Al centro di questo romanzo ci sono tre vite, tre visioni del mondo, tre modi diversi e complementari di sopravvivere alla contemporaneità. Il loro spazio è la Albecom, azienda informatica che sorge alla periferia di Marghera; l'ha fondata, ancora giovanissimo, Alberto, "trentaquattro anni, apprezzata abilità nell'assemblare mobili Ikea, una passione per la buona tavola e il culto della chiarezza". Tra i programmatori che lavorano per lui c'è Luciano, con cui Alberto condivide l'amore per internet fin dai tempi del liceo. Ma, a differenza dell'amico, Luciano si trova a suo agio dietro le quinte: schivo e paralizzato dalla propria scarsa avvenenza, si rifugia nel lavoro e nel rifocillamento dei gatti randagi di Marghera, tormentato solo, di tanto in tanto, dal desiderio di avere qualcuno da rendere felice. A completare il triangolo c'è Giorgio, il pre-sales dell'azienda, procacciatore di nuovi clienti: "percorso da un brivido di elettricità sempre", tiene nel cruscotto della macchina "L'arte della guerra" di Sun Tzu, che consulta come un oracolo. E così, mentre Luciano allaccia con Matilde, barista della tavola calda di fronte alla Albecom, un'amicizia presto caricata di nuove speranze e Giorgio riceve una proposta sottobanco da un vecchio collega, le giornate dei tre amici si intrecciano in un groviglio di segreti e tradimenti che si dipana tra la provincia veneta e le città di mezza Europa e che li costringerà, infine, a compiere scelte sofferte e decisive.
Francesco Targhetta insegna come supplente materie letterarie, dopo aver concluso all'Università di Padova un dottorato in Italianistica (durante il quale ha lavorato alla riedizione de Gli Aborti di Corrado Govoni) e dopo un assegno di ricerca incentrato sulla poesia simbolista di fine '800. Ha pubblicato un libro di poesie (Fiaschi, ExCogita, 2009) e un romanzo in versi (Perciò veniamo bene nelle fotografie, Isbn, 2012).
Non l'avrei comprato mai. Poi è arrivato un bookblogger di giovane età e di buone letture che mi ha convinta. Signora mia come sto invecchiando male. Una volta avrei arricciato il naso al solo pensiero..Questo libro mi era sfuggito. Sarà stata un po' colpa del Campiello e un po' mia che non avevo letto bene. Mi interessa quasi tutto quello che viene scritto sul Nordest, perché ci vivo, perché conosco un sacco di scrittori, perché mi piace vedere come leggono questa realtà che mi lascia spesso a bocca aperta, essendo io acquisita. Il miglior libro degli ultimo anni secondo me è stato Works di Trevisan, davvero irraggiungibile. Comunque, il giovane autore (giovani? Ha quasi 40 anni. Io sto proprio invecchiando male, chiunque abbia due anni meno di me è 'giovane') è di Treviso, insegna a scuola e doveva sorprendermi. Per certi versi l'ha fatto, ci vedo del gran potenziale, e dell'ottima scrittura. La trama mi interessa poco, come la solito; la vita dei personaggi e quello che gli gira in testa molto di più. E ci ho riconosciuto una parte di questo mondo in cui vivo, e non solo perché la geografia dei luoghi è la stessa mia. E' un libro interessante, e la scrittura ancora di più. Mi piace il periodare e la ricerca di un vocabolario un po' fuori dal comunque. Mi piace come racconta gli uomini, le donne forse le conosce un po' meno bene, ma ci prova, del resto, è giovane! Spritz in accompagnamento, inutile dirlo, magari non a Marghera, che vi viene la depressione!
Nelle intenzioni dell'autore, da quel che si può trarre dalla lettura del romanzo, sembra esserci l'ambizione di costruire una storia intorno ad un nucleo tematico forte, ovvero la realtà produttiva del nordest convertito all'informatizzazione. Al centro, c'è l'impatto di queste trasformazioni sul mondo del lavoro e sulla vita personale dei protagonisti del romanzo, che, di fronte al moltiplicarsi delle potenzialità o all'illusione del moltiplicarsi delle potenzialità, reagiscono in modo opposto, che cercando di coglierle tutte, chi rinunciando. Ma è proprio nella descrizione della realtà produttiva che il romanzo è, a mio parere, debole e quasi scolastico. Non l'ho trovato, perciò, un romanzo ben riuscito, per apprezzando la limpidezza e accuratezza dello stile, che si apprezza in modo particolare nelle descrizioni dei luoghi in cui è ambientata la storia, davvero meritevoli.
Altre coscienze liquide e precarie, dopo Cometa di Magini e Un'altra cena di Lisi. Qui si tratta di una narrativa di lavoro, dove ci sono luoghi e situazioni anonime ma con noccioli duri di esistenza.
trentacinquenni eterosessuali, benestanti, insoddisfatti dalle proprie vite sentimentali (uno) e professionali (gli altri due), si crogiolano nel proprio brodo. c'è un sacco di panorami, di sguardi assorti, bignami lonely planet di qualche città europea, pochi fatti e, quei pochi che accadono, totalmente banali. il narratore si dà, a tratti, vaghi toni di lirismo che rimangono sospesi per aria parecchi chilometri al di sopra di qualunque considerazione significativa. è interessante l'idea di raccontare 'sto Nord-Est tecno-industriale e le solitudini (?), le incomprensioni (?), le competizioni (?) che lo popolano, ma questo rimane: un'idea. il romanzo è superficiale e ha preso tutte le scelte più prevedibili. e poi, 'ste donne. o siamo incinte e l'unica nostra preoccupazione è non avere un uomo; o siamo workaholiche ma comunque devote compagne che null'altro sognano se non garantire la propagazione dei geni del nostro partner; o siamo valide amiche epperò non ci rendiamo conto di avere un palco di corna che nemmeno un cervo a primavera; o siamo turbofregne giovani e ambiziose che appaiono in un'unica scena per poi rivelarci appiccicose e monogame peggio delle cornute corrispondenti. il massimo a cui possiamo aspirare è il "rispetto teutonico" di un'autista di car sharing e, lasciatemelo dire: non vuol dir niente, di per sé, ma è il sintomo più evidente che questo romanzo è stato scritto da un adolescente. daje, giuria dei letterati del campiello, daje.
Le vite di Alberto, Luciano, Giorgio e Matilde, così legati al lavoro da somigliare molto a persone reali conosciute nel tempo. L’ambiente veneto antropizzato, la zona industriale e il vuoto di certa provincia.
Scrittura non male, ma che rimane fin troppo funzionale alla trama. Adatto a tirarci fuori un film. [67/100]
Un libro adolescente, scritto in un modo artificiale e sforzato, ma contiene comunque i brani sorprendenti e interessanti che segnalano sia una buona intuizione che un talento.
Un ritratto lucido e a tratti cinico ma comunque veritiero di una generazione e di un territorio. Un uso della lingua italiana fuori del comune nel descrivere e narrare con brillantezza e profondità la contraddizioni insite negli angoli delle nostre esistenze. Un primo romanzo in prosa che lascia presagire grandi cose. Complimenti all’autore Francesco Targhetta
Il libro che ospita la scrittura più arguta, limpida, evocativa - fatemi dire, da urlo (o da premio)? Questo! Targhetta restituisce con immagini originali e potenti una realtà di per sé facile agli stereotipi, vale a dire l’operoso, a tratti spersonalizzante aziendalismo del Nordest, perché ti proietta con efficacia nei pensieri, idiosincrasie, debolezze dei tre protagonisti. Personalmente ho provato tanta empatia per Luciano, il debole del gruppo e, come spesso tanti deboli, il più corretto ma anche la preda più facile delle angherie dell’ufficio...e della vita.
Un buon libro. Una storia potenzialmente interessante, uno stile funzionale e consapevole: ma l'impatto emotivo? Il "qualcosa in più" che renderebbe grande il buon libro? Assenti. Ciò non toglie che Targhetta sappia scrivere sul serio e che abbia qualcosa da dire su una realtà, quella del Nord Est italiano (e del lavoro ivi contestualizzato), che evidentemente conosce e comprende a fondo. Manca però quella verve autoriale capace di comunicare tale contesto a chi, come la sottoscritta, non può dire di conoscerlo altrettanto. Per giunta, l'approfondimento psicologico mi è parso piuttosto spiccio, il che è difficilmente perdonabile ad un libro che fonda la propria ragion d'essere sull'interiorità dei personaggi. Tre meritate stelle per una prova un poco al di sopra di quella mediocrità, dall'accezione né negativa né positiva, per la quale personalmente non impazzisco.
Messaggio per l'editor. A pagina 186 si legge: "Alberto, prima, in ogni caso, avrebbe dovuto andare con Luciano a Norimberga". Il verbo servile 'dovere' assume, nel tempo composto, lo stesso ausiliare richiesto dal verbo che accompagna: nella lingua parlata questa regola viene sempre più spesso disattesa, tuttavia mi auguro che sia stata una svista!
Provenendo da quelle terre, da quegli anni di formazione (fine anni Novanta), ho rivisto nei personaggi alcuni aspetti di me stesso e di persone conosciute, sullo sfondo di un Veneto a me noto ed in evoluzione, non sempre positiva, verso un futuro slegato al nostro retaggio contadino di grandi lavoratori indefessi ("signorsi comandi" d'antan). I tre protagonisti vivono delle vite parallele, talvolta fisicamente talvolta mentalmente, più' che potenziali. Forse il personaggio meglio approfondito e' Luciano, mentre quello meno approfondito, quasi tralasciato anche alla fine, e' Giorgio. Il più' complesso, nel senso di descritto in modo contraddittorio lungo le pagine, e' Alberto. Oltre al linguaggio talvolta usato, come già' segnalato da altri goodreaders, queste incongruenze e/o mancanze di approfondimento lasciano talvolta basito il lettore, oltre a non marcare sempre bene i passaggi da un personaggio all'altro nei paragrafi. Riconosco del potenziale allo scrittore, e attendo la sua prossima fatica. "La gente si lagna [...] perché' in realtà' vuole l'attenzione degli altri, l'empatia, l'affetto, l'amore. La gente si dovrebbe lamentare solo di questo: che nessuno le vuole bene davvero". "Resistere stando ai margini e' sempre più' difficile: tutti devono sentirsi inclusi, ossia, in qualche modo, felici".
Targhetta ha una sensibilità linguistica evidente, affascinante, probabilmente attribuibile al suo essere anche poeta; in questo suo primo libro in prosa questa perizia nell'uso della lingua e delle immagini è al servizio di un romanzo che riesce ad essere al contempo sociale e introspettivo, ma al quale, a mio giudizio, manca qualcosa, un gancio a livello di trama che trascini la vicenda. Il motore infatti non è il plot che muove i tre personaggi principali, tre amici che lavorano nella stessa azienda di informatica in un Nord Est italiano descritto in modo vivido e preciso, ma le loro vite interiori. Sicuramente molto interessante, non del tutto riuscito.
Come si fa a descrivere poeticamente la vita in una zona industriale di una cittadina veneta? Chiedetelo a Francesco Targhetta, abilissimo nel rendere accattivante e scorrevole una storia che tratta di temi non semplici come dinamiche umane e lavorative all'interno di un'azienda. Un libro molto diverso da tutti quelli che ho letto finora. Mi è piaciuto molto lo stile di scrittura.
Ben scritto, abbastanza attuale come tematiche e pieno di riferimenti sottili a come il linguaggio informatico si possa applicare alla vita di tutti i giorni, se fai il programmatore il lavoro te lo porti dentro anche nella quotidianità.
Alberto, Luciano e Gianni. Tre compagni di scuola, amici e poi anche colleghi. Marghera diventa lo sfondo di un’analisi cinica della nostra società tra solitudini, ambizioni e insicurezze. Ho faticato ad ingranare la lettura ma pian piano mi sono fatta appassionare...
Non sono riuscito nemmeno a finirlo. Una trama senza alcun filo logico, ho fatto tanta fatica a seguire l’autore che si perde in flussi di coscienza inutili. Non consigliato
Vite potenziali di nerd del nordest, ancorati a diversi gradi al lavoro e a un'amicizia destinata a sfaldarsi: Targhetta le racconta con semplicità, senza pretese sociologiche e senza uno stile particolarmente ricercato, risultando a ogni modo abbastanza convincente, anche se mentre si legge al libro sembra sempre mancare quel "qualcosa in più" per risultare memorabile.
«Quella testardaggine nell’inadeguatezza, forse, però, era segno di qualcosa di nuovo, come se la loro incompetenza e la difficoltà nel venire a capo di un problema fossero improvvisamente divenute una responsabilità e una colpa altrui – della società, dei capi, dei padroni –, da cui una specie di cocciuto orgoglio da loser, abbinato persino a un po’ di boria, ma senza nessuna coscienza di classe o ideologia, anzi, frutto di una deriva individualistica portata allo stremo. “Mettetemi alla prova: riuscirò a sbagliare sempre” sembrano voler dire, perché nessuno ha mai comunicato loro che non sono all’altezza, nessuno li ha mai davvero rimproverati, nessuno ha mai provato a correggerli, e così qualsiasi loro carenza è un j’accuse verso il resto del mondo, una mancanza di cui si deve far carico il sistema, l’evidenziazione di una falla di cui loro sono soltanto portatori passivi, se non addirittura vittime sacrificali. Da quando le cose avevano preso quella china? Certo, c’è anche gente brava; sono, di solito, i più ambiziosi. Gli unici che, alla domanda “Dove ti vedi tra cinque anni?” non rispondono citando lo stesso ruolo per il quale si sono presentati al colloquio. Gli unici che cercano di mettere a frutto quell’individualismo per emergere e non per appiattire il mondo sulla propria mediocrità. Gli unici che hanno capito quante vite si debbano vivere per riuscire a stare a galla, e che le vedono sommarsi ogni giorno a quella presente, le loro vite potenziali».
Non mi è piaciuto. Troppe parti raccontate, troppi pensieri e stati d’animo descritti invece che mostrati. Il finale è un anticlimax quasi imbarazzante. Non si salva per il fatto di usare una lingua ricercata.