti ai lavori non sembrerà una gran cosa, ma, la scelta del professor Barbero di integrare alla narrazione lettere, diari dei protagonisti ( badoglio, capello etc etc) L ho trovato semplicemente geniale. Non è stata una lettura facile, ma gli eventi narrati ti tengono incollato al libro. Se vi piace la storia questo libro fa per voi.
Premessa: è il mio primo libro di Barbero, quindi non ho idea se questo è il suo stile oppure no. E devo dire che come introduzione, non è stata delle più incoraggianti. Anzi. Un argomento estremamente interessante e spesso poco trattato, ma ucciso dallo stile del libro. La ricerca di dettagli è minuziosa e ammirevole, ma purtroppo va a discapito della scorrevolezza del libro. Un'infinità di nomi e "pettegolezzi", spesso anche ripetuti, occupano praticamente metà del libro. Mentre il "succo" della questione sembra volare via in pochissime pagine. Sembra più accozzaglia di eventi e testimonianze, spesso troppo minuziose, che un libro di narrativa.