أؤمن باللامرئي، إنه حتماً هناك، في المساحة البيضاء بين كلمتين، في الصمت بين نغمتين موسيقيتين، في السواد بين صورتين سينمائيتين، في الفاصل بين حركتي راقصة، بين نفسين، بين خفقتي قلب..
اللامرئي ليسس كائناً أو شيئاً غامضاً لايمكن إدراكه، مثل العقل، الروح، الجن، الملائكة، الآلهة .. وغيرها اللامرئي هو التعبير الشعري لما هو غائب، وبالتأكيد لا يمكن أن يكون غير موجود.
غائب لأنه في مكان آخر، في مكان لا أعرفه، في مكان لم أعد فيه، أو بالأحرى، هو في المكان الذي لا أعرف كيف أسبره في أعماق ذاتي الخفية.
In principio era l’Alef, verbo di ogni cosa. Prima lettera dell’alfabeto arabo, forma oblunga che riempie il vuoto e divide lo spazio-tempo in un prima e un dopo.
“Alef, vocale lunga, fonema “â” o “a”, è la prima lettera dell’alfabeto arabo imposto alla nostra lingua, il persiano, più di dodici secoli fa. Il famoso poeta e calligrafo iracheno Ibn Muqla (886-940), il primo a codificare le lettere e a determinarne le proporzioni, definì l’alef come “la lettera-campione”, la misura delle altre lettere.
Poi ci lasciava affannarci a calligrafare l’alef sulle nostre tavolette. Lui si ritirava in un angolo della classe, vicino alla finestra, esponendo il suo corpo fragile ai raggi del sole primaverile. Togliendosi la toque di astrakan, recitava nella barba sale e pepe una poesia che non riesco a ricordare. Forse erano questi versi di Hafez, uno dei più grandi poeti persiani del XIV secolo:
Sulla tela del mio cuore, c’è solo l’alef con la forma slanciata dell’Amata. Che fare? Il mio maestro non mi ha insegnato altra lettera.”
Alef, principio di ogni esilio, la cui assenza trasforma Afghanistan in Fghanistan, terra di urlo e lamento, come lo è di nuovo adesso “Così mio padre fu arrestato per un crimine mai definito. Era monarchico? Golpista? Corrotto? Il nonno diceva che la sua colpa era stata quella di dire che con quel golpe l’Afghanistan aveva perso la sua prima lettera ed era diventato Fghanistan. Che nella nostra lingua significa: terra di urlo e di lamento.”
L’esercizio della calligrafia per dare senso a un espatrio, al trasferirsi altrove per preservare la propria libertà:
“E, dall’altra parte della frontiera, un deserto simile a un foglio di carta vergine. Senza impronta alcuna. Mi dissi che l’esilio sarebbe stato così, una pagina bianca da riempire.”
Questo racconto autobiografico sull’esilio in India, servendosi della forma delle lettere è in moltissimi punti poetico: “Chi siamo noi in questo mondo contorto? Nient’altro che un alef errante, sprovvisto di tutto.
Oppure:
Se diventi come un alef solitario Sarai in questa via senza pari.
Niente di sorprendente dunque nel vedere i dervisci rotanti che, come li descrive il poeta, «girano come alef su se stessi». Perché sono cercatori che si cercano.”
La calligrafia come rito per venerare l’invisibile
“Io credo nell’invisibile. Certamente esiste, nel bianco tra due parole, nel silenzio tra due note musicali, nel nero tra due immagini cinematografiche, negli intervalli tra due movimenti di una ballerina, tra due respiri, due battiti di cuore...”
Un libro tristemente attuale. Con gli eventi degli ultimi giorni, di nuovo questa terra ha smarrito il proprio Alef, trasformandosi in Fghanistan, terra di urlo e di lamento.
In breve: A partire dalla calligrafia della lettera Alef, il racconto di un esilio.
Esistono le parole per raccontare l’esilio? Questa è la domanda da cui parte la narrazione di Atiq Rahimi, il quale sente il dovere di raccontare l’esperienza sua e di chi come lui è costretto ad abbandonare la propria terra, la propria lingua, la propria “madre”.
In seguito all’arresto del padre, la vita di Atiq e della sua famiglia viene cambiata radicalmente dalla necessità di partire e allontanarsi dalla terra natia, l’Afghanistan, per cominciare una vita di peregrinazione ed esilio. Quello di Rahimi è un vero e proprio bisogno di raccontare la sua esperienza e insieme quella di migliaia di altri “esseri migratori, dispersi ai margini della terra, sospesi nella nebulosa spirale del tempo [che] mi guardano mentre cerco disperatamente le parole, i respiri, per raccontare i loro peripli, riportare le loro grida.” È un bisogno doloroso e anche difficile da soddisfare, tanto che la ricerca delle “parole” si trasforma in un’altra forma di linguaggio, un linguaggio artistico che è l’unico in grado di rendere giustizia al tema.
Il principio di questa trasformazione sta in un carattere dell’alfabeto arabo - persiano, anzi il suo primo carattere, che è tanto semplice quanto racchiude in sè il significato stesso dell’esistenza dell’essere vivente: l’ “alef”, la “A” dell’alfabeto arabo-persiano che rappresenta, per lo scrittore, l’origine di ogni cosa e allo stesso tempo la solitudine in quanto lettera isolata (la lettera “alef”, infatti, non si lega alle altre consonanti o vocali nella scrittura arabo-persiana). L’origine, la nascita, la madre: sono i temi, rappresentati da alef, che ricorrono nel libro e nella vita di chi è destinato a vagabondare per il resto della propria esistenza fin dal primo momento in cui mette piede fuori da casa. È la lettera sacra per eccellenza, che caratterizza anche la scrittura e la calligrafia, espressione diretta della parola divina. “Ogni parola è ineluttabilmente nata da qualche parte, in un certo tempo, da un essere vivente. Porta in sé il racconto, la memoria, il respiro, la carne, il sangue...di un essere, di un popolo, di una civiltà...e dunque dell’umanità.”
Il passaggio dalla scrittura alla calligrafia e, infine, alla callimorfia è quello che segna l’arrivo a una forma di racconto realmente efficace, per l’autore, di quelli che sono corpi liberi, senza volto, che emergono dallo spazio vuoto del foglio. Lo spazio bianco che rappresenta la sensazione di assenza che prova chi vive in esilio: “Questa assenza è quella di una madre, della mia terra, della lingua…”.
En este libro, Atiq Rahimi utiliza sus experiencias de exilio para tejer un relato cargado de poesía, intercalando sus dibujos caligráficos —o lo que él denomina "calimorfías" (así aparece en la edición en español)—, creaciones realizadas a partir de símbolos caligráficos árabes y persas. A lo largo de las páginas, el autor despliega su erudición citando a numerosos escritores, entre ellos Borges —inevitable referencia, dado que el aleph es la primera letra del alfabeto árabe, imbuida de significados místicos, además de ser uno de los cuentos más famosos de don Jorge.
Sobre el exilio, Rahimi afirma algo paradójico: cuando está en Francia extraña Afganistán (¿realmente?, resulta difícil de imaginar), y cuando está en Afganistán añora Francia (esto sí lo creo). Ciertamente, nunca he pisado Afganistán, pero a juzgar por las noticias, las películas, los conflictos bélicos y el terrorismo, difícilmente parece un lugar acogedor. Quizás el exilio alimenta en Rahimi una nostalgia intensa por su país, similar a la que yo siento por Argentina, aunque no sé si me gustaría vivir en la Argentina actual. Sobre este sentimiento, vale retomar a Borges: el maestro argentino decía que cuando extrañamos un lugar, en realidad extrañamos el tiempo vivido en él, no el espacio físico. Para él, los lugares son meros escenarios de vivencias y emociones que el tiempo convierte en nostalgia.
El pasado de Rahimi en Afganistán debió de ser privilegiado: su padre era juez de la Corte Suprema, lo que sugiere una posición social y económica alta. Ese mundo se desvaneció con la guerra, empujando a su familia al exilio en la India y, más tarde, a él a solicitar asilo en Francia. Queda claro que su familia tuvo recursos para emprender ese camino —algo impensable para otros exiliados, como un palestino de Gaza que intentara trasladarse a otro país.
En el libro, Rahimi toca tangencialmente temas políticos: expresa pesar por la militancia comunista de su hermano (y da a entender que murió en Afganistán durante alguna de las guerras), condena la invasión soviética y el terrorismo talibán, pero omite cualquier mención a la ocupación estadounidense o al rol de EE.UU. en el armamento de los talibanes contra los soviéticos.
Tras esta reflexión breve sobre el exilio, el autor se sumerge en minuciosas (y, para mí, excesivas) descripciones de sus calimorfías —que expone y vende—, reafirmando su identidad como artista multidisciplinario: escritor, cineasta y pintor. El libro incluye varios de sus dibujos: algunos interesantes, otros demasiado abstractos. Los más figurativos son siluetas de mujeres; destaca uno inspirado en El origen del mundo de Courbet, que Rahimi tituló El fin del mundo y que resulta particularmente explícito.
Uno de los pasajes más originales es aquel donde Rahimi plantea que el primer exilio es el del vientre materno: somos expulsados del útero para enfrentar un mundo lejos de ser idílico. Imposible no concordar con él.
En definitiva, nos encontramos ante un libro íntimo, pero también marcadamente egocéntrico.
O livro A balada do cálamo é uma espécie de autobiografia do autor e diretor franco-afegão Atiq Rahimi que, a partir de memórias, reflexões e imagens de caligrafias e calimorfias (letras antropoformes), nos revela sua experiência de exílio. De início, conhecemos um pouco da infância do autor no Afeganistão, onde aprendeu a grafar o alfabeto persa com seu cálamo. Em seguida, somos levados à Índia, palco da sua adolescência e descoberta de uma cultura mais ligada e aberta ao erotismo (sensualismo). Por fim, chegamos ao último destino: França, onde Rahimi obteve asilo político. Foi na terra de Victor Hugo que o autor de A balada do cálamo se consagrou como escritor e cineasta. Essa obra foi um tanto diferente para mim. Admito que a forma como o autor escreveu o livro não é a minha favorita, como se estivesse passando para o papel todas as suas reflexões sem a preocupação de ter um fluxo de pensamento. Para exemplificar: muitas vezes o autor negava algo que acabara de dizer, como se tivesse pensado melhor. Isso, para mim, quebra um pouquinho da leitura. Eu me senti muito assim ao tentar ler O apanhador no campo de centeio. Voltando à balada, uma das partes que eu mais gostei foi a da Índia. Foi muito interessante saber um pouquinho mais sobre a cultura desse país, embora tenha sido abordada de forma superficial. Meu parecer: um quase diário bem interessante, principalmente com relação ao universo da caligrafia e da calimorfia, mas que não satisfez a minha curiosidade com relação à história do autor. Agora eu quero uma biografia! Hehe
Atiq Rahimi escreve sua trajetória de vida, desde o Afeganistao onde nasceu e suas influências culturais, sua mudança para a India, acompanhando os pais e finalmente, o exilio cultural na França. A importância da escrita nessa trajetória é salientada: desde as aulas de caligrafia , passando pelo desenho e pintura , cinema, até a calimorfia, sua invenção pictórica realizada com o cálamo. O autor apresenta consideração especial às letras trazendo autores tanto arabes como persas, judeus, e seus dizeres sobre as letras.
La primera vez que lo leí intenté leerlo con la ligereza que se puede leer una novela y no me gustó para nada. Después, en una segunda lectura me detuve más en lenguaje poético del autor y me agradó un poco más la obra. Rahimi mezcla la prosa y el verso para narrar su exilio, una herida que no cierra. Una vez exiliado pasa a ser extranjero en cualquier país -incluido en el suyo- que solo halla refugio en la escritura.
J'ai beaucoup aimé le début, qui parle de l'exil et de la démarche d'auteur, de l’œuvre qui s'impose à son auteur, ainsi que de l'histoire d'amour/haine de Rahimi avec la pratique de la calligraphie. Ensuite, le texte dérive sur les callimorphies (calligrammes représentant des corps humains) en un discours assez abscons.
It's probably best to let the author speaks: "Un parcours initiatique pour m'apprendre que là où s'arrête la philosophie commence la spiritualité ; là où s'arrête la spiritualité commence l'art. Et l'art, où s'arrête-t-il ? Nulle part." Extremelly poetic writing.
Une magnifique réflexion sur l'exil, le langage, le corps, l'esprit, le désir... Sur la vie tout simplement, et sur ce que sont les êtres humains. Une lecture à recommander à tout le monde!
Une lecture laborieuse quoique fort poétique (Dieu sait combien j'aime la poésie) mais que j'ai au fur et à mesure appréciée par la redécouverte de la lecture à voix haute...
Da rileggere, quando la mia vena poetica non sarà sommersa dal pragmatismo. Una riflessione sull'esilio e sulla scrittura, sull'esilio nella scrittura. Poetico.