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Nell'agosto 2014 la tranquilla esistenza di Nadia Murad, ventunenne yazida del Sinjar, nell'Iraq settentrionale, viene improvvisamente sconvolta: con la ferocia che li contraddistingue, i militanti dello Stato Islamico irrompono nel suo villaggio, incendiano le case, radunano i maschi adulti uccidendone 600 a colpi di kalashnikov e rapiscono le donne, caricandole su autobus dai vetri oscurati. Per Nadia e centinaia di ragazze come lei, giovanissime e vergini, inizia un vero calvario. Separate dalle madri e dalle sorelle sposate, scontando l'unica colpa di appartenere a una minoranza che non professa la religione islamica, vengono private di ogni dignità di esseri umani: per i terroristi dell'ISIS saranno soltanto sabaya, schiave, merce da vendere o scambiare per soddisfare le voglie dei loro padroni.
L'abisso della prigionia, gli stupri selvaggi, le torture fisiche e psicologiche, le continue umiliazioni, insieme al dolore per la perdita di quasi tutti i parenti, vengono raccontati da Nadia - miracolosamente sfuggita agli artigli dei suoi aguzzini - con parole semplici e dirette, e proprio per questo di straordinaria efficacia. Le tremende sevizie le hanno lasciato cicatrici indelebili sul corpo e nell'anima, ma anziché ridurla al silenzio, cancellandone l'identità, l'hanno spinta a farsi portavoce della sua gente e di tutte le vittime dell'odio bestiale dell'ISIS.
Oggi Nadia è una donna libera, che ha scelto con coraggio di denunciare al mondo intero il genocidio subìto dal suo popolo, non per invocare vendetta, bensì per chiedere giustizia, affinché i colpevoli compaiano di fronte alla Corte penale internazionale dell'Aia e vengano giudicati e condannati per i loro orrendi crimini contro l'umanità. Ma il suo messaggio è soprattutto un pressante invito a non lasciarsi sopraffare dalla violenza e a conservare intatta, sempre e comunque, la fierezza delle proprie radici, e una struggente lettera d'amore a una comunità e a una famiglia distrutte da una guerra tanto assurda quanto spietata.
356 pages, Kindle Edition
First published October 31, 2017

“Since leaving Kocho, I had begged for death, I had willed Salman to kill me or asked God to let me die or refused to eat or drink in the hopes I would fade away. I had thought many times that the man who raped and beat me would kill me. But death had never come. In the checkpoint bathroom, I began to cry.”
“I don’t know why God spared me,” he said. “But I know I need to use my life for good.”
“I still think that being forced to leave your home out of fear is one of the worst injustices a human being can face. Everything you love is stolen, and you risk your life to live in a place that means nothing to you and where, because you come from a country now known for war and terrorism, you are not really wanted.”
“Rape has been used throughout history as a weapon of war. I never thought I would have something in common with women in Rwanda—before all this, I didn’t know that a country called Rwanda existed—and now I am linked to them in the worst possible way, as a victim of a war crime that is so hard to talk about that no one in the world was prosecuted for committing it until just sixteen years before ISIS came to Sinjar.”
“There was no good reason to deny innocent people a safe place to live.”
“I’m crying for you, because you did this for me. You saved my life.” “It was my duty,” he said. “That’s all.”
“Hopelessness is close to death.”