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Gymkhana-Cross

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"Davì pubblica i racconti di Gymkhana-Cross nel 1957, nella collana dei Gettoni di Einaudi diretta da Elio Vittorini. A ventotto anni il giovane collegnese apprendista meccanico da quando ne aveva quattordici, ha attraversato la guerra in calzoni corti e vive le prime scintille di rinascita, e sta per entrare a far parte - per pochi anni - di quella Fiat che già marcia a grandi passi per far crescere Torino e le sue industrie. Ci fu un tempo, dunque, in cui la classe operaia aveva un suo piccolo paradiso. Giornate lunghe in fabbrica - si lavorava anche il sabato, e senza tante recriminazioni - ma anche serate spensierate a caccia di fanciulle assai poco disponibili, bevute all'osteria con gli amici - le memorabili cappe di fumo stagnante appena sopra il mezzo litro di vinaccio allappante - e poi tante chiacchiere, tante illusioni, mentre gioventù passava e le ambizioni si tramutavano in un onesto matrimonio con prole e casetta in periferia. Il mondo raccontato da Luigi Davì in questa raccolta di storie minime - minimaliste, si direbbe adesso - è proprio quello di un ipotetico giovanotto d'altri tempi che, seppure con nomi diversi, sembra rincorrersi attraverso tutte le piccole vicende di vita quotidiana che costituiscono l'antologia ideale di un mondo antico e appartato, appena dietro l'angolo e ancora ben visibile nelle foto in bianco e nero dei nostri genitori. Vita di fabbrica - con scherzi goliardici inclusi e voglia di costruire qualcosa..." (Sergio Pent)

316 pages, Paperback

First published January 1, 1957

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Luigi Davì

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Profile Image for Davide.
508 reviews140 followers
November 6, 2018
«la faccia allegra e scooteristica del mondo industriale»
(Italo Calvino)

Tanti racconti tendenzialmente brevi, di quello che veniva chiamato “l’operaio che scrive racconti”. Perché Luigi Davì davvero lavorava in officina (a 14 anni era apprendista meccanico) e quando uscì per la prima volta questo libro, nei «Gettoni» Einaudi nel 1957, già da diversi anni pubblicava racconti sull’«Unità».
A leggerli adesso, sessant’anni dopo, viene un misto di tenerezza e curiosità. Intensificate, nel mio caso, dalla vicinanza geografica, che ispira la percezione di un'aria di famiglia ma anche di una distanza leggermente straniante.
E anche senza spingersi, come fa Sergio Pent nella prefazione, a considerare l’autore di queste storie minime un «antesignano involontario» di Raymond Carver, a volte viene da pensare che dovrebbe trovare un nuovo pubblico, oggi che vanno così di moda le narrazioni di vite comuni, in ambienti ristretti, lontani dai grandi eventi storici. O vale solo se la provincia è americana?

Sono tutti episodi circoscritti: piccoli fatti, uno scherzo in fabbrica, una bravata, una gita in montagna, molte piole, molte rive del fiume, molte ragazze desiderate, guardate, comprate, chiacchierate (e anche quelli della generazione precedente «le risse per donne in quei posti che non ballavi se non picchiavi, è ciò che ricordano più spesso»); qualche residuo di guerra partigiana, approfittatori, armi nascoste.
I luoghi normalmente sono generici: «Il muro di cinta del campo sportivo si prolungava fino a mischiarsi colla notte in corpo unico»; pochi i nomi di luogo precisi (Torino c’è qualche volta, ma senza ulteriori specificazioni) e invece una girandola infinita di nomi (e soprannomi) di persona: Vito, Bocia, Angiola, Clara, Geppe, Clelia, Ferruccio, Remigio, Gianni, Duilio, Nerio, Graziella, Aurora, Aldo, Lucio, Renato, Remo, Piero, Vilma, Marino, Ermanno (Manno), Doriana, Maldimare, Nestuccio, Crispino, Malvina, Gardo, Lino, Emma, Microbo, Albino, Sereno, Clelia (di nuovo), Remo (di nuovo), Ines, Pepe, Grillo, Carluccio, Delma, Gelso, il Colera giovane e il Colera anziano, Fino, Genio, Clelia (di nuovo di nuovo), e avanti e avanti. I personaggi cambiano continuamente ma sono tutti dello stesso tipo: giovani operai (di piccole officine, mai la grande industria), apprendisti, ragazze, osti, cameriere.

Quello che rimane più impresso è il tono spigliato, la sensazione costante di rapidità e leggerezza.
E l’assenza della tragedia: anche quando la situazione sembra virare verso la difficoltà o la sofferenza c’è sempre uno scarto, un’alzata di spalle, un rilancio sul domani, una sigaretta da fumare.
In questo, aiuta anche la lingua di Davì, che è una specie di traduzione in italiano dal piemontese o comunque è spesso vicino a un italiano fortemente regionale e gergale di un periodo e di una classe sociale ben precisi. Per questo i due scrittori fondamentali per la breve carriera di Davì, cioè Calvino e Vittorini facevano a gara nell’apprezzare quel «piglio disinvolto che spesso ti riesce» (Calvino a Davì), quella «notevole vivacità gergale e guappesca di periferia, con uno spontaneo piglio hemingwayano» (Calvino a Vittorini). E per entrambi - e non avevano torto… - il problema nasceva quando Davì cercava di “coltivarsi” e perdeva spontaneità, quella «certa gioconda incoscienza» (Vittorini a Davì).
La tenerezza di cui parlavo prima, poi, è anche una questione privata: leggendo mi veniva in mente continuamente mia nonna che quando saltavo un giorno di scuola mi diceva: “tlas fait schisa?” (qui gli operai “fanno schizza”), o che per dire no muoveva l'indice in orizzontale dicendo “varda 'l dil” (e qui: “guarda il dito”)… e se uno se la batteva senza dare spiegazioni: "ciau c' t disu" (qui: “ciao-che-ti-dico”). E non può mancare naturalmente la marca regionale più caratteristica, il leggendario "solo più" nel senso di 'soltanto ancora': «l’ho finita, vedi: solo più questa poca per me». E appare anche un “chiediamoci” nel senso di ‘chiediamo loro’ (si vede che Davì non ha avuto il coraggio di spingersi fino al "chiamiamoci"...).

Alla fine l’isolamento dei singoli racconti salta, a favore di una sequenza abbastanza compatta di racconti del servizio militare, con tutto quello che ci si deve aspettare: soldati di altre regioni, uscite, esercitazioni, sentinelle, rancio; e sempre ragazze, fiume (ora il Reno).
Ma la conclusione vera è lasciata a Un operaio biondo: dove il protagonista Marcello (uno dei nomi-alter ego di Bianciardi, tra l’altro…), operaio collaudatore, diverso dagli altri, serio, che legge e che scrive poesie, vuole andare a una conferenza su Hemingway. E dove per una volta si vede chiaramente Torino: la sede dell’università in Via Po, il mercatino di libri lì intorno, Piazza Castello… .

Per andare ancora avanti, a questo punto bisognerebbe leggere anche il libro del 1959, che ha un titolo promettente, Uno mandato da un tale. Ma dopo la metà degli anni Sessanta Davì non pubblica più: la parabola piuttosto breve dell’operaio che scriveva racconti si chiude definitivamente.
Anche questo silenzio successivo fa sì che la sua voce rimanga così precisa e struggente, perché ci arriva direttamente dagli anni della ricostruzione e del boom economico, visti esclusivamente con lo sguardo dalla generazione dei giovani del dopoguerra.
Uno sguardo certamente limitato su un mondo limitato (Vittorini gli diceva: perché non aggiungi un racconto di sciopero, per completare il quadro? e lui: ma io scrivo di quello che conosco e nelle officine dove lavoro non ci sono veri scioperi e si lavora gomito a gomito col padrone), ma forse anche per questo intenso, tenero, vivace e spontaneo.
Profile Image for dv.
1,398 reviews59 followers
February 5, 2023
Pubblicato nel 1957 come Tempi stretti di Ottieri, questa raccolta di racconti spesso brevissimi (quasi 50 in meno di 300 pagine) rappresenta - secondo le parole di Calvino - la "faccia allegra e scooteristica" del mondo industriale, opposta allo "scrittore di carne triste" Ottieri. E nelle parole di Calvino - insieme a Vittorini guida di Davì, scrittore operaio che esaurì entro gli anni '60 la sua produzione letteraria - c'è pressoché tutto di questi racconti. Non siamo davero dalle parti del romanzo industriale (quello che appunto Ottieri, insieme a Volponi, contribuì a definire) quanto più al cospetto di una serie di bozzetti del dopoguerra italiano nei quali la fabbrica è sfondo per vicende a loro modo sempre allegre, raccontate con lo sguardo maschile e provinciale che parla di "bulli e pupe", bisbocce, bravate, noia. Soprattutto interessanti sono la brevità e la lingua di questi quadri di vita semplice, che trasmettono una visione lontana e semplice - paternalisticamente la si potrebbe dire semplicistica - della vita del ceto medio italiano in quegli anni.
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