“La chiave nel latte” racconta la storia di un ragazzo di origini marocchine che cresce in Ticino, nell’Alto Malcantone, dopo che la madre lo ha affidato a un’anziana vedova di nome Elvezia. Il romanzo procede per frammenti, ricordi che la voce narrante riporta alla luce: i giocattoli dell’infanzia, le feste religiose, le partite di hockey sull’asfalto, le infatuazioni; ma ci sono anche le vacanze a Casablanca, una città che il protagonista vede per la prima volta a dieci anni e che immediatamente suscita in lui sentimenti di spaesamento e di rifiuto. Pur sentendo sua la Svizzera, non potrà eludere una messa in discussione della propria identità che lo porterà a interrogarsi e a interrogare i lettori fino alle ultime pagine del libro. Una scrittura essenziale e precisa, che mescola con naturalezza lingue e culture diverse, dal dialetto dell’Alto Malcantone a quello del Marocco, dal gergo sportivo ai classici della letteratura italiana. “La chiave nel latte” ha vinto il Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima.
La chiave nel latte è il romanzo d’esordio di Alexandre Hmine, vincitore del Premio Studer/Ganz 2017 per la migliore opera prima. La storia raccontata è quella del figlio di una diciassettenne di origine marocchina, fuggita dal suo paese d’origine per evitare le conseguenze e il disonore di una gravidanza indesiderata. Ad accoglierla in Svizzera c’è sua sorella, la quale vi risiede già da un po’ di tempo. A sette mesi dal parto, il bimbo viene affidato ad un’anziana signora, Elvezia, la quale se ne occuperà per gli anni a venire.
Devo ammettere che la lettura di questo romanzo mi ha piacevolmente sorpresa: la trama è semplice e nello stesso tempo coinvolgente. Lo stile della scrittura è essenziale, caratterizzato da appropriate interpolazioni di frasi in dialetto Ticinese e qualche parola in arabo. Questa tipologia testuale, l’ho trovata limpida ed opportuna, in quanto riflette egregiamente il contesto di vita del protagonista.
Quello che si fa maggiormente apprezzare è la capacità dell’ autore di descrivere i ricordi del personaggio principale, attraverso una scrittura fatta di lampi di luce proiettati su frammenti del passato, una sorta di sipario che si apre e si chiude, cristallizzando momenti, situazioni, sensazioni tattili e perfino odori e rumori particolari, come per esempio gli zoccoli di Elvezia che si trascinano sul pavimento di legno della casa. Una scelta di stile, questa, che restituisce un romanzo pregno di suggestioni e dal sapore fortemente evocativo: i ricordi sono vaporizzati sulla carta in modo da risultare in alcuni passaggi netti, nitidi, in altri invece più eterei.
Ho trovato piuttosto significativo il fatto che in tutto il racconto non si trovi alcun riferimento ai nomi propri dei vari personaggi: l’unico nome che s’ impone granitico è quello della donna che si occupa del ragazzo: Elvezia. La donna è anche la sola a meritare una dettagliata descrizione fisica, quasi a voler sottolineare l’importanza del suo ruolo. Questa considerazione, trova riscontro nell’episodio in cui il ragazzo scopre casualmente, ascoltando di nascosto una conversazione, che sua madre retribuisce Elvezia per il suo mantenimento: ne rimane ferito, un sentimento che non riesce a reprimere, nonostante sia consapevole del fatto che si tratti di una cosa normale, nulla di cui rattristarsi, nessun inganno…
La chiave nel latte è la storia di un ragazzo che maturando acquisisce consapevolezza delle sue origini marocchine, ma fatica ad accettarle completamente e a sentirle sue, in quanto cresciuto prevalentemente in Ticino, nell’Alto Malcantone. Una dualità che gli lacera l’anima e lo porta più volte a farsi delle domande sulla vera essenza della sua identità. Una dicotomia che si traduce in comportamenti, talvolta caratterizzati da contraddittorietà e ambivalenze; una dissonanza lacerante che lo porta a ripercorrere le strade consuete del paese dov’è cresciuto, con un senso di estraneazione. La riflessione sul suo io, assume le proporzioni di un cruccio ricorrente che si esacerba quando si trova al centro di un pasticcio burocratico: in municipio, dopo trent’anni, scopre che il nome riportato sul suo certificato di nascita, non corrisponde a quello sugli altri documenti d’identità… Tutto attorno a lui è in continuo mutamento: i fidanzati di sua madre, le donne, perfino il suo nome. L’unico punto fisso sembra sempre essere l’ Elvezia, e quando perde anche lei è forse un po’ come perdere un pezzo di se’.
Il titolo è piuttosto originale. Mi sono interrogata per tutto il romanzo sul motivo per il quale è stato scelto, ma solo arrivata all’ultima pagina ho scoperto il suo intenso significato, che va oltre le parole e affonda le sue radici nell’inconscio.
È un romanzo autobiografico il cui focus è la crescita tra due culture, araba e ticinese, inizialmente conflittuale e poi, via via, sempre più equilibrata su una matura accettazione. Pur essendo la prova d’esordio dell’autore, si intuisce subito la sua grande consapevolezza narrativa, fin dalla didascalia iniziale, quasi da film, che fornisce le coordinate iniziali senza forzature e aggirando il problema di una narrazione al presente, non onnisciente e poco propensa alle riflessioni avulse dalla realtà più contingente e puntuale. Dopo l’iniziale didascalia, la prima pagina propriamente narrativa non fa che confermare e addirittura accrescere questa impressione di grande maturità. La vicenda comincia in medias res e con una narrazione a presa diretta, quasi da camera eye (i primi tre frammenti sono introdotti con due “vedo” e un “sento”) e il tempo presente, oltre a vivacizzare l’intera vicenda e a evitare l’impressione di leggere una noiosa memoria, ci dà l’illusione che il racconto sia ancora in fieri, con noi lettori come suoi testimoni privilegiati. Partendo la narrazione da quando il protagonista è davvero piccolo, è molto efficace la resa a frammenti di immagini e brevi episodi che si sono impressi nella memoria con tale forza, da poterne riemergere anni dopo, anche se con la patina nebbiosa del tempo; questa è resa dalle formulazioni dubitative (non so se, forse, …), espressione di ricordi spesso focalizzati su alcuni aspetti, ma ormai sfocati per il resto. Hmine rende molto bene anche la parlata e il pensiero di un bambino, con la relativa prospettiva obliqua e il gusto per il dispetto, le predilezioni irrazionali (il 9 sotto al bicchiere), l’eccitazione per la novità (che sia il cibo o il televisore), l’ingenuità un po’ ignorante (per esempio l’avversione al Franscini, per colpa del quale bisogna andare a scuola), il vivere schiacciati sul presente, i sotterfugi stupidi per non fare qualcosa (fare scorrere l’acqua per fingere di aver lavato i denti) e la predominanza emotiva, per cui a fissarsi sulla pagina sono prevalentemente stati d’animo; insomma, assai raramente un bambino è stato reso con tanta bravura nella nostra letteratura. Le strategie per una resa non artificiosa comprendono anche una resa più approssimativa del discorso diretto e riportato, i termini in lingua originale (arabo e francese) e le marche dialettali Il problema della razza emerge, più che per episodi di razzismo (non è certo l’epiteto “Quellonegro” ad esserlo, rientrando casomai in quella rude schiettezza montanare che chiama le cose secondo la loro caratteristica più evidente, ma senza giudizi), nella consapevolezza del protagonista, non subito a fuoco, ma sempre attenta. Fin da subito infatti il protagonista è conscio di questa diversità, che porta con orgoglio, pur non capendola, vedendola come un qualcosa di aggiunto (che può farlo esultare per la vittoria del Marocco nel Girone F), anche se a volte troppo ingombrante, soprattutto se comporta un suo diretto impegno. Questo si vede bene nei tentativi della madre di insegnargli l’arabo, a cui lui controbatte che dovrebbe imparare lei il dialetto (ma qui rientra anche il saltuario rigurgito contro questa madre che si presenta solo a tratti per esercitare il suo ruolo), oppure nel suo viaggio in Marocco, che lo frastorna e lo aliena e che rientra nella normalità con la bellissima scena del cous cous con Elvezia. Le due donne principali del libro hanno sia caratteristiche contrarie, la madre è desiderata dagli uomini, civettuola, abituata al lusso, mentre Elvezia è ormai anziana, spartana e rustica; sia tratti comuni, come la solitudine e un amore per il protagonista da madri. L’importanza di Elvezia è intuibile inoltre dal fatto che è l’unico personaggio con il nome esplicitato, quasi in suo omaggio, invece gli altri personaggi sono corpi e voci, quasi spettri del passato, per lo più dai contorni un po’ indefiniti, tranne la madre, la portatrice di questa arabità che per la prima parte del libro è iniettata a dosi nel protagonista, con un suo certo timore, e viene da lui seguita un po’ casualmente e a sprazzi superficiali poco coscienti (non mangia ad esempio maiale, ma tante altre cose arabe non le abbraccia). Gradualmente poi, soprattutto a causa del confronto con l’esterno, che si fa più maturo, come il protagonista cresciuto, la consapevolezza si accresce, riconoscendo in quella araba una seconda cultura posseduta solo in teoria e che va riscoperta nella pratica, in dialogo interiore con quella ticinese, vissuta e ben conosciuta. Nell’adolescenza tuttavia questa cultura araba è soprattutto un qualcosa in più, da indossare per distinguersi nella competizione con gli altri (accesa, persino in una partita a ping-pong), per avere un’arma in più nella schermaglia erotica, poiché il carattere del protagonista per ora non muta molto, con la sua vergogna, le proiezioni e i conflitti interiori, ma viene trasposto nella tensione identitaria e sessuale dell’adolescenza. In questo periodo paninaro i valori del protagonista, più che sulla diversità culturale (appunto da lui considerata solo in superfice, senza interesse per conflitti e altro, ben chiari invece a sua madre), si basano sulla diversità di aspetto, sui vestiti e gli oggetti di marca che suscitano l’invidia dei compagni. Lo scarto avviene quando il protagonista scopre che sua madre paga l’Elvezia per tenerlo: questo è il momento in cui i miti, l’autonarrazione e la narrazione di un futuro che vorrebbe in un certo modo, ma senza nessun aggancio alla realtà, sono forzatamente dissipati. Elvezia diventa una figura concreta, non più romantica, e parallelamente evolve anche l’interiorità del protagonista. Uno dei picchi d’intensità del libro è infatti la separazione da Elvezia, dove Hmine dispiega tutta la sua padronanza stilistica: è la fine di una madre e dell’infanzia. Si avvia così un momento di crescita difficile, con emozioni mai davvero esplicitate, perché troppo immense (la separazione da Elvezia e la resistenza passivo-aggressiva alla madre); emozioni che si proiettano su scuola, relazioni e su tutto il resto, oscurandoli, in un mondo di per sé già più spigoloso dell’infanzia e prima adolescenza, più duro, dove le piccole autoincensazioni sono ormai impossibili e dove le maschere assumono peso e responsabilità. Lacerata la pellicola che a Vezio isolava l’interiorità del protagonista dal mondo esterno, garantendole una pace fittizia, emerge la vita vera, difficile, fatta di compromessi e di ripetute sconfitte, dal protagonista gestite assai male, come il resto dei conflitti. Il risultato è una rabbia di fondo, di chi non capisce e non si capisce, sfogata meschinamente (ad esempio con il furto dell’estintore). L’unica luce che sembra balenare a tratti è quella della letteratura, ancora non ben compresa, proprio per il blocco interiore del protagonista, ma preludio alla sua crescita, il cui risultato “ultimo” è questo romanzo. Cambia anche il registro, che diventa più concreto e pragmatico, più duro e scuro. All’università arriva il momento in cui il confronto con la cultura araba si fa più serrato. Tra la burocrazia, che evidenzia scomodamente la sua diversità, e i primi sgarbi razzisti che subisce (l’uomo che affitta l’appartamento, il maresciallo), tra le lezioni di linguistica e altre persone curiose, il protagonista si accorge con vergogna di non essersi mai davvero interessato alla sua cultura di origine e non per scelta, piuttosto per superficialità e pigrizia. Questi sono i primi momenti in cui ci riflette davvero, anche sull’onda di una nuova forma mentis dovuta ai suoi studi letterari. Non è un cambio repentino, bensì un percorso doloroso, bruciante di vergogna e rabbia, vissuto con animo inquieto, che spesso dardeggia acido verso l’esterno, come nell’episodio di xenofobia verso il venditore. Il protagonista non si tratteggia a belle tinte, né rifugge dal rappresentare gli inciampi di questa ricerca di identità; inciampi che comunque non si eliminano mia. In fondo quanti di noi provano un certo fastidio a essere avvicinati da un venditore e soprattutto a essere da lui chiamati “capo” o “fratello”/“sorella” (per motivi diversi). Piano piano emergono indizi di un nuovo percorso verso una maturità più quieta e pacifica. Naturalmente l’aggressività verso la famiglia (soprattutto verso il patrigno), lo scetticismo verso la cultura araba, la difficoltà ad affrontare gli scacchi rimangono, ma scene come quella del trasloco o della correzione della tesi da parte del professore fanno intravvedere questo mutamento. E una maturità accresciuta comporta finalmente che le domande che si agitavano come magma inquieto sotto la superfice fin dall’adolescenza emergano: Chi sono? Dove vado? Frammento a cui subito segue la scoperta del nome multiplo, che ancora di più conferisce drammatica all’identità incerta. Poco dopo si ha inoltre un’altra scena molto simbolica, determinata dalla cultura araba ormai dal protagonista accolta e introiettata, seppure in maniera non pacifica e mettendone in discussione molti aspetti. Questo fatto comporta infatti che il suo sentirsi svizzero, prima dato quasi per scontato, ora vacilli e vada ridiscusso. Il suo fastidio nel guardare i fuochi d’artificio del 1° d’agosto dopo aver interrotto il testo arabo per eccellenza, Le mille e una notte, testimonia molto efficacemente questo stato d’animo combattuto. La fine è stupenda, riallacciandosi circolarmente al picco drammatico, al momento in cui l’Elvezia cessa di essere la vera madre, che arriva la separazione dalla bolla di Vezio, che permetteva di ignorare la cultura araba e il resto del mondo fuori di lì, di illudersi che tutto fosse chiaro e lineare, senza scarti e contraddizioni. È il momento in cui il protagonista deve cominciare il percorso di conoscenza vera di se stesso. Alla fine del romanzo la crisi ci dice solo che finalmente è uscito dalle false ma rassicuranti certezze, essendo però ancora ben lontano dall’arrivare a una pacificazione delle sue due anime e ancora di più dal recuperare un passato di ostile opposizione, che lo hanno reso ancora più estraneo e, in un certo senso, colpevole. Il protagonista guida il lettore davvero con mano ferma, da scrittore esperto, da un lato, ma dall’altro anche da grandissimo improvvisatore jazzista. Il tema di fondo infatti è sempre lo stesso: un autobiografismo a sprazzi, schiacciato sull’attimo presente degli stessi (poco è detto dell’insieme che li accoglie, benché questo emerga molto bene) e che evita di costruire un discorso davvero completo e articolato, ma cerca invece la resa mimetica della memoria, coi suoi percorsi selettivi, i suoi tagli d’autore sugli elementi interessati e il punto di vista alla camera-eye. Su questo tema il protagonista innesta le sue variazioni, dalle note più sfocate, ariose e spensierate dell’infanzia, ai toni comicamente epici della prima adolescenza, dove la competizione emerge in ogni partita o attività, coi contrappunti più penetranti dell’avvio all’erotismo, quelli pungenti delle prime riflessioni sulla propria cultura; dalle note più larghe del liceo, con le loro variazioni a singhiozzo, quando il mondo si apre e coglie il protagonista impreparato, sommergendolo in una sfida cupa, che si vuole con la realtà circostante, ma è solo con se stesso, risolta grazie all’ancora della letteratura, che aiuta il protagonista a fare i conti con il suo dissidio interiore, agli anni dell’università, dove il tema esplode in un caleidoscopio di note, dalle percussioni che ritmano i primi coinvolgimenti emotivi davvero seri, alle penetranti e malinconiche note del sax, che trasmettono la consapevolezza di essere diverso e di avere un io ancora in gran parte da scoprire. E poi c’è l’epilogo dolcissimo, quasi commovente, con la lettura del romanzo alla tomba di Elvezia; è un momento che copre la crisi interiore, non sedata alla fine del libro, solo incrinata, come neve, nascondendola almeno per un po’, portando una sorta di pace.
https://labibliotecadellibraio.blogsp... Difficile cominciare questa recensione perché il libro non mi è piaciuto per niente, una lettura frammentaria data anche dalla scrittura dello scrittore che attraverso pensieri e balzi temporali ha descritto la vita di questo ragazzo di origini marocchine. Non conosco l'autore e non ho letto nulla di suo finora ma come primo approccio purtroppo non è andata per niente bene. Un ragazzo che cresce con Elvezia, una donna che vive in Ticino, per poi tornare dalla madre naturale. Un racconto per me ostico, troppe volte ho dovuto soffermarmi per l'uso del dialetto, della lingua araba che ha creato molta confusione. La storia poi devo essere sincera il più delle volte non ha un senso logico, lasciando il lettore interprete dell'evoluzione di questo ragazzino che si trova a dover interagire attraverso due mondi che non conosce, prima le usanze della donna a cui è stato affidato che si prende cura del bambino che cresce, poi è la volta del ritorno della madre che lo porta con sé per fargli conoscere le sue origini, parlandogli e insegnandogli le letture sul Corano.
Cosa non mi è piaciuto di questo libro, la scrittura, il linguaggio, la prima è troppo scarna, le frasi concise, povere di descrizioni, inoltre le pause tra un racconto e un altro, non c'è fluidità, manca proprio la coesione e ci si perde facilmente. Per quanto riguarda il linguaggio invece la difficoltà maggiore è stato l'uso del dialetto e della lingua di origine del ragazzo. Un altro particolare è il titolo, La chiave nel latte, non ho trovato nessune connessione con la storia,
Un'interessante storia di un giovane di origini marocchine che, però, non cresce con la madre marocchina, ma con un'anziana donna in un villaggio di montagna in Ticino. Mentre la descrizione della sua vita quotidiana durante l'infanzia e la giovinezza sembra in parte molto normale, quasi banale, i momenti di discriminazione e pregiudizio traspaiono più volte, a scuola, nella squadra di calcio, nella ricerca di un appartamento, all'università. Le domande sull'identità e l'appartenenza sorgono presto, intuitivamente, ma rimangono senza risposta. I punti di contatto con la famiglia marocchina, i nuovi fidanzati della madre, la vita stessa in Marocco contribuiscono ad aumentare i dubbi. Poiché il narratore non impara mai l'arabo, che gli viene ripetutamente richiesto, gli viene negato l'accesso alla cultura e allo stile di vita della sua famiglia biologica.
Trattandosi di un racconto di formazione, il lettore sperimenta naturalmente le esperienze dell'amore iniziale e di quello successivo. Anche in questo caso, però, si scontrano due mondi che il narratore difficilmente riesce a districare e a rendere adatti a lui.
Sebbene questo libro contenga tutti gli elementi che per me fanno una buona storia, non sono completamente entusiasta. Ho trovato lo stile narrativo con brevi sezioni, che il lettore deve ripetutamente comprendere e ricollocare in termini di tempo, spazio e situazione, molto faticoso e inutilmente confuso.
Siamo in un piccolo paese fra le montagne del Canton Ticino. Elvezia è una donna anziana, alle cui cure una ragazza affida il proprio bambino di sette mesi, fuggendo dal Marocco dove le toccherebbe, a soli diciassette anni, affrontare le conseguenze e il disonore di una gravidanza sconveniente. Da quel momento il bambino (innominato, ma si può giurare che si chiama Alexandre…) cresce in un microcosmo di paese, parlando unicamente un ruvido dialetto e ignorando del tutto la sua lingua madre, fra il tennis e il calcio giocato per strada, feste di piazza, le prime emozioni d’amore, con scarsi contatti con il mondo di città e brevi vacanze a Casablanca, incontrando sporadicamente la mamma e il resto della sua famiglia. A scuola, insegnanti e compagni sempre più spesso gli chiedono di dove sia, dando per scontato che comprenda l’arabo e lo parli. Ma lui mastica il tedesco e il francese, parla malamente l’italiano e non sa una parola di arabo. È abituato a mangiare la polenta ma non il maiale, il cui solo odore gli dà la nausea. Ha scarsi legami affettivi, e più che a chiunque altro vuole bene ad Elvezia che, con i suoi cibi semplici e le sue poche frasi asciutte, riesce a dargli il nido caldo di cui ha (tutti abbiamo…) bisogno. Nella confusione di affetti e relazioni, il giovane svizzero-marocchino sceglie l’Italia per i propri studi universitari: si laurea in letteratura italiana, nei classici e nello studio del latino trova una sorta di patria dell’anima che va oltre le molte patrie che la vita gli ha imposto.
Opera prima di grande sensibilità, La chiave nel latte utilizza una narrazione in prima persona, costruita per flash interiori che mescolano fra loro eventi sparsi dall’infanzia all’adolescenza alla maturità in un singhiozzo di lingue diverse e mischiate, capaci di riflettere la difficoltà di chi cresce in un mondo non suo e nel contempo ha radici lontane ineludibili e stampate sui lineamenti del viso. Il disagio delle origini poco conosciute, la fatica di sentirle proprie, il malessere nel percepire la diffidenza verso il “diverso” negli occhi del prossimo traspaiono limpidi pur nella esposizione frammentata, fatta di piccole inquadrature sul passato, sorta di didascalie in un album di fotografie sfogliato velocemente, in un fluire continuo di memorie e riflessioni. Il linguaggio utilizzato dall’autore non ha incertezze, e conduce il lettore attraverso un vero cesello di sentimenti e lacerazioni fino ad un’ultima pagina che, svelato finalmente il significato del titolo, gli lascerà una nota dolce e davvero emozionante.
Libro narrato con una struttura peculiare tipo flashbacks onirici. Dopo le prime venti pagine non sapevo se continuare a leggere o abbandonare il libro. Con il beneficio del dubbio per lo stile sincopato, ho continuato sino a divorarlo. A tratti mi sono immedesimato. Sono nato e cresciuto in Ticino con un cognome svizzero tedesco appiccicato, che ha creato situazioni anche spiacevoli cercando una stanza a Zurigo come studente universitario. Dopo la sorpresa iniziale nel parlare Hochdeutsch al potenziale affittacamere, ha declinato l'offerta perché i Ticinesi sono troppo rumorosi... Siamo sempre più gli eredi di molteplici culture vicine o lontane che ci arricchiscono da una parte e ci confondono dall'altra.
Autobographie simple et belle entre deux identités et quatre langues. Le choix de ne pas avoir de chapitre mais de passer d'un sujet à l'autre est intéressant mais rend parfois la lecture moins fluide. Il faut s'y habituer.