In un’Africa surreale e priva di ogni esotismo un tenente dell'esercito italiano vaga alla ricerca di un medico, guidato dal mal di denti. Si allontana dal campo, rimane solo, si perde. Hanno inizio così, per caso, le sue disavventure. Prima si convince di aver contratto la lebbra, poi fugge, certo di essere ricercato per tentato omicidio, infine si trasforma in ladro e maldestro attentatore, fino ad approdare alla capanna di Johannes, un luogo misterioso e arcano dove può iniziare a guarire. Nato da una conversazione con Leo Longanesi e vincitore del premio Strega nel 1947, Tempo di uccidere, unico romanzo scritto da Flaiano, è un’intensa allegoria della guerra, messa a nudo con ironica, spietata crudeltà.
Flaiano wrote for Cineillustrato, Oggi, Il Mondo, Il Corriere della Sera and other prominent Italian newspapers and magazines. In 1947, he won the Strega Prize for his novel, Tempo di uccidere (The Short Cut). Set in Ethiopia during the Italian invasion (1935–36), the novel tells the story of an Italian officer who accidentally kills an Ethiopian woman and is then ravaged by the awareness of his act. The barren landscape around the protagonist hints at an interior emptiness and meaninglessness. This is one of the few Italian literary works (which has been constantly in print for sixty years) dealing with the misdeeds of Italian colonialism in Eastern Africa. In 1971 he suffered a first heart-attack. "All will have to change", he wrote in his notes. He put his many papers in order and published them, although the major part of his memoirs were published posthumously. In November 1972 he began writing various autobiographical pieces for Corriere della Sera. On November 20 of the same year, while at a clinic for a check-up, he suffered a second cardiac arrest. His daughter Lelè, after a long and grave illness, died at age 40 in 1992. His wife Rosetta Rota, sister of composer Nino Rota, died at the end of 2003. The entire family is buried together at the Maccarese Cemetery, near Rome. [edit]Flaiano's Rome Flaiano's name is indissolubly tied to Rome, a city he loved and hated, a caustic witness to its urban evolutions and debacles, its vices and its virtues. In La Solitudine del Satiro Flaiano left numerous passages relating to his Rome. In the Montesacro quarter of Rome, the LABit theatre company placed a commemorative plaque on the facade of his house where he lived from 1952. Critic Richard Eder wrote in Newsday: "To read the late Ennio Flaiano is to imagine a bust of Ovid or Martial, placed in a piazza in Rome amd smiling above a traffic jam. In his antic, melancholy irony, Flaiano wrote as if he were time itself, satirizing the present moment."
la banalità del male comincia con un fastidio ai denti da curare. con un tenente di stanza in etiopia che, per risolvere un problema spicciolo, inciampa in un domino di situazioni mortali e incontrollabili, senza provare mai davvero a conoscere e comprendere gli individui e l'ambiente che gli stanno intorno. e rivelando così l'assoluta inettitudine umana e la miopia sue individuali, ma al lettore, contemporaneamente, anche la dissennatezza e la violenza dell'avventura colonialista tutta. il punto di vista di questo soldato senza nome è irrimediabilmente personale, il rapporto con l'altro di disprezzo o sfruttamento, la dimensione del suo tempo solo esistenziale. a dominarlo sono via via i fantasmi, le paure, le ossessioni: come quella di un contagio che è fisico solo in apparenza. sette anni dopo il deserto dei tartari di buzzati - a cui mi ha fatto moltissimo pensare - flaiano scrive un altro romanzo in cui la guerra c'è ma non c'è mai davvero, in cui si percepisce una sospensione ottundente attorno al protagonista, e in cui i nemici contro cui questi si trova a combattere sono prima di tutto interiori. cinque stelle, e io non amo nemmeno l'allegoria.
Non sapevo nulla dell'autore e tantomeno del libro, l'ho preso semplicemente in quanto incuriosita dal fatto che fosse stato il vincitore del primo premio Strega. Mai un premio fu più azzeccato... scrittura magistrale, storia coinvolgente, psicologia sopraffina.
“Si può impedire ad un uomo di soddisfare i suoi desideri, quando questi non lasciano traccia, futili come sono?”
Un libro davvero splendido , il primo e forse unico vero romanzo, quasi perfetto, di un autore diventato poi l’emblema della scrittura ironica e anticonvenzionale: sceneggiatore soprattutto di Fellini, ma anche di Monicelli, Antonioni, Germi, Rossellini, Risi, Petri…, giornalista e fine autore satirico, poeta epigrammatico scanzonato e irriverente.
Tempo di uccidere è in sostanza il viaggio interiore di un uomo mediocre, egoista e vigliacco, che tuttavia non si percepisce come tale. Credo che la sua reale personalità forse non sarebbe mai emersa, se fosse rimasto negli agi della vita borghese, nel suo ambiente abituale, ma che calato in una realtà estranea, quella dell’Africa durante la guerra di Etiopia del 1935-36, nella quale anche i contorni morali delle azioni si sfumano, perde tragicamente il senso delle cose e scopre lentamente (“i dubbi confortano, meglio tenerseli”) e tragicamente la sua vera personalità.
E’ il declino di un animo che si credeva nobile, carico di sentimenti puri e l’affiorare angoscioso della coscienza sporca, dei calcoli gretti e utilitaristici, dei veri e falsi rimorsi, della paura e del sospetto, che lo porteranno a uccidere, a tradire, a rubare. Nell’analisi psicologica di questo personaggio, molto sottile, ho trovato sorprendenti analogie con il protagonista de “L’uomo che guardava passare i treni”, forse uno dei migliori Simenon.
L’ambientazione africana, i contatti con un mondo e modo di vivere e pensare diverso, durante una guerra quasi conclusa, della quale percepiamo essenzialmente i sentimenti di inutilità e noia, contribuisce a dare al romanzo un’atmosfera allucinata e al tempo stesso concreta, quasi che i fantasmi di un animo umano sconvolto giocassero a materializzarsi nella natura, spesso in maniera grottesca, -in fiumi, alberi, animali e malattie - o nelle azioni e nei volti indecifrabili degli indigeni i cui occhi lo “guardavano da duemila anni, come la luce delle stelle che tanto impiega per essere da noi percepita”.
E tra le altre cose il libro si arricchisce, non poco, proprio seguendo il filo dell’incontro/scontro con l’altro, con il diverso, lo straniero, anche se più tardi uno sconsolato e pessimista Flaiano scriverà “se i popoli si conoscessero meglio, si odierebbero di più”.
C'è molto Camus in questo Flaiano e per certi versi il tenente, protagonista di Tempo di uccidere, è un precursore del Mersault di Camus, perché sembrano quasi lo stesso personaggio, il secondo, Mersault, un'evoluzione del primo, sebbene il romanzo di Flaiano sia stato scritto nel 1947 e quello di Camus, Lo Straniero, nel 1942. Due uomini che hanno in comune l'indolenza, il nichilismo morale, l'abbandonarsi alla vita lasciandosi travolgere dagli eventi che li circondano. Tutti e due commettono un omicidio casuale, volontario ma inutile, e tutti e due reagiscono, sia pure in maniera completamente diversa, senza reagire con determinazione, all'escalation e alla concatenazioni degli eventi che si susseguono. Siamo in Africa, durante la Campagna d'Abissinia del 1936 e quella che si sta combattendo è una guerra che nel romanzo c'è ma non si vede; così come l'Africa, che si riesce a percepire solo attraverso gli occhi delle donne, donne dagli «occhi che assorbivano il colore della sera», donne con il turbante bianco che messo a contrasto con il colore della pelle, e con la purezza che il colore rappresenta, mette in guardia contro il pericolo della lebbra, donne che si concedono, come prede addomesticate, sorridendo; o da un fruscio improvviso fra gli alberi, dai richiami nel buio di animali sconosciuti e forse feroci, dalla quieta brutalità degli altipiani inariditi dal sole e di terre e uomini violati dalle truppe italiane che spostandosi da una parte all'altra del territorio, presidiano, si espandono, conquistano villaggi animali e persone spinte da una ridicola mania colonizzatrice; o negli occhi immobili di un coccodrillo, che è forse simbolo del destino sempre in agguato, pronto a deviare il corso di un'esistenza senza che l'uomo possa far nulla per impedirlo.
Tutto il resto della storia, quasi tutta la storia, si agita nella mente del tenente, l'antieroe che forse nessuno si aspettava di incontrare, che nella sua apatia e nel suo autoisolamento - nella disillusione malinconica che oscilla tra la paura e la vigliaccheria, il cinismo e la noia, nella nostalgia che lo colpisce dal momento in cui sente il suo destino segnato e si abbandona al delirio e all'immobilità esistenzialista in un'agitazione che è solo interiore, lasciandosi catturare da un'inquietudine claustrofobica che finisce per spingerlo nel baratro dell'immobilità in un circolo vizioso che lo spinge a fuggire, ma per tornare sempre al punto di partenza - finisce per diventare straniero alla vita. È rivelatore, in questo, il rapporto vittima carnefice che si instaura fra il tenente e Johannes, il vecchio indigeno con il quale si trova a vivere a tu per tu, in totale solitudine, per molti giorni in un villaggio abbandonato, in un continuo scambio di ruoli in cui l'un l'altro si sfidano, si compatiscono, si umiliano e si sostengono a vicenda, fino a desiderare l'uno la morte dell'altro, ma senza essere capaci di volerla fino in fondo e di annientarsi, perché sono l'uno il completamento dell'altro.
Personalmente ho trovato superfluo e didascalico l'ultimo capitolo, inutile nella sua funzione di voler spiegare ogni cosa e voler mettere ogni tassello al suo posto; credo che il finale di quello precedente, se anche avesse lasciato qualche interrogativo nel lettore, ne avrebbe fatto un romanzo ancora migliore, un romanzo che conquista e avvince pagina dopo pagina. Inquietante al mio orecchio, ma spiegabile con gli arcaicismi dai quali deriva, e in uso nella letteratura dell'epoca, l'uso che Flaiano fa del condizionale presente laddove, oggi, utilizzeremmo senza dubbio alcuno quello passato.
Eccolo qui un libro sulla paura, quella che rende vili e vigliacchi. E’ la storia di un tenente italiano qualsiasi durante la guerra di Etiopia - 1935-1936 -, e il suo comportamento sembra essere la rappresentazione in scala ridotta della linea di condotta del suo paese. La sua paura non è quella che attanaglia prima, che è quella dei savi, né quella che attanaglia dopo, che è quella dei coraggiosi, la sua è quella che afferra durante, che è quella che fa uccidere e non per un ideale, ma solo per salvar la pelle, che fa abbandonare una persona in difficoltà perché aiutarla pregiudicherebbe la propria salvezza, quella paura che poi fa trovare giustificazioni al proprio comportamento meschino. Da subito si intuisce la codardia del tenente, prova solo un filo di vergogna a voltare le spalle al primo compagno di viaggio. E da qui è un crescendo, anzi una discesa agli inferi, molto graduale, ad ogni prova speriamo che possa reagire meglio, non da eroe ma perlomeno da uomo, il lettore fa fatica ad accettare che sia proprio un personaggio negativo, ma questi non si smentisce. Codardia, egoismo, ignoranza, non rispetto del diverso, falsità, opportunismo. Eppure non si riesce a condannarlo, è un uomo comune, come tanti, come noi, inserito in un contesto che non conosce in una guerra ancor più vigliacca e disorganizzata. La sua dignità è profondamente compromessa, come quella dell’Italia macchiata, pochi anni dopo e come se non bastasse, dalla vergogna dello sterminio dell’Amba Aradam. Neanche il luogo ricordiamo con rispetto, ma gli attribuiamo solo il significato di un gran casino…
Misero me, brindo alla morte. Proprio come Flaiano, mio nonno andò in Etiopia, sbarcò a Porto Said, partecipò all'occupazione, ebbe un incidente, scrisse un diario e tornò. Prevedibilmente, il diario suona retorico quanto un proclama di Mussolini e roboante come un’esternazione di D’Annunzio. Grottescamente fuori luogo, per essere il diario di uno spedito in Etiopia a morire di noia e di caldo. A chiudere un’infinita serie di tramonti, serate amichevoli, guardie inutili, considerazioni sulla superiorità della civiltà occidentale e aneddoti curiosi, c’è un brano surreale ma non privo di un certo magnetismo persuasivo. In esso il nonno si dipinge come l’eroe italico che torna a testa alta dopo aver offerto la propria vita sull’altare della Patria e che orgogliosamente pretende il saluto e il rispetto dei suoi connazionali. Può darsi che abbia copiato il brano da un reportage propagandistico, ma non escludo l’abbia scritto di suo pugno. Poco cambia: quel finale tradisce l’inconfessabile delusione di essere andato in Abissinia solo per giocare a carte e bere con gli amici. Per due lunghi anni. Con la moglie incinta a casa e le vigne affidate a un estraneo. Se portò a casa delle cicatrici fu per un incidente stradale di cui non ha mai raccontato molto; sospetto che non fosse una missione di vitale importanza. Quando mio nonno, di punto in bianco, prende a parlare di Patria, sofferenze, Onore e Orgoglio, sta (inconsapevolmente?) giustificando la gita in Abissinia. Vai in Africa per due anni e al ritorno non puoi dire che hai passato il tempo a dormire, fare guardie o lavori inutili, andare a donne e giocare a carte. Quindi le vicende di mio nonno e del protagonista del romanzo sono quasi speculari: tanto caldo, due risate coi commilitoni, un po’ di lavoro inutile e uno sfortunato incidente fuori dalle ore di servizio. Flaiano non prova neanche a costruire un’epica sul nulla, intuendo che il contesto si presta più a un racconto esistenziale. Fa del protagonista un giovane ufficiale non particolarmente brillante. Buona istruzione, poco carattere, subisce gli eventi e i capricci del caso: una carie dolorosa lo costringe a chiedere una licenza per cercare un dentista; un soldato lo accompagna in furgone ma escono di strada; i soccorsi tardano e lui decide di procedere a piedi; sbaglia strada a un crocicchio perché una carcassa copre un’indicazione; si imbatte in un’etiope e tenta goffamente di concupirla; di notte, crede di sentire uno sciacallo e spara, ma ferisce la donna. E così via, di male in peggio. Un incubo in prima persona nella mente alterata del protagonista, che è goffo, privo di carattere eppure pronto ad ogni miseria pur di venirne fuori. Naturalmente non fa che affondare sempre di più; naturalmente è ancora una volta il caso a decidere che si salverà. Ma dopo 400 pagine, sappiamo che il salvataggio è solo apparente, e che Mariam lo tormenterà per il resto della vita.
"L'ingegnere e l'indigena [...] si uccidono scambievolmente e ciascuno col mezzo di cui dispone. L'ingegnere uccide da uomo pratico che non ha tempo per verificare un fenomeno già sufficientemente controllato dall'esperienza, e senza chiedersi quali conseguenze porterà il suo atto. L'indigena uccide come uccide la sua terra, con tutto il tempo"
La cornice del romanzo è la guerra d'Etiopia del 1936 - evento storico misconosciuto di cui si tralascia spesso e volentieri di parlare - ma si tratta più che altro di uno scenario "metafisico" per un dramma individuale, esistenziale, interiore. A partire da una serie di eventi accidentali che portano a un omicidio, il percorso è tutto psicologico, attraverso sensi di colpa, ripensamenti, angosce, paure, rimorsi; ma questo non lo rende affatto un romanzo noioso e pesante in cui "non succede niente"; tutt'altro, in un crescendo di delirio in cui non si distinguono più pericoli reali e immaginari, il lettore è trascinato nel gorgo del mondo interiore del protagonista.
In questo mondo interiore, e sono lì dentro i cadaveri, la lebbra, i coccodrilli, non sembra più esistere un senso, una morale, una rettitudine in grado di guidare il comportamento.
"Eppure, non mi sembrava che valesse tanto la vita di una persona che si incontra per sbaglio - si, per sbaglio -, la vita di una persona che ci è sembrata qualcosa di più di un albero e qualcosa meno di una donna. Non dimentichiamoci che eri nuda e facevi parte del paesaggio. Anzi, eri qui a indicarne le proporzioni."
(Tuttavia, merita una riflessione a questo riguardo il personaggio del vecchio Johannes, emblematico ed enigmatico, che rappresenta in qualche modo una realtà oggettiva, il tempo e la sua consapevole saggezza)
In questo percorso di conoscenza di se stesso ("Più che un delitto, anzi, mi appariva una crisi, una malattia, che mi avrebbe difeso per sempre, rivelandomi a me stesso"), il protagonista sembra trovare solo una sorda rassegnazione a un sordo impulso vitale.
"Io ero [...] un cadavere diverso, anelavo ancora alla vita." "Mi chiedevo se era quella la rassegnazione, quel vuoto aspettare, contando i giorni come i grani di un rosario, sapendo che non ci appartengono, ma sono giorni che pure dobbiamo vivere perché ci sembrano preferibili al nulla."
"Mi faceva spavento di più la speranza che stava sorgendo, dapprima timida, ogni giorno più insolente, perché era il segno che avrei maggiormente sofferto, una volta fuori di quella valle, dove il mio male passava inosservato. Mi faceva spavento pensare che volevo sopravvivere a ogni costo [...]."
Dove conduca infine il percorso non è dato sapere, sebbene nel finale tutto si ricomponga.
"I dubbi confortano, meglio tenerseli"
La scrittura di Flaiano non è sempre limpida (o sarà colpa del fatto che questo libro l'ho letto quasi interamente nelle mie lunghe notti insonni), ma di sicuro è efficace ed evocativa. Un romanzo splendido, chissà perché è l'unico che l'autore abbia scritto.
Un soldato italiano si trova tra Eritrea ed Etiopia durante l’invasione coloniale degli anni 30. Commette un omicidio di una donna indigena per pura sfortuna: una pallottola che rimbalza mentre spara a ombre notturne che lo perseguitano soltanto, forse, nella sua mente.
Con i nervi tesi al massimo, l’ufficiale del Regio Esercito protagonista del romanzo vaga nella terra di nessuno: o meglio, nella terra degli indigeni sotto occupazione italiana.
Flaiano svela tutta la nullità della causa coloniale tanto perorata dal regime fascista: i soldati sono più preoccupati del proprio arricchimento, sia trafficando con i materiali dell’esercito, che inseguendo vane promesse di sfruttare risorse minerarie inesistenti.
Il romanzo analizza la psicologia umana a una profondità tale che il lettore dubita continuamente della versione dei fatti raccontata dal protagonista. Il senso di colpa e l’assurdo della realtà circostante scatena nel protagonista un delirio che gli fa compiere azioni sempre più insensate per non farsi scoprire.
Tra angoscia e paranoia la realtà percepita si deforma fino a trasformarsi in teatro dell’assurdo. È il teatr(in)o della guerra in Abissinia, a cui Flaiano stesso ha partecipato e la cui rappresentazione in questo suo unico romanzo gli valse il primo Premio Strega della storia (1947).
Avevo sì deciso che tutto era stato uno sbaglio, però uno sbaglio che non poteva essere “sbagliato” altrimenti.
Il diario africano degli errori di un anonimo tenente italiano inizia con la ricerca di un dentista tra carcasse di muli che indicano la via, alberi che sembrano di cartapesta e camaleonti che fumano sigarette. In un continente più psichico che reale, popolato da indigeni con un loro nome (Mariam, Johannes, Elias), gli italiani si qualificano come il sottotenente, il maggiore, il dottore, il contrabbandiere, il marinaio. Nessun nome, nessuna responsabilità.
Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.
Esiste un luogo geografico e soprattutto mentale, dove il caldo opprime e la noia soffoca, dove i freni morali si allentano e la paura si espande; e dove tutto conduce dritto al tempo di uccidere. Ma tanto si trova sempre una giustificazione per i propri errori, una autoassoluzione per le proprie colpe, un non luogo a procedere per i propri crimini, sia quelli individuali che quelli collettivi. La tromba del Giudizio è stonata.
“La paura ha infinite gradazioni e può essere classificata. C’è la paura che afferra prima, ed è la paura dei saggi e dei prudenti. La paura che afferra dopo, ed è quella dei coraggiosi; e c’è infine la paura che afferra durante, ed è quella che uccide, o che rende vili.”
Unico romanzo scritto da Flaiano e vincitore della prima edizione del Premio Strega, questo libro è stato una sorpresa. L'ambientazione è il Corno d'Africa, il periodo è la guerra d'Abissinia, ma della guerra non v’è traccia fra queste pagine, e pure l'Africa descritta da Flaiano, più che da un Atlante geografico, pare essere uscita da un racconto de Le mille e una notte. In questo luogo-non-luogo, in un tempo-non-tempo, si aggira il più meschino degli uomini che, per colpa della propria paurosa vigliaccheria e della propria misera mediocrità, si troverà a vivere una serie di avventure che a poco a poco sgretoleranno tutte le sue illusioni, mettendo a nudo il suo dramma esistenziale. Ed arrivato alla fine del romanzo, un dubbio mi ha assalito: quel tenente, così opportunista, vigliacco, meschino, inetto,
Leggendo varie recensioni anche al di fuori di Goodreads, ho avuto l'impressione che ognuno veda in questo libro quello che vuole (anticolonialismo, paura del diverso, codardia etc etc). Di mio posso solo dire che e' un libro veramente notevole, a me ha trasmesso tutta l'angoscia di un uomo mediocre che si trova a fare i conti con i risultati delle sue (superficiali) azioni, ed a pagarne pesantemente le conseguenze. Molto molto bello, da approfondire e da meditarci sopra.
Felicissima di averlo letto dopo essere stato riportato alla mia attenzione dai commenti di chi leggeva insieme a me "Ferrovie del Messico". Qui una scorciatoia, un medesimo dente dolente, un protagonista già perso prima di perdersi, mi hanno introdotta in un viaggio virtuale fra recessi dell'animo, paura ammorbante, villaggi sperduti. Un filo rosso a evitare di lasciare il sentiero e di perdermi per sempre è stata la sottile riflessione sulla labilità esistenziale e sull'inutilità di qualsiasi guerra, non solo quelle fra Stati armati. Consigliatissimo.
Una casualità dà il via a un romanzo dolente, in cui ogni evento si verifica casualmente: da un semplice mal di denti che colpisce un militare italiano che combatte in Africa seguono una serie di eventi, il cui fulcro è l’uccisione di una donna indigena incontrata (appunto) per caso, che lo coinvolgono in una spirale di sensi di colpa e rimorsi, di paure, pensieri e ripensamenti continuamente rimuginati dal protagonista di cui ignoriamo il nome. La guerra ha portato la morte in un paese che conosce anch’esso la morte, di un altro tipo: l’uomo civilizzato “uccide da uomo pratico che non ha tempo per verificare un fenomeno già sufficientemente controllato dall’esperienza, e senza chiedersi quali conseguenze porterà il suo atto. L’indigena uccide come uccide la sua terra, con tutto il tempo, del quale ha un concetto così sbagliato”. Ognuno uccide con i mezzi di cui dispone, scrive Flaiano, e il romanzo si potrebbe riassumere in due parole come uno scambio di morte. Nel finale, però, “l’equità” dello scambio viene meno, il mistero si risolve lasciando il protagonista –ed anche il lettore- con l’impressione che sia stata tutta una illusione, anche se non tutti i dubbi sono sciolti e chiariti. Nonostante l’intensità della scrittura, in particolare dei momenti di introspezione efficaci e coinvolgenti, non mi sono affezionata al protagonista, anzi ho provato forte fastidio verso quest’uomo roso da conflitti interiori e da ossessioni amplificate da un’ambientazione asfittica e delirante, guidato nelle sue scelte esclusivamente dall’istinto di sopravvivenza e dalla presenza di una Lei in Italia cui votare i pensieri e convogliare le forze quando è disperato, sempre in bilico tra più possibilità di agire, che vengono ogni volta vagliate e mai coerentemente portate a termine.
تنقل الناقدة آنا لونغوني في المقدمة التي كتبتها كمدخل للرواية جزءًا من مقالة نشرها مؤلف الرواية يسرد فيها الحيثيات التي رافقت كتابة الرواية.
كانت الرواية بحسب المؤلف وليدة وعد قطعه المؤلف لصديقه الناشر، إثر طلب الأخير منه أن يكتب رواية ويسلمها له بعد ثلاثة أشهر.
في البدء اعتقد المؤلف بأن الأمر لا يعدو أن يكون مزحة، ولكن تعابير وجه الناشر والبريق الذي لاح في نظراته، أكد له بأن صديقه جادٌ في طلبه. وكما هو متوقع من الأصدقاء، أو ربما لتأكيد صداقته للناشر، وافق المؤلف على الطلب، ولعله لم يدرك الورطة التي أوقع نفسه فيها إلا بعد أن استلم نصف المكافأة المالية على أن يستلم نصفها الآخر بعد تسليم المسودة.
وهكذا تحول الأمر الذي كان يظنه المؤلف في بادئ الأمر مزحة، إلى شيء حقيقي وواقع يجب عليه التعامل معه، وبالفعل قام انتهى من المسودة وتسليمها في الوقت المحدد.
كان يمكن أن ينتهي الأمر عند هذا الحد ويعود المؤلف إلى ممارسة حياته الاعتيادية لولا أن الرواية التي كتبها على عجالة، ولم يكن مقتنعًا بها (لدرجة أنه لم يعاود كتابة رواية أخرى غيرها)، نالت إعجاب القراء، وثناء النقاد .. وفازت بأعرق جائزة أدبية في إيطاليا. ظل المؤلف يعتقد بأن فوزه بالجائزة كان نتيجة خطأ أو سهو وبأنه محتال ولا يستحق الجائزة وتولدت لديه بسبب ذلك شكوك حول جدوى وجدية الجوائز الأدبية.
صحيح أن هنالك أمورا كثيرة في الرواية، وتحديدا الخاتمة، كان يمكن أن تكون أفضل مما هي عليه، إلا أن الرواية في المجمل رائعة وينطبق عليها وعلى مؤلفها القول الذي نردده دون أن نعنيه كثيراً "لو لم يكتب غيرها لكفته"
لماذا أعيد سرد الظروف التي ولدت فيها الرواية ؟ لأن حبكة الرواية تقوم على شيء شبيه بذلك، إذ تبدأ الرواية بوجع ضرس يصيب أحد الجنود المشاركين في الحملة الإيطالية في إثيوبيا، حدث صغير وقد يُستخَف به، ولكن بسبب هذا الحدث التافه ومنه تتوالى أحداث تتعاظم وتكبر مثل كرة ثلج، ظلت تلاحق الجندي وهو يركض هربًا منها.
Accidenti! Un'introspezione in prima persona con la potenza e la sagacia di Flaiano. Ha ragione la Bellonci in prefazione: "Non li fanno più i premi Strega di una volta"
Un capolavoro d’incastri, di sassolini lasciati per strada e poi ripresi. Una struttura mirabile (peccato per l’ultimo capitolo, ma di quello parlerò dopo), dove tutto regge e si sostiene vicendevolmente senza una vera e propria ossatura portante se non quell’andare senza senso in un’Africa rappresentata come un luogo irreale. E con il continuo pensiero di uccidere. Vuole uccidere tutti, il tenente di cui non sapremo mai il nome, dapprima Mariam, poi il dottore, poi il maggiore, infine Johannes e persino il piccolo Elias. Un desiderio distruttivo per liberarsi dalla paura di essere accusato di omicidio e poi condannato. O forse, un bisogno di distruggersi per scuotersi dall’indifferenza e dall’apatia a cui la vita del campo l’hanno condannato.
Si trova, il tenente, in Abissinia durante la campagna fascista del 1936. Il caso – assurdo e indifferente e innocente come tutti i casi – lo porta a perdersi mentre, durante una breve licenza, va alla ricerca di un dentista. E’ il caso, quindi (il poco eroico mal di denti) che fa cercare al tenente una scorciatoia indicatagli da un giovane zelante soldato, e che lo fa perdere nella boscaglia, sino ad incontrare Mariam, che si sta lavando, nuda, in una pozza. Dopo la prima idea di chiedere la strada per l’altopiano alla donna e poi di andarsene, il tenente deciderà di pretenderne i favori. Questa sua decisione, come tutte le altre che prenderà lungo il romanzo, non sono dettate da chiare motivazioni, se non, forse, come ho detto prima, dal desiderio di scuotersi dall’apatia abulica e dalla morte sonnolenta della vita al campo. La donna lo allontana, seria, ma senza particolare rabbia, e alla fine giaceranno insieme. Di nuovo il caso, e il sassolino lasciato da Flaiano. La donna porta sui capelli un turbante bianco. Apparirà molto più tardi, in testa ad altre donne, un turbante simile, e il tenente scoprirà che è sinonimo di lebbra. Chi lo porta è un appestato, un intoccabile..
Giace con la donna, il tenente, e di nuovo pensa di andarsene e di lasciarla, e di nuovo resterà con lei anche quella notte, così come resterà poi a lungo con Johannes, forse il padre di Mariam, che incontrerà in uno sperduto villaggio dove il vecchio vive ormai solo con i suoi morti. Poi, di nuovo il caso. Mentre lui e la donna giacciono abbracciati, l’ombra furtiva di qualcosa (una bestia feroce, forse), si avvicina al fuoco. Il tenente spara, e una pallottola colpirà gravemente Mariam. Ed ecco di nuovo il tormentarsi dell’uomo sulle decisioni da prendere: correre di notte, al buio, con le fiere spaventose che possono aggirarsi nella boscaglia a chiedere aiuto chissà dove e chissà a chi, o restare accanto alla donna morente? Infine, l’unica scelta che il tenente riterrà possibile: uccidere Mariam, nasconderne il corpo, evitare così possibili denunce ed arresti. Da qui, la sua odissea, fisica ed emotiva: vagherà a lungo per quell’angolo remoto di mondo, dove l’Africa non è più Africa ma un posto indeterminato che si fa metafora; incontrerà vari personaggi, penserà sempre e solo che possano sospettare di lui, e sempre desidererà ucciderli.
Romanzo splendido, scritto in modo magistrale, dove la tensione dell’attesa del castigo, o forse del suo desiderio, mettono in continua tensione il lettore (il pensiero a Delitto e castigo di Dostoevskij mi è venuto spontaneo, oltre che a “Lo straniero” di Camus a cui molti hanno fatto riferimento per l’atmosfera esistenzialista, il non senso e l’apatia che percorrono il libro). Tutti i personaggi sono vividi e vivi, uno più incisivo dell’altro - di ognuno si ricorda un particolare, un sorriso, una frase, il carattere o lo sguardo, come la splendida figura di Johannes, ma anche il maggiore, e il piccolo Elias, e la stessa Mariam. Tempo di uccidere poteva essere un capolavoro se non fosse stato per quell’unico neo dell’ultimo capitolo, dove il tenente, assieme a un suo amico sottufficiale, fa un lungo excursus sugli avvenimenti capitatigli analizzando tutti e vari perché e percome, le diverse possibilità che avrebbero potuto essere “se”, le motivazioni degli atteggiamenti altrui, in un tentativo di chiarire dei lati oscuri che forse sarebbe stato meglio lasciare vaghi , invece “ha dovuto scrivere un ultimo capitolo per chiudere i buchi che le troppe combinazioni, simmetrie, coincidenze, avevano finito con l’aprire”.cit. Ma d’altra parte sono convinta che ogni romanzo non può che rischiare la perfezione, con la tenace speranza di non raggiungerla mai.
Un libro spiazzante, fatto di simbolismi e particolari sfumati. Lo notiamo innanzitutto nell'ambientazione, perché l'Africa non è mai descritta nella sua realtà ma solo come una terra ostile ed estranea, abitata da indigeni assuefatti alla sottomissione. Gli stessi soldati italiani non sono personaggi a tutto tondo ma poco più che tipi umani, atti a rappresentare varie declinazioni del ruolo dell' invasore (il trafficone paternalistico, il cinico indolente e via di questo passo). E' evidente che dietro questa impostazione narrativa si nasconde una critica feroce alla colonizzazione ma il romanzo non si esaurisce solo in questo, anzi uno dei lati più interessanti è proprio l'oscillare continuamente tra l'universale e il particolare. La vicenda del protagonista infatti è allegoria della guerra ma anche un viaggio introspettivo nella mente umana. Il pretesto di trama è l'uccisione di una donna africana da parte di un tenente qualsiasi, che tormentato dai rimorsi e dalla paura compirà una serie di scelte sempre più assurde e stranianti. Paradossalmente sono proprio i suoi flussi di coscienza la cosa più viva e concreta del libro, mentre la realtà che lo circonda viene percepita quasi come un sogno, continuamente rimodellata dalle sue sensazioni; l'esempio lampante è la malattia, che sembra quasi una manifestazione fisica dei suoi tormenti interiori. Il finale rimarca questo contrasto, perché dimostra come nulla sia davvero cambiato fuorché nell'animo del protagonista. Un'opera del genere è indubbiamente di pregio, ma secondo me sull'altare della profondità di contenuti ha sacrificato un po' della piacevolezza che dovrebbe avere ogni romanzo, a prescindere dalla qualità. Ne risulta un testo denso di riflessioni ma mai veramente coinvolgente.
La gioia di aver scoperto un romanzo italiano significativo e profondo si unisce allo stupore di non averlo mai letto prima. Certo tratta un tema imbarazzante, l'avventura italiana in Etiopia, dove il sopruso, la rivoltella facile dimostrano, meglio ribadirlo, che gli italiani non sono poi cos� brava gente. Non si nomina mai il fascismo, tra l'altro, lasciando al singolo la responsabilit�, la colpa delle proprie azioni. Cos� diverso, dunque, dagli altri romanzi italiani del dopoguerra. La profonda ricerca interiore, dove il castigo dopo il delitto � ancorato nelle piaghe dell'anima come della carne, si unisce all'ossessione di non riuscire a tornare a casa; prigionieri pi� che di quest'ambiente incombente, del proprio cuore di tenebra.
Tempo di uccidere è la storia di un’impresa coloniale che corrompe l’animo di chiunque vi prenda parte, compreso il nostro protagonista (antieroe d'altri tempi) che si dichiara fin da subito per niente convinto e anzi disgustato dai proclami del regime. La colonizzazione si trasforma in una malattia che non andrà mai via e tornerà, di tanto in tanto, a mostrarsi sulla pelle e a far sentire il suo fetore. Ma la malattia più grave e forse incurabile sarà quella dell'animo.... Quella di Flaiano è un'opera direttamente connessa alla tradizione del romanzo della crisi (Dosto, Camus, Conrad, Buzzati, Lobo Antunes).
A distanza di anni ha sempre qualcosa da dire come tutti i grandi romanzi.
l'Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.
Se non fossimo venuti non avrebbero mai sospettato che si può condurre una vita meno difficile, a patto di perdere le loro qualità e di acquistare i nostri difetti.
Al limite della disperazione, venne ciò che temevo: la speranza.
L'imperialismo, come la lebbra, si cura con la morte.
Voglio cadere a pezzi, rispondevo, ma vivere sino all'ultimo momento. Non posso lasciare il cielo, anche se è un cielo di piombo come questo, non posso lasciare nulla, nemmeno questo cespuglio, nemmeno i giorni più mediocri e le notti più cupe, o le persone che odio: nulla.
"Caro mio," gli dissi "le cose non vanno affatto bene. Anzi, dammi un consiglio. Io ho fatto questo e quello per rivederla e che cosa ho ottenuto? Che non la rivedrò tanto presto. Ho fatto un mucchio di sciocchezze per entrare in Paradiso e adesso eccomi in questa specie di inferno, a chiedermi che cosa succederà. Non piango sul passato, ma vorrei sapere se è giusto che i muli debbano crepare ai bivi, in un'Africa così grande. Vorrei sapere un'altra cosa: tutto quello che ho fatto è per Lei, o per me, che l'ho fatto? E una domanda imbarazzante."
Il prossimo è troppo occupato coi propri delitti per accorgersi dei nostri.
Il primo premio Strega italiano: una lettura impegnativa per la trama, anche se con uno stile decisamente scorrevole. Il protagonista non ha ispirato in me nessun tipo di empatia: mi sono ritrovata ad osservare la sua storia e i suoi pensieri odiandolo, non capendo l'insensatezza della maggior parte delle sue scelte.
Un tenente dell'esercito italiano (uno qualunque, tanto è vero che non ci viene mai detto il nome) uccide per errore una donna indigena e ne occulta il cadavere; da questo evento hanno inizio una serie di disavventure narrate in prima persona. Non è un giallo: l'omicidio è un espediente per far affiorare l'atteggiamento degli italiani verso gli indigeni, l'Africa e la guerra. Ho trovato la lettura lenta e difficoltosa, tutta concentrata sui pensieri del protagonista. Flaiano riesce comunque a far vivere al lettore l'atmosfera di attesa dei soldati, il cui unico pensiero è il rientro a casa. Nessuna retorica e nessuna esplicita presa di posizione contro la guerra, ma è evidente il disappunto dell'autore verso una campagna militare che è diventata occasione di traffici illeciti, di giustizia sommaria e di vuota ideologia.
Romanzo forte, fastidioso come un insetto, pesante come il caldo africano, che comunica la terribile spietatezza di un mondo violento in cui è difficile vedere speranze: Flaiano non ci molla, quasi ci costringe a seguire il protagonista (la narrazione in prima persona porta ad un immedesimazione ancora più scomoda) nel suo cammino di morte e insulsa violenza. Efficace e duro, l'unico punto in cui mi ha convinto meno è stato l'immagine dell'Africa nera come selvaggia, mortifera, incomprensibile...un elemento già visto in Conrad....
Conoscevo il Flaiano sceneggiatore, naturalmente, e altrettanto ovviamente conoscevo il Flaiano autore di aforismi fulminanti, irresistibili, tremendamente veri (il mio preferito? “La situazione politica in Italia è grave ma non è seria”, ma potrei andare avanti per ore). Non conoscevo, colpevolmente, il Flaiano romanziere, ma ho una scusante: Tempo di uccidere è il suo unico romanzo dato alle stampe e, nonostante il successo ottenuto coronato dalla vittoria della prima edizione del Premio Strega, non fu mai considerato importante dal suo stesso autore (“La sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso (…) Ricevevo un premio ambito per un romanzo che ora trovavo tutto da riscrivere”).
Tempo di uccidere è ambientato nell’Africa della guerra coloniale italiana del 1936, teatro evocato e lasciato sullo sfondo di un dramma più intimo e personale: quello del protagonista del romanzo, un tenente italiano significativamente anonimo, come sconosciuti restano i nomi di tutti i nostri connazionali nello sviluppo della trama. Mentre infatti i locali sono identificati per nome, incontreremo via via il maggiore, il dottore, il contrabbandiere, il marinaio. Se non c’è il nome non c’è una responsabilità, e Tempo di uccidere è, essenzialmente, un libro sulla viltà, sulla paura, e quindi sulla responsabilità.
Nella continua ricerca di una giustificazione per tutti gli errori – persino un omicidio – che compie, il tenente troverà una giustificazione. Una operazione umanissima, che prende ognuno di noi. In casa, sul lavoro, nelle amicizie: quel momento orribile in cui istintivamente pensi “sì, vero, MA…” e ti si affaccia alla mente quella che percepisci davvero non come una scusa, ma come una spiegazione. Nella mia esperienza, quasi mai lo è, e Flaiano ce lo racconta perfettamente in un romanzo da tratti metafisici e quasi onirici, potente, evocativo.
Coccodrillo=Harghez Il coccodrillo sarebbe stato il titolo scelto da Flaiano per questo suo primo (e unico) romanzo. Solo per questioni editoriali Longanesi chiese all’Autore di cambiarlo: pare non gli piacesse, avendo pubblicato in quel periodo anche un Elefante e un Camaleonte e temendo i troppi animali sulle sue copertine. Ma la proposta di Flaiano non poteva essere più opportuna: il coccodrillo è presente infatti in tutta la storia, ed "è" la storia: quella del Tenente protagonista e quella di ciascuno di noi. Pericolo silente e temibile come le casualità e gli imprevisti che perseguitano la vita; presenza infida e nascosta, come le angosce e i tormenti che pervadono la mente; in agguato come gli incubi e le paure; addormentata e lenta come il Tempo che scorre in quei luoghi spesso surreali, dove l’orologio si è fermato, e nelle persone impigrite dalla noia. È un racconto che diventa un colloquio con se stesso, tra passato e presente, in cui la natura partecipa alla sensazione di desolazione e incertezza, con gli alberi di cartapesta, le ombre ostili e i corvi che volano anche sui pensieri. È una lettura psicologica paradossale e ironica della mente umana, delle sue paure e dei suoi fantasmi, delle irrazionalità che permettono di credere a tutto e al contrario di tutto, delle assurdità che arrivano a far giustificare omicidi e turpi azioni pur di alleggerire la coscienza dai sensi di colpa.
La quinta stellina è rimasta a coprire la mia mente messa a nudo. _______
E i giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?
بتحب التّفاصيل الكتيرة؟ هتحب الرّواية. بتكرهها؟ مش هتكمّل الرّواية. لكن أقدر أقول إنها رواية مبنية من حدث جانبي، حصل في أثناء حدث كبير، وبتأثر في شخصية البطل وبتحوّله. زمن القتل، من وجهة نظري، هي رواية الكتابة من أجل الكتابة، وليس من أجل إثبات أي شيء آخر.
« Eppure, non mi sembrava che valesse tanto la vita di una persona che si incontra per sbaglio – sì, per sbaglio – la vita di una persona che ci è sembrata qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna. »
Questo romanzo (l’unico) di Flaiano è stato una piacevole scoperta, che probabilmente non avrei mai fatto senza la mediazione scolastica. Scorrevole, avvincente, si fa leggere con curiosità: un certo gusto del macabro e l’attrazione per le cose ripugnanti guidano il lettore sui passi del protagonista, un tenente italiano impegnato nell’“aggressione” coloniale fascista dell’Etiopia. Sebbene lo sfondo sia quello dell’asfissiante paesaggio africano, infido e vibrante di colore, il luogo meglio descritto da Flaiano è lo spazio interiore, umano, il paesaggio del delirio, della violenza senza riposo, della tracotanza senza oggetto. Ultimata, la tela è spaventosa. Spaventosa forse troppo per le mie forze. Pessimista forse troppo anche per me. Una fiammella di quello che legittima l’essere umano a trovare un posto su questo orizzonte – la sua capacità di amare, essere amico, solidale – una fiammella minuta, giusto per scaldarsi i polpastrelli, ecco, quella mi sarebbe piaciuta accesa. Invece si esce da Flaiano con addosso un gran freddo. Alla faccia dell’Africa. Scritto splendidamente, forse troppo, forse prolisso in alcune elucubrazioni (o nella grande, pervasiva Elucubrazione di cui si compone), “Tempo di uccidere” ha mancato di ritagliarsi un posto nel mio cuore. Questo, tuttavia, non lo rende un romanzo meno valido. Lo affido all’affetto di lettori più cinici di me.