Canale Mussolini è l'asse portante su cui si regge la bonifica delle Paludi Pontine. I suoi argini sono scanditi da eucalypti immensi che assorbono l'acqua e prosciugano i campi, alle sue cascatelle i ragazzini fanno il bagno e aironi bianchissimi trovano rifugio. Su questa terra nuova di zecca, bonificata dai progetti ambiziosi del Duce e punteggiata di città appena fondate, vengono fatte insediare migliaia di persone arrivate dal Nord. Tra queste migliaia di coloni ci sono i Peruzzi. A farli scendere dalle pianure padane sono il carisma e il coraggio di zio Pericle. Con lui scendono i vecchi genitori, tutti i fratelli, le nuore. E poi la nonna, dolce ma inflessibile nello stabilire le regole di casa cui i figli obbediscono senza fiatare. Il vanitoso Adelchi, più adatto a comandare che a lavorare, il cocco di mamma. Iseo e Temistocle, Treves e Turati, fratelli legati da un affetto profondo fatto di poche parole e gesti assoluti, promesse dette a voce strozzata sui campi di lavoro o nelle trincee sanguinanti della guerra. E una schiera di sorelle, a volte buone e compassionevoli, a volte perfide e velenose come serpenti. E poi c'è lei, l'Armida, la moglie di Pericle, la più bella, andata in sposa al più valoroso. La più generosa, capace di amare senza riserve e senza paura anche il più tragico degli amori. E Paride, il nipote prediletto, buono e giusto, ma destinato, come l'eroe di cui porta il nome, a essere causa della sfortuna che colpirà i Peruzzi e li travolgerà.
Scrittore italiano. Operaio presso l’Alcatel Cavi, si è dedicato alla politica dapprima nelle file del MSI e poi in quelle del Partito Comunista d'Italia marxista-leninista. A cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta ha aderito al PSI, alla CGIL e poi alla UIL. Nel 1983 ha deciso di sospendere l’attività di attivista e di sfruttare un periodo di cassa integrazione per laurearsi in lettere e filosofia, iniziando in seguito la carriera di scrittore.
Sono contenta di avere concesso a Pennacchi una seconda chance dopo la delusione di Mammut: quest'altro romanzo si è lasciato leggere molto molto volentieri.
E' la storia della famiglia dell'autore, un po' vera un po' inventata, attraverso tutto il Novecento. Per quel che viene prima del Novecento, Pennacchi si è appropriato della storia di Bacchelli e fa un breve riassuntino della trama de Il Mulino del Po, inventandosi così di essere un discendente di un ramo secondario degli Scacerni. Verso Bacchelli io nutro la riverenza massima e assoluta, e se qui ne fosse uscito un libretto mediocre avrei addebitato a Pennacchi l'aggravante di avere scomodato uno che se ne sta lassù sull'Olimpo, ma il lavoro è ben riuscito e quindi la citazione ci sta e mi diverte. Di mio ci ho aggiunto il pensiero che potrebbe essere anche un po' un proseguimento di Maria Zef della Drigo, visto che là si è nelle montagne al confine tra Bellunese e Trentino, e qua si riparte dalla bassa veneta, ma in entrambi i casi si parte dalla miseria più nera. Ed è anche a suo modo un approfondimento del discorso di Italiani, brava gente? di Del Boca: beh, se non proprio approfondimento, comunque ne prosegue diversi spunti di riflessione.
Tutto raccontato in prima persona plurale, rivolgendosi ad un interlocutore esterno ed immaginario (come fa spesso Guimarães Rosa) con un "noi" che a seconda dei casi si riferisce a "noi veneti", oppure "noi contadini", o ancora "noi fascisti" o "noi dei Peruzzi". Questo "noi" è essenziale per cogliere il significato centrale del racconto: non fa del revisionismo e tantomeno dell'apologia del fascismo, o almeno io non ci ho letto nulla di tutto ciò. Vuole raccontare la sfumatura, la mescolanza: si sa bene di cosa si parla quando si dice la guerra civile, quando si parla di rossi contro neri, ma la verità è che in mezzo, tra le due fazioni, ci sono anche mille variazioni, centinaia di migliaia di singoli casi isolati di chi passa da una parte all'altra e viceversa, per convenienza o per ingenuità o per grossolani errori o per ragioni che risalgono chissà quanto indietro nella Storia. Il "noi" di Pennacchi si riferisce proprio a questo gran calderone di popolo ed è da questo punto di vista che l'autore vuole provare a raccontare la storia che già tutti conosciamo nelle sue grandi linee. Nessun giusto/sbagliato, nessun bianco/nero, soltanto misto di grigi e di confusione.
Il tono colloquiale e le espressività popolari della narrazione conferiscono un incedere epico-ironico a una faccenda che poi tanto epica non è, ma fa parte anche questo di quel punto di vista di cui sopra, ed è una scelta felice in quanto all'orecchio del lettore risulta tutto armonizzato, voce narrante e storia raccontata. Se fosse stata una voce che, calando dall'altro verso il basso, racconta come sono andate le cose avendo l'aria di imporre una specie di verità assoluta, allora sì che sarebbe stata una sfacciata apologia di fascismo.
Qualcuno lo ha definito "la rappresentazione plastica dei peggiori aspetti del carattere italiano": sacrosanta verità, mai definizione fu più azzeccata. Visto che il carattere italiano, in percentuale, è fatto più di aspetti peggiori che non di aspetti migliori, tanto vale che qualcuno inizi a prender atto della realtà e mostrarla per quello che è.
"Ognuno g'à le so razòn" è la morale che viene più volte esplicitata nel corso del racconto, e come non essere d'accordo, specialmente quando le ragioni vengono dalla povera gente e quando uno vuole provarsi a immaginare - se non proprio capire - i perché della Storia, che cosa c'è dietro ogni pagina. Del resto, l'altra argomentazione che rimane più implicita ma non meno evidente è la montagna di contraddizioni che compone questa parte di Storia d'Italia: il non voler sentir parlare di fondare nuove città salvo poi andare a inaugurarne una pochi mesi dopo e poi altre ancora e ancora; il non voler andare a fare i padroni in casa degli altri salvo poi andare a farci la guerra pochi anni dopo; l'essere non-interventisti che si tramuta rapidamente in interventismo; partire da estrema sinistra per arrivare a estrema destra; iniziare la guerra alleato di uno e concluderla alleato dell'altro; last but not least: chiamare un figlio "Turati" e poi trovarsi a ribattezzarlo, da parte di tutta la famiglia, "il Can del Turati".
Ha inoltre il merito di mettere l'accento su quel particolare tipo di ignoranza che è fatto non proprio di analfabetismo quanto di scarsa cultura generale unita a un timore reverenziale nei confronti dell'autorità del momento, qualunque essa sia. E di gente così ce n'è una marea ancora oggi: in questo si concretizza la assoluta continuità della società italiana tra il prima e il dopo la guerra; ed inoltre questo carattere è parte integrante ed essenziale di quello sport nazional-popolare che è il salto sul carro del vincitore, dicesi anche cambio di casacca o come lo si vuole chiamare. Con questo non giustifico un bel niente: non giustifico chi non ammette di aver votato Berlusconi, chi non ammette di aver votato DC, figurarsi se si può giustificare di non ammettere di essere stato fascista della prima ora o della seconda.
Ma Pennacchi gli errori della sua famiglia li ammette tutti: dalla volubilità alla litigiosità, tutte cose che anche quando non sono giustificabili sono alquanto realistiche, direi quasi dati di fatto. In ogni caso, più che come una excusatio non petita io l'ho voluto leggere come un "ascolta 'sta storia, adesso ti conto com'è che è andata dalle mie parti". Al di là delle inevitabili riflessioni indotte dalle parti vere e storiche, il tutto poi finisce comunque per scontrarsi con quelle inventate e dunque il romanzo è da prendere più per il racconto in sé che non per le verità assolute che tanto poi non sono mai tali neanche nei saggi di Storia più blasonati.
Devo annotare un errore madornale a cavallo tra pag.25 e pag.282: a pag. 25 si fa una lista della "...barca di figli: Temistocle appunto, nato subito nel '97, poi una femmina nel '98, '99 zio Pericle, 100 l'hanno saltato, '1 zio Iseo, '2 una femmina, '3 un'altra femmina e '4, come detto, zio Adelchi." Poi però a pagina 282 si dice "...mio zio Pericle, che invece era legatissimo a zio Iseo, quello venuto subito dopo zio Adelchi", sovvertendo così l'ordine cronologico delle nascite. Possibile tra autore, editors e compagnia cantante, chissà per quante mani passa un romanzo prima di essere pubblicato, non se ne sia accorto proprio nessuno!?!?!?
Dice l'Adelchi: i cispadàn, i marocchini, i fascisti, i tedeschi, i abisìni, i mericàn, i calìps, anche la zanzara anofele: Ognuno gà le só razón.
Anche se il punto di vista dal quale questa storia ce la racconta Antonio Pennacchi, quello dei Peruzzi di Codigoro in provincia di Ferrara, sembra avere un po' più ragione degli altri.
Tra i primi coloni dell'Agro Pontino - "Venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là" - la famiglia dei Peruzzi partecipa alla bonifica della Piscinara delle Paludi Pontine e alle fondazioni di Littoria, Sabaudia, Aprilia, Pomezia, all'ascesa del fascismo e alla sua caduta, alla prima guerra mondiale, alla guerra di Spagna, alle guerre di colonizzazione in Etiopia e alla seconda guerra mondiale, dall'Albania alla Russia, attraversando quasi cinquant'anni di Storia d'Italia in cui ciascuno di noi non faticherà a ritrovare un pezzetto delle proprie radici: io ad esempio, che non ho ricordi diretti di quegli anni, le ho ritrovate con un tuffo al cuore e un brivido sulla pelle quando, raccontando lo sbarco degli americani ad Anzio, si fa cenno alla storia di Angelita; la canzone dedicata a questa bimba salvata dal bombardamento e la statua a lei dedicata nella piazza di Anzio fanno parte della mia infanzia, dei miei ricordi di bambina: è una storia che mi appartiene, sia pur lontana, sia pur solamente raccontata.
Ma quella che ci vuole narrare Pennacchi, non è solo la Storia, è anche la storia dei Peruzzi, quella del patriarca, il nono, e quella de la nona, di tutti i loro diciassette figli, il Temistocle, l'Adelchi, il Périclin, l'Iseo, del Can del Turati, la zia Santapace e la zia Bissolata e tutti gli altri, delle loro mogli e mariti, l'Armida, la Clelia, il Benassi, il Lanzidei, dei loro nipoti Adria, Menego, ma soprattutto Paride, con una narrazione fantastica, avvolgente come il calore del camino d'inverno, emozionante come la favola che ci raccontava la mamma da bambini, epica come i ricordi dei nonni, commovente come un tramonto d'estate e allo stesso tempo forte e dura come uno schiaffo, ironica, piena di dignità e indignazione, irriverente, polemica e soprattutto senza sconti per nessuno, una storia che si giudica da sola, perché ciascuno in questa storia ha le proprie colpe da scontare, a partire dai Peruzzi fino ad arrivare alle figure storiche romanzate ma realissime di Mussolini, Balbo, Cencelli, Pavolini e Rossoni.
Quello che dai, ti viene reso, dice sempre l'Adelchi, che non è il protagonista del romanzo come potrebbe sembrare dopo questa doppia citazione, ma forse è solo uno dei più saggi, quello che alla fine ha capito che tutto il mondo è paese, che quello che fai agli abissini in guerra poi i marocchini vengono a farlo a casa tua, sia pur da liberatori, quello che capisce che sì, ognuno gà le só razón ma che le ragioni di uno, spesso, quasi sempre, non corrispondono e non rispettano quelle di un altro.
Quello che posso aggiungere è che Pennacchi con questo romanzo ci ha restituito un pezzetto della nostra Storia vista da un altra angolazione, quella dei nostri coloni, del nostro Quarto Stato, di quei contadini animati da quella stessa fame e da quello stesso furore che avevamo, forse, sempre creduto fosse appannaggio esclusivo dei contadini dell'Oklahoma; ci ha regalato un pezzetto della sua storia, una storia in cui realtà, ricordi, immaginazione e, perché no, un pizzico di magia, si fondono in un filò pieno di tenerezza e di amore paterno: quello stesso amore e quella tenerezza - questa volta materna - che un'altra grande narratrice dei nostri tempi, Oriana Fallaci, ha saputo profondere nella sua ultima opera, regalandoci anche lei, con quel gioiello incompiuto che è Un cappello pieno di ciliege, la sua storia e un altro pezzetto della nostra Storia.
E adesso basta, che altrimenti questo commento rischia di dire troppo, ma anche niente in fondo, che Canale Mussolini è meglio che ve lo leggiate da soli anziché leggere me, che altrimenti anche questo diventa un filò: ma io non sono né romagnola, né ferrarese, né venetopontina, né friulana e quindi di filò non ne so proprio niente. Anzi, non ne sapevo proprio niente: adesso so che cos'è, e mi piace, accidenti se mi piace!
Lasciatevelo raccontare allora questo filò, sedetevi comodi, aprite il libro e fate finta di ascoltare vostra nonna quando vi raccontava della guerra, dei tedeschi e della sua vita: vi avvolgerà come una coperta calda in una fredda notte d'inverno.
Ah, dimenticavo, un'ultima cosa: Maladéti i Zorzi Vila!
"Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portati qui, e caricati famiglia per famiglia sui camion e sui carri con tutte le nostre masserizie. E ci hanno riscaricati uno per uno dentro questi poderi nuovi di zecca coi muri ancora freschi di calce e - mi deve credere - ci hanno fatto trovare i campi non solo già divisi per ogni capezzagna e con le pendenze giuste, più alti al centro e più bassi ai fianchi e le scoline di lato già lavate e livellate al punto giusto, ma ci hanno fatto trovare anche i campi già belli che arati, scassati per oltre un metro dalle Flower, le Favole, che si mettevano una al di qua e una al di là per tutta la lunghezza dei campi, e con dei cavi attaccati all'argano si tiravano ora l'una ora l'altra tra un aratro gigantesco che spaccava in profondità il terreno per oltre un metro. E tutti quei trentamila raccontavano che la prima cosa che hanno fatto - dopo aver scaricato le masserizie, guardato in ogni angolo il loro podere, perlustrata la terra e sistemati i letti e le brande - è stato correre in giro podere per podere a vedere come si erano sistemati tutti gli altri Pilgrim Fathers con cui avevano spartito l'esodo sulla tradotta e con cui avrebbero spartito, da qui e per sempre, le vite ed il sudore."
Mi ha divertito, intrattenuto e appassionato. E' un libro eccessivo. Si tiene distante dalla "feroce estetizzazione" della vita contadina, che ha inquinato tutto il nostro '900. Racconta come si faceva una volta e oggi non si fa più. Racconta con il piglio, il pregio, i limiti e le iperboli dei racconti da osteria. Racconta Storia, storie, amori, orrori, Vita e vite. Ma non ti prende in giro con la correttezza pelosa che oggi anestetizza, frustrandola, ogni conversazione. Si immedesima in un vissuto che trasuda; che preme per uscire. Scarica sul tavolo rabbie, ansie, sbagli e dolori dei protagonisti, con i loro enormi slanci, o infimi limiti, senza affidarsi a un'immanenza salvifica, o giustificativa, che non sia la vita stessa, per quel che era. Poi, come è naturale e giusto, ognuno si faccia l'idea che crede, alla luce di quel che sa (oggi manca spesso l'intelligenza, non certo i mezzi). Oppure ricorra agli innumerevoli anestetici preconfezionati.
Cosa avrebbe fatto Lei? chiede spesso la voce narrante, come per giustificare le discutibili scelte politiche della famiglia Peruzzi. Non so cosa avrei fatto io, me lo sono chiesto più volte nel corso della vita senza saper rispondere. So cosa hanno fatto i miei, però: hanno aiutato persone ad evadere dal campo di concentramento di Bolzano, hanno rinunciato al posto di insegnanti per non prendere la tessera del fascio, hanno gestito per mesi una radio partigiana. Non era inevitabile diventare fascisti, e non era inevitabile restarlo con pervicacia fino all'arrivo degli americani al confine del podere. Ammazzare i parroco a randellate non è un incidente di percorso, perché in fondo l'idea era solo quella di dargli una lezione. Né è una marachella dar fuoco alla camera del lavoro e ai poveri alloggi delle persone del piano superiore solo perché non è morto nessuno. O una comprensibile vendetta sparare in faccia al maestro socialista, che in fondo se l'e' cavata senza lasciarci le penne, né la marcia su Roma fu una scampagnata nella quale ci si è in fondo divertiti poco perché non ha fatto che piovere. E, mi spiace, ma i morti non sono tutti uguali: quelli che hanno lasciato le piume nelle colonie dopo aver massacrato e fucilato senza troppi rimorsi i musi neri non mi fanno la stessa pietà di coloro che sono morti da partigiani o da alpini in Russia. Premesso tutto questo, gli assegno 3/5 perché mi ha aiutata un po' a capire la genesi di alcune scelte, anche se capire non è giustificare; poi ho ritrovato aria di casa in alcune descrizioni della vita nel podere e in fondo ho anche imparato qualcosa sulla vita nelle bonifiche, sulla fondazione di Littoria e sul fascismo visto da dietro le quinte. Ora so fra il resto come funziona il canale Mussolini, perché il macadam si chiama macadam e pure esattamente com'è fatto. Scusate se è poco ;) Per il resto un diluvio di parole e di argomenti e una storia d'amore impossibile della quale si poteva tranquillamente fare a meno.
Meraviglioso!! Un pezzo della nostra storia: dovrebbero farlo leggere a scuola! Un grazie di cuore ad Antonio Pennacchi per aver colto questa storia e non aver lasciato che essa svanisse!
È un romanzo molto ricco di spunti. C'è una storia misconosciuta: la grande migrazione di contadini del nord in agro pontino. C'è l'avvincente saga familiare dei Peruzzi, che attraversa la storia d'Italia da fine ottocento alla fine della seconda guerra mondiale. Ma soprattutto c'è un punto di vista insolito: il punto di vista dei fascisti. È un dato di fatto: non ci è stata mai data l'opportunità di conoscerlo, questo punto di vista. Per inciso, questi Peruzzi sono fascisti strani. Ogni bravo italiano, per Costituzione repubblicano e antifascista, è abituato a immaginarseli arroganti, cinici e feroci. Gerarchi arricchitisi alle spalle di qualche povero contadino sfruttato. Un po' come l'Attila Melanchini in Novecento di Bertolucci, che Donald Sutherland ha reso col perenne sorriso spavaldo e cattivo. Tutti così, i fascisti? No, dice Pennacchi. I suoi fascisti sono dei mezzadri poveri, gente normale. A questo punto la domanda è perché una famiglia di poveracci dovrebbe essere fascista, e non farsi ritrarre ne "Il quarto stato" di Pellizza, come tutti i contadini per bene? Ecco, Pennacchi risponde a questa e ad altre domande. Inoltre, le risposte di Pennacchi hanno il pregio di far quadrare i conti.
In che senso? Uno finisce per immaginarsi il fascismo come un mostruoso corpo estraneo sbucato dal nulla. Una sorta di follia collettiva in cui (come? perché?) si è trovata invischiata tutta l'italia. Una cosa impossibile eppure accaduta. Per dimostrare che non è così, Pennacchi racconta di questi poveracci che hanno avuto qualcosa solo dal fascismo e che poi per riconoscenza indossano una divisa e corrono a difendere la Repubblica di Salò. A Latina sono tutti fascisti, tutt'ora. Non dice "fecero bene", piuttosto suggerisce che non capirono e forse non potevano capire del tutto. Non avevano lo sguardo distaccato, né l'istruzione. Sapevano soltanto che prima del fascismo non avevano libertà né terra; il fascismo diede loro almeno un po' di terra. E la libertà? «La libertà non ce l'avevano neanche prima. Non votavano, non contavano nulla. La libertà, il fascismo l'ha tolta ai ricchi, non ai poveracci». Inoltre non si tratta di assolvere il fascismo ma i fascisti; e non tutti i fascisti, ma quei poveracci che si erano trovati fascisti per caso, per la terra o perché andava così, magari vicini di casa di altri poveracci uguali ai primi ma "comunisti" (che a loro volta si erano trovati comunisti per caso, per la terra o perché andava così, non perché fossero migliori).
A parte il discorso politico, è un bel romanzo, ben scritto, coinvolgente, interessante. A parte l'ingenuità finale, quella citazione a Macondo che m'è sembrata superflua e posticcia.
Non era mia intenzione acquistare questo romanzo. Confesso che la spinta è venuta per il positivo parere espresso da un amico, che mi ha invogliato a farlo. Debbo proprio ringraziarlo per questo, perché se non l’avessi letto, mi sarei persa una delle storie meglio narrate che abbia incrociato sul mio cammino in questi ultimi anni.
Il punto di vista proposto è inusuale, ma ottimamente inquadrato e sostenuto. E’ quello di una famiglia fascista, i Peruzzi, che migrano dalla “bassa” Pianura Padana all’Agro Pontino, in corso di bonifica, grazie ad accidentali e improbabili meriti acquisiti durante un comizio socialista qualche anno prima che fosse loro tolto tutto, in virtù della “quota 90”, dai conti Zorzi-Vila.
Su uno sfondo storico che, per quel che ne so, è assolutamente esatto, prendono vita e si dipanano così le vicende di un nucleo familiare che non stenterei ad associare, per respiro ed empito, a quelle assai più famose dei Buendía. Manca, forse, una certa qual irruenza della natura, che nelle terre di Gabriel García Márquez è ovvia come lo scorrere dell’acqua, e una più decisa presenza di un lato “magico” della vita. Ma per il resto, questa storia sembra proprio possedere lo stesso magnifico afflato. Quasi fossero i “Cent’anni di solitudine” dei Cispadani.
Io le racconto la verità dei Peruzzi, che i miei zii hanno raccontato a me, come l'avevano vissuta loro.
In maniera un po’ inconsueta, dopo averlo acquistato e prima di leggerlo io, l’ho prestato ben tre volte (in attesa di maggior tempo a disposizione per una lettura non frammentaria) e intanto ne posso esprimere tre giudizi assolutamente positivi. E ora vengo al mio.
La prima parte del romanzo è di ambientazione sia alla Storia che alle storie particolari, ai personaggi. Utile, sì, anche per dar modo al lettore di assuefarsi ad una scrittura originale, una voce narrante che sembra di ascoltare come a far filò, seduti tutti insieme la sera. Ma è dalla seconda parte che è diventato per me irresistibile: fino alla fine ho poi continuato a portarmelo dietro, nonostante il peso delle quattrocentosessanta pagine ad alta grammatura con copertina rigida, per leggerne voracemente appena possibile… Mi sono commossa per la famiglia Peruzzi ma ho anche sorriso, grazie a quel tono asciutto e ironico del racconto colloquiale. Mi sono appassionata alle tante storie semplici di un’umanità contadina, di quei ‘polentoni’ dignitosi e coraggiosi, la cui vita era scandita dai ritmi della natura, i cui ruoli erano determinati, all’interno della famiglia e della società, secondo regole stabilite…, modi che possono sembrare oggi inaccettabili, certe volte inverosimili, e invece… così reali. E mi sono interessata a un periodo della nostra Storia che è riemerso nella mia memoria attraverso i racconti ascoltati anche in casa. Perché quella era la vita vera di tanti: vite sconosciute, degli ultimi, che tuttavia hanno lasciato tracce profonde. Dice Antonio Pennacchi nella prefazione: Non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui siano capitate tutte le cose narrate qui. […] Non esiste però nessuna famiglia di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano ai Peruzzi. In questo senso e solo in questo, tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi rigorosamente veri.
Mi è sembrato scritto con onestà e correttezza e, direi, con rigore storico; senza giustificazioni e senza esaltazioni. Piccole storie ‘vere’, dunque, di un grande esodo storico spesso dimenticato o ricordato male. Ma che pure è giusto richiamare alla mente perché, anche quelle, rappresentano pezzi delle nostre radici. Grazie dunque a chi ce le sa ancora raccontare col cuore… ---
Appena terminato il romanzo mi è capitato di vedere un interessante documento (Correva l'anno-1932),Rai3. Sono fatti. E' Storia. Dal minuto 5 si è proiettati nel Canale Mussolini e si rivive la stessa atmosfera dell'Agro Pontino della famiglia Peruzzi:
"E così i miei zii sono arrivati a Littoria di notte. O meglio, non era ancora Littoria, era solo Littoria in costruzione, però era sempre Littoria. Le luci si vedevano già da Borgo Piave e lì - a Borgo Piave che ancora si chiamava Passo Barabino e c'erano un sacco di baracche anche lì, e pure baracche che vendevano vino e le impalcature del cantiere al centro della rotonda, dove stavano costruendo la torre serbatoio dell'acquedotto - i miei zii vedendo sullo sfondo le luci di Littoria hanno calcato sui pedali: «Forza tosi, vedém chi riva primo», per uno sprint di quattro chilometri. A Littoria cantieri dappertutto. Lampade. Cellule fotoelettriche. Viavai come se fosse giorno. Migliaia di persone - tutti maschi - a lavorare per le strade e per i fossi."
Son partita pianino con questa lunga storia ma poi ho ingranato proprio bene e mi son divertita anche molto. E' una bella saga che alla storia della famiglia di mezzadri Peruzzi, trapiantati dal Veneto nell'Agro Pontino da bonificare, intreccia la Storia d'Italia del primo Novecento fino alla Seconda guerra mondiale. E' una storia briosa, a renderla tale anche la parlata veneta secondo me, ricca di particolari, di dettagli e racconti che vanno assaporati pian piano per goderseli. E poi mi è piaciuto molto lo spaccato di storia viva che racconta delle condizioni di vita del tempo, del duro lavoro e della vita di queste famiglie numerosissime.
Non posso - e non voglio - aspettare più di tanto per scrivere questa recensione perché voglio mantenere intatte e trasferire nero su bianco le emozioni che mi ha regalato la lettura di questo romanzo.
Leggere "Canale Mussolini" è come stare seduti vicino ai propri nonni e sentirli raccontare storie del loro passato, così diverso dal nostro che è impossibile non rimanerne tremendamente affascinati. E l'espediente che l'autore utilizza per raccontare le vicende del romanzo è il filò, una sorta di tradizione popolare veneta che consiste nell'incontro di parenti e vicini di casa che, seduti tutti insieme, trascorrono del tempo ascoltando un racconto.
Protagonista del romanzo è la famiglia Peruzzi, una famiglia di mezzadri proveniente dal basso Veneto. Le loro vicende vengono raccontate a partire dagli inizi del Novecento, fino all'immediato secondo dopoguerra. Quella dei Peruzzi è una famiglia numerosa, come gran parte delle famiglie di fine Ottocento che doveva far fronte alle esigenze che la terra richiedeva e la loro storia è la storia di un esodo. Nel primo dopoguerra si trova costretta ad abbandonare la propria terra, la terra delle proprie origini, per trasferirsi in Agro Pontino, zona in corso di bonificazione - grazie al fascismo - che ospiterà migliaia di famiglie come la loro. Il legame che queste persone hanno con la loro terra è un legame tanto stretto da essere quasi vitale - mi ha ricordato più volte e in più casi Furore di Steinbeck - e proprio per questo la forza che risiede in loro è da ammirare. Ci si affeziona ad ogni componente di questa grande famiglia: il nonno e la nonna, Pericle, Adelchi, Iseo, Paride, Bissolata, Santapace, Armida. Chi biondo, chi moro, ognuno con una personalità forte, ma estremamente umani anch'essi nel loro commettere errori. Le donne in particolare sono tratteggiate in maniera decisa e hanno un ruolo centrale nel romanzo.
Il lettore viene coinvolto totalmente nella vita di questi coloni grazie soprattutto allo stile colloquiale che l'autore utilizza, rivolgendosi parecchie volte direttamente a chi sta leggendo. Anche per questo motivo, la lettura diventa divertente, suscita ilarità e curiosità.
Ho trovato estremamente interessante l'aspetto storico del romanzo. Del fascismo sapevo giusto qualcosa di essenziale - le pagine che si studiano a scuola, per essere chiari -, ma Canale Mussolini si è rivelata una fonte inesauribile di informazioni.
Quindi cosa ci può essere di meglio della lettura di un romanzo che intrattiene e insegna - facendo bene entrambe le cose - allo stesso tempo?
È la storia di una povera famiglia Patriarcale del nord che per alcuni casi della vita si trova ad affrontare il lungo viaggio E la dura avventura che porterà migliaia tra veneti e friulani nel lontano lazio per la bonifica dell'agro pontino. Il racconto inizia ai primi del '900 E termina con la seconda guerra mondiale. Da apprezzare i continui riferimenti alla storia e la modalità di trattamento. Chi narra fa parte della famiglia e riporta ciò che gli è stato raccontato con scrittura semplice e mai noiosa. Particolari ad esempio sono i riferimenti a Mussolini e e agli eventi storici in generale che molto spesso, anche se riguardanti situazioni e discorsi ufficiali, sono riportati in dialetto (come probabilmente sono stati raccontati negli anni alla “voce narrante” Del libro. 5 stelle strameritate. Raramente i vincitori del premio strega mi affascinano. Ecco l'eccezione che conferma la regola.
Tante volte abbiamo letto storie di famiglie travolte dalla Storia, tutte commoventi, appassionate, intriganti. Qui c'è un'originalità e una visione che può anche irritare, ma che la fa apparire meno epica e soprattutto la svuota dalla retorica. Già, perché se un vecchio ci racconta una storia con il suo modo di parlare e di vedere, difficilmente sarà quello politically correct a cui siamo abituati e che ci aspettiamo, ma regala al racconto una freschezza e una novità che rendono la lettura piacevole
Scrivo la recensione di questo libro fortemente indecisa. Non posso dire di non averlo apprezzato alla fine ma ci sono stati dei momenti (diversi) in cui non vedevo l’ora che finisse. Le vicende della famiglia Peruzzi, contadini veneti della zona di Codigoro che sono stati a sempre abituati alla mezzadria, fino a che vengono costretti ad emigrare nella provincia romana per la bonifica delle paludi dell’agro pontino, in seguito alla mossa del fascio, forzata dal malcontento incalzante, di concedere un podere in quella zona a tutti coloro che si erano visti portare via terreno e bestiame, conquistati in tanti anni di duro lavoro, a causa della riforma di quota 90, sono anche divertenti e coinvolgenti. Ed anche leggere di una parte di storia poco conosciuta perché poco raccontata e comprendere le motivazioni di certi avvenimenti e soprattutto di certe posizioni “regionali” e orientamenti politici, è stato davvero interessante. Però ci sono stati dei momenti in cui certe divagazioni soprattutto riguardo alcuni uomini politici poco famosi, protratte troppo a lungo, così come il racconto di alcune vicende dei componenti della famiglia poco utili ai fini dello svolgimento della storia principale, diventavano noiosi e non vedevo l’ora che terminassero, rendendo la lettura ostica ed il procedere faticoso. Per la gran parte del romanzo però la lettura è piacevole grazie alla scelta azzeccata del Pennacchi di raccontare la storia in prima persona, dalla voce di questo misterioso componente della famiglia che solo alla fine scopriremo chi sia. E il linguaggio molto semplice e popolare, senza ricercatezze e spesso e volentieri ricorrendo all’uso del dialetto avvicina l’autore al racconto di quella che è la storia della sua famiglia, anche se non interamente biografica. Le scelte e le decisioni, sia degli uomini comuni preda della povertà e quindi votati al “miglior offerente” sia (soprattutto) quelle degli uomini politici e di stato, vengono descritte in maniera chiara e diretta, molto semplice e di facile comprensione per tutti, oserei dire quasi impietosa. E così ne viene fuori la morale che nella seconda metà del libro è richiamata più volte “ciascuno gà le so razon” che da un lato, per quanto riguarda il popolo italiano descrive un quadro molto triste e deludente ma dall’altro lato, quello del grande dittatore preda di simpatie e invidie personali, di costanti cambiamenti di idea in preda dell’andamento del vento, di incompetenza in diversi ambiti della vita di stato, descrive una figura non così altisonante e di spessore come vorrebbero i racconti di una certa parte di storici e politici di oggi. Se inizialmente mi è stato utile leggere delle vicende di questa famiglia immensa per potermi immedesimare e comprendere così le ragioni di un così vasto consenso, da un certo punto in poi non mi è più riuscito facile, ma anzi mi son trovata a pensare “chi è causa del suo mal pianga se stesso” senonchè, ed è molto tragico ammetterlo, il soggetto in questo caso è il popolo italiano quindi tutti noi.
Ammetto bellamente di aver sempre scostato il romanzo per un senso di fastidio, di prurito, nel leggere quel Mussolini nel titolo. Cosa ci volete fare? temevo di trovarmi di fronte alla glorificazione del ventennio, di Quando c'era lui!, una sorta di celebrazione delle sue gesta.
Un pregiudizio, il mio, che come tale dovevo e volevo superare, se non altro per togliermi dalle palle quel titolo — perché nella vita mi son sempre messo a sfrondarli i pregiudizi.
E così ho cominciato a leggere le prime pagine un po' a denti stretti — sempre loro, i pregiudizi! —, ma presto sono diventate decine e decine e, vuoi per l'ambientazione ferrarese — i miei genitori, così come la stragrande maggioranza dei miei parenti, sono nati lì', e in tempo di guerra erano bambini —, vuoi per la scelta dell'autore di avvalersi di un'intera famiglia di contadini per mostrare gli avvicendamenti politici cruciali durante quegli anni, con il loro dialetto a scandirne i tempi, ho cominciato a partecipare emotivamente ai cambiamenti in atto della famiglia Peruzzi, ma soprattutto a quelli di un intero paese.
La narrazione, poi, affidata ad una "voce" esterna che si rivolge ad un ipotetico intervistatore, assume le sembianze di un flusso di coscienza: saltellante e diretta, senza intellettualismi di mezzo, si attacca alla pagine come il contadino alla terra, pronta a seminare informazioni su informazioni, facendo vivere a chi legge ciò che probabilmente ha vissuto una buona fetta dell'Italia di allora, stemperando le brutture con la leggerezza colloquiale.
Mentre leggevo, a dare ancora più forza alle immagini che mi si formavano davanti agli occhi, mi sono tornati in mente molti film italiani che amo di quegli anni, ambientati intorno al periodo fascista e spesso tratti da romanzi, che andrebbero sicuramente visti da tutti almeno una volta, specchi a volte seri e a volte ironici di un'Italia che fu. Penso ad esempio al Rossellini di Roma città aperta, Paisà e anche Il generale Della Rovere; al grande Risi, da La marcia su Roma a Una vita difficile; al mitico Zampa di L'arte di arrangiarsi, Gli anni ruggenti e Vivere in pace; al disturbante e inarrivabile Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini; a I sette fratelli Cervi di Puccini; al dissavrante Amarcord di Fellini; a Il Federale di Salce; a Sotto il sole di Roma di Castellani; al bellissimo — da vedere e rivedere — Le quattro giornate di Napoli di Loy; al toccante La lunga notte del '43 e a Il delitto Matteotti di Vancini; al meraviglioso Una giornata particolare di Scola; a quel Cristo si è fermato a Eboli di Rosi, con l'insuperabile Volonté; a Estate violenta di Zurlini; a Achtung! Banditi!, Il processo di Verona e Mussolini ultimo atto di Lizzani; a quel Rappresaglia di P. Cosmatos sulle Fosse Ardeatine; a La ragazza di Bube e soprattutto Tutti a casa di Comencini; all'immenso Il conformista e anche a Novecento di Bertolucci; al bellissimo La notte di San Lorenzo dei Fratelli Taviani; a Destinazione Piovarolo di Paolella... e tanti altri ancora.
Il mio giudizio, insomma, è assolutamente soggettivo, non riguarda propriamente il romanzo in sé, ma grazie ad esso mi sono divertito a seguire i Peruzzi tra le pagine, a rivivere ciò che ho visto attraverso i film e letto in altre letture, o conosciuto attraverso le testimonianze di chi c'era, seppur bambino.
La Liberazione arriva alla fine di questo romanzo. E "Liberazioneeeee!!" ho pensato io ieri sera dopo aver letto l'ultima pagina. Uff, è stata una faticaccia. Eppure io sono una patita di queste saghe familiari a sfondo storico, in cui le vicende dei protagonisti di mescolano con la Grande Storia. Ma qui ho proprio fatto fatica, al punto di abbandonare del tutto per un paio di settimane intere la lettura. Pennacchi si impantana in una ricostruzione a tratti davvero pesantissima del ventennio, soprattutto nella parte centrale del romanzo. Ho letto molte critiche molto negative di altri anobiiani su questo romanzo. Dal punto di vista linguistico personalmente gli perdono le varie imprecisioni, soprattutto perchè per sua ammissione la lingua parlata dai personaggi è una ricostruzione di un dialetto che ha subito moltissime influenze. E poi si sa, il dialetto in Italia cambia non solo da regione a regione, non solo da provincia provincia, ma anche da campanile a campanile!! La stragrande maggioranza dei Pennacchi è risultata indigesta anche a me, tranne la figura meravigliosa dell'Armida, la donna che parla con le api, l'unica che si distacchi dalla grettezza e dal fatalismo del resto della famiglia (di cui, come le viene spesso ricordato, in fondo non fa veramente parte). Pero' credo che questo romanzo offra uno spunto interessante di riflessione su un certo tipo di mentalità italiana, quella che a discapito degli ideali rivendica il proprio pane quotidiano (o il proprio smart phone quotidiano, o la propria puntata del "Grande Fratello" quotidiana... devo continuare?). Quella che purtroppo continua a sostenere l'ineluttabilità del governo di una certa parte politica e di certe pratiche che costituiscono un insulto alla morale.
Canale Mussolini è un romanzo corale che Pennacchi definisce il motivo per cui è venuto al mondo. Si intuisce subito lo sconfinato affetto dell'autore verso i parenti, protagonisti di questa saga familiare dai toni agrodolci che affascina per forza narrativa e che sfiora l'epopea. Attraverso le vite di questi mezzadri veneti che la sorte porterà a bonificare la paludi pontine vediamo scorrere le vicende più importanti del Novecento. Dalla Prima guerra mondiale all'avvento del Fascismo, dal consenso entusiastico al culto del Duce sino alla conquista dell'Impero e poi negli anni che precedono la Seconda guerra mondiale i Peruzzi sono presenti negli snodi più controversi della storia italiana. Vite vissute sino in fondo, tra momenti tragici e situazioni allegre ma sempre a testa alta, senza piegarsi ai ricatti e ai soprusi. Con un linguaggio che sfuma spesso verso il dialetto (sono irresistibili le versioni in dialetto dei dialoghi tra Mussolini e Hitler) il libro, impostato come un monologo che il narratore rivolge ad un non identificato ascoltatore, fluisce tra grande Storia e piccole mistificazioni che danno un sapore particolare alla narrazione. Canale Mussolini è un bel libro che ci fa riflettere su come eravamo (e su come siamo adesso).
Un viaggio nel periodo del fascismo visto attraverso gli occhi di una famiglia fittizia, i Peruzzi di Codigoro. Pennacchi riesce a raccontare gli eventi con obbiettivita' e ci mostra come e perchè una buona parte degli italiani abbracciarono la causa fascista (almeno per un certo periodo).
Interessante da un punto di vista storico, rivisita le circostanze in cui migliaia di Italiani emigrarono in 'controsenso', dall'alto verso il basso, dall'Altitalia alle paludi Pontine, protagonisti volenti o nolenti di quell'opera di risanamento che riusci' dove Papi e Romani avevano fallito. Il canale Mussolini, realizzato per irrigare le terre paludose del Lazio e della Campania, divenne un simbolo di propaganda del regime fascista, che lo pubblicizzò come un'opera grandiosa e all'avanguardia. Il canale esiste ancora e continua a svolgere la sua funzione originaria.
Una storia di un periodo storico complesso e certamente controverso, raccontata attraverso personaggi di una grande umanità. Scritto in uno stile agile e scorrevole, non manca di spunti divertenti. Un bellissimo libro per chi ama la letteratura e la storia d'Italia.
Un libro fiume, più che canale, con il ritmo narrativo incalzante di un racconto orale, che sembra quasi di stare in una stalla a fare il filò. A tratti comico, a tratti commovente la frase ricorrente "ognuni ga le so razòn", il mantra di Zio Adelchi risucchia come un'idrovora e bonifica dalla controversia la vicenda familiare del fascistissimo clan dei Peruzzi. Per certi versi è una ricostruzione storica post-ideologica e libera dalle ipocrisie di una certa storiografia repubblicana, che poco è riuscita a spiegare di come da un paese di fascisti si sia diventati tutti antifascisti (e alcuni più di altri) nel '43. Volendo azzardare una lettura critica, Pennacchi nasconde in piena vista come la lealtà dei Peruzzi al regime fosse una questione clientelare, ma allo stesso tempo mette al muro il lettore più critico con l'epopea della povera gente. Un antidoto alla guerra civile senza sfumature di 900 di Bertolucci in un romanzo da divorare da pagina 1 a pagina 460 senza fermarsi a prendere fiato o alzarsi per andare a pisciare, che si corre il rischio che la storia venga raccontata senza di te.
Come dice, scusi? Non ci crede? Io non c'ero, così me l'hanno raccontata e io così gliela racconto. Procede più o meno così il narratore di Pennacchi: fino alla fine non capiremo chi è né che ruolo abbia avuto nella storia che racconta; sappiamo solo che si rivolge a un interlocutore, come in una sorta d'intervista, e che questo gli muova dei dubbi, delle questioni. E lui, puntualmente, gli dice: se non ci vuol credere, cazzi suoi, io la so così e gliela racconto così. Se vuol sapere le ragioni degli altri, vada a chiederle a loro.
Può sembrare una cazzata, ma è un espediente narrativo originale quanto semplice, nonché molto efficace, essenziale per rendere epica questa narrazione. Come dite? non è una narrazione epica? E come lo chiamate allora un testo che racconta la fondazione di un territorio, la costruzione di una città, la migrazione di un popolo? Io non saprei in che altro modo chiamarlo, dunque per me si tratta di un racconto epico; o meglio ancora, di un romanzo storico dal sapore epico. Punto.
La bonifica dell'Agro Pontino, Latina, il Fascismo, il Duce, ecc sono elementi che stanno in tutti i romanzi di Pennacchi. Anche quando vorrebbe parlare d'altro, lui sempre lì ritorna. Canale Mussolini, però, queste cose le condensa tutte e le fa fluire come un fiume in piena: come dice egli stesso, lui questa storia ce l'aveva dentro e sentiva l'urgenza di raccontarla. È nato per scrivere questo libro, dice. E quando lo dice, io gli credo. Quando vi capiterà di sentir parlare dal vivo Antonio Pennacchi, allora ci crederete anche voi. Se poi la cosa non v'intaccherà, io davvero non posso farci nulla.
L'autore voleva raccontare la storia della sua gente, della sua famiglia. Che è poi la storia di un popolo intero: 30.000 persone nell'arco di pochi anni migrarono dal nord-est per andare nell'Agro Pontino. La bonifica di quelle terre non era riuscita mai a nessuno prima di allora, e questo è un dato di fatto.
Questa cosa Pennacchi la racconta con trasporto e con un certo moto d'orgoglio, poiché è vero che la bonifica fu opera del Duce, ma fu soprattutto merito delle migliaia di braccianti, mezzadri e operai che vi lavorarono e fecero sì, anche a costo delle loro vite, che ciò avvenisse. Alcuni di questi mezzadri erano i nonni e gli zii dell'autore: Canale Mussolini è la loro storia, e al contempo è anche quella di tutti coloro che erano lì.
E dunque com'è questo romanzo? È bello. Si legge d'un fiato, è coinvolgente, ti fa ridere, piangere e riflettere su un fatto storico importante spesso trattato come nota a margine; ti fa capire le ragioni di un popolo, del perché una certa parte d'Italia all'epoca fosse convintamente fascista, senza condannare questa adesione, poiché sarebbe stato strano fosse accaduto il contrario.
In fondo, quelle terre furono date in mano a braccianti a mezzadri; e questi che dovevano fare, essere antifascisti? Si potrebbe parlare per ore di Canale Mussolini, e non solo da un punto di vista storico o narrativo, ma anche linguistico. Ad esempio: i dialoghi in veneto, tutta la ricerca fatta sul dialetto e sulla lingua dei coloni. E tutte le espressioni, gli intercalare, le onomatopee usate per descrivere il rumore degli attrezzi da lavoro, delle armi, dei veicoli.
Oppure: i personaggi fantastici, gli aneddoti divertenti, tragicomici e commoventi che popolano il romanzo. Ti verrebbe voglia di abbracciarlo, Zio Pericle, ti sembra proprio di averlo lì accanto a te. E la zia Bissolata, il can del Turati, Temistocle, il Nonno, la Nonna, Treves, Adelchi, l'Armida... una galleria di figure indimenticabili che Pennacchi tratta come figli: non se ne dimentica mai uno per strada, non ce n'è uno che non abbia la sua storia, il suo ruolo, la sua importanza.
Un romanzo epico, appunto. A cui non si può non voler bene. Uno degli esempi migliori di narrativa italiana negli ultimi anni. E non si può essere che felici per il suo successo, per la larga diffusione e, perché no, pure dello Strega, malgrado non ce ne possa importare di meno. Ma, direbbe Pennacchi, me l'hanno dato e io me lo piglio.
Un vero e proprio racconto epico, una narrazione continua, senza sbavature, senza contraddizioni, piena di humour e di umanità. Tre generazioni di una famiglia patriarcale del delta del Po, emigrata sulla bonifica dell'Agro Pontino per non "puzzarsi di fame". Sanguigni, violenti, dolcissimi, e si, fascisti, ma non per la politica: per la terra e per la fame. La terra soprattutto, la terra e le bestie, con un feroce istinto di conservazione. Un libro molto ben scritto, che si legge tutto di un fiato. Immagino che qualcuno si aspetti un giudizio politico, ma non intendo darne: capisco le ragioni di questa gente, e per queste ragioni, famiglie intere si sono divise tra le due parti politiche, senza, peraltro, capire nulla né di politica né di chi li manovrava.
Wat een geweldig mooi boek! Aangrijpend, maar ook hilarisch. Met geen mogelijkheid kun je het even aan de kant leggen. De schrijver zou je favoriete geschiedenisdocent kunnen zijn, bij wie je aan z'n lippen hangt. Maar door wie je af en toe ook streng wordt toegesproken. Het verhaal speelt zich af in het Italië van de eerste wereldoorlog, het interbellum en de tweede wereldoorlog en gaat over een familie van eenvoudige mensen die toevallig aan de verkeerde kant staan. Antonio Pennacchi slaagt er bij de lezer in sympathie op te bouwen voor een familie met verkeerde vrienden.
Non sono riuscita ad andare oltre pagina 102. Lo stile risulta pesante e, unito alla totale mancanza di una divisione in capitoli, rende la lettura stancante e difficile.
Odličan roman jer „Svatko ima svoje razloge“. I ništa nije prikazano ni crno ni bijelo. Bravissimo maestro!! Kroz izmišljenu obitelj Peruzzi koja predstavlja venetske doseljenike u Agro Pontino prikazan je nezahvalan dio talijanske povijesti (od početka 20.st. - do kraja Drugog svjetskog rata), povijesti o kojoj jako malo znamo jer povijest uvijek pišu pobjednici. Agro Pontino bilo je stoljećima nenaseljeno močvarno područje, izvor malarije, koje je Mussolini 1926. g. dao meliorizirati i naseliti obiteljima bezemljaša sa sjevera Italije, a koje su imale bar jednog člana - borca u Prvom svjetskom rata te su ujedno bili i odani fašisti. Svaka je obitelj na poklon dobila seosko imanje s kućom, gospodarskim zgradama i životinjama. Osim toga, dao je sagraditi niz gradova. I iako je Mussolinijeva „briga za čovjeka“ bila tek predstava i krinka pod kojom je širio svoju zločinačku, totalitarističku ideologiju, ipak je ta „briga“ donijala i nešto dobro običnom čovjeku. Nije više bio gladan. Problem je što je zbog toga narod osjećao i zahvalnost i odgovornost prema vlasti. E sad, jesu li trebali odabrati drugi put? Što i koliko su uopće znali o politici? Ideološka propaganda je bila toliko jaka da su za ukinuće sankcija od strane Europe zbog okupacije Etiopije, koje je Italija zaradila 1935., a već 1936. su bile ukinute, stanovnici doznali tek 1954. Tako kaže autor. Osim toga, tko zna u kojem bi se smjeru razvijala povijest da je Mussolini nastavio s gospodarskim razvojem i agrarnom reformom Italije te da nije u jednom trenutku pomislio da treba osvojiti svijet i priklonio se nacističkoj Njemačkoj. Tada počinje i antisemitizam u Italiji. Do tada su mnogi Židovi bili u fašističkoj stranci, a i glavni arhitekti bili su Židovi. Pisac nipošto ne veliča fašizam, štoviše kroz razne epizode donosi brutalne, nasilne scene sukoba fašista s neistomišljenicima te posebno kroz prikaze agresije na Etiopiju. Volim knjige koje mi ostavljaju prostor da razmišljam i sagledam događaje s više strana, a ova je jedna od njih.
Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. In poche frasi brevi e secche, pragmatiche, il riassunto di una tragedia che ha travolto generazioni di italiani. Che ci travolge ancora, perchè ora migriamo in modo diverso, e votiamo in modo diverso, ma le scelte che facciamo, i percorsi che seguiamo, non sono poi così dissimili. Nella saga della famiglia Peruzzi, mezzadri padani migrati in Lazio per fame, c'è riassunta una bella fetta della nostra storia recente, sul trentennio fascista in particolare, ma non mancano riferimenti ai primi anni del secolo e al nostro presente. Partiamo subito con il dire che io, di questo periodo, non sapevo niente. Ma niente proprio, eh. Beh, tranne il minimo sindacale, e poco anche di quello. Ne so un poco di più del periodo dopo, che ha visto migrare i miei nonni dal Veneto al Friuli per cause più o meno simili. Non che qui ci fossero grandi possibilità, ma il nonno - mezzadro pure lui - era stato sfrattato e qui ha tentato la fortuna. Molte delle mie zie friulane, invece, sono migrate in Canada e in Svizzera. Come detto, non è che qui i contadini stessero poi tanto tanto meglio, ma si era nel dopoguerra, le cose stavano migliorando, stavamo per svoltare e svoltato abbiamo. Ora no, ora ricominciamo a emigrare, ma questa, come direbbe la voce narrante di Canale Mussolini, è un altra storia e non interessa a nessuno. La storia della famiglia Peruzzi è narrata da uno di loro, che resta anonimo fino alla fine del libro. Attraverso le sue parole rivive la storia dell'intera famiglia, raccontata con piglio e ironia, tanto che le molte pagine scorrono veloci, e non si può fare a meno di amarli, questi Peruzzi, anche quando le decisioni che prendono sono quantomeno discutibili, e portano al disastro. Ma è un disastro affrontato sempre di petto, e con coerenza verso se stessi, se non verso la storia. Ecco, la storia, e la politica, che in questo racconto hanno molto peso. Forse dovrebbero pesare anche sulla valutazione del libro perchè Pennacchi, di suo, non ha (o io non ho percepito) uno sguardo particolarmente equanime e critico. Però sarò sincera: in questo caso ME NE FREGO! Diciamo che della politica non mi importa, perchè le scelte che i Peruzzi fanno sono motivate tutte dalla stessa cosa, dalla fame. E dalla speranza di un futuro migliore. Sbagliano? Eh, pazienza, lo stomaco ha ragioni che la ragione non conosce, che ci possiamo fare. Un bel libro, insomma, con bei personaggi, sempre in bilico tra una modernità che sta arrivando e le tradizioni popolari. Uomini grandi grossi e eroici e donne belle, forti e coraggiose. Una descrizione forse un poco troppo "eroica" che non va a braccetto con la realtà dei tempi, ma che si lascia leggere: e sinceramente, tutti preferiremmo avere avi in gamba, da mitizzare, no? Qui la mitizzazione è forse un poco troppa: la nonna che predice la sfiga in famiglia, le api senzienti di Armida, Pericle coraggioso fino al midollo, Paride che è bello ma porta la vergogna sulla famiglia, ma hanno una loro radice epica giustificabile. Due soli appunti che abbassano la piacevolezza della lettura: a un certo punto l'autore perde il senso della misura e racconta per filo e per segno come erano le strade dell'Agro Pontino, con dovizia di particolari interessanti solo per un ingegnere stradale, ma forse nemmeno per lui; L'identità del narratore, e la storia che ha portato al suo concepimento: forse sono solo io, ma mi sembra una virata inutile, tutto sommato una "storia nella storia" che non serve poi a tanto, ma sono piccolezze.
Il genere romanzo storico, al quale appartiene a buon diritto questo libro, non incontra il mio favore, non ne capisco l’esigenza; mi spiego: se ho dell’interesse per il periodo e i fatti narrati ho a disposizione migliaia di volumi, testimonianze e racconti di prima mano che seppur possano non rappresentare la “verità incontestabile” hanno la patente di saggi documentali o perlomeno se ne assumono gli oneri. Nel caso del romanzo non si può separare il fatto storico dalla finzione, l’escamotage del punto di vista e l’alleggerimento del tema attraverso l’intreccio narrativo che rende più accessibile l’argomento storico, mi sembrano un tentativo didattico più che un’operazione letteraria. Forse è un mio limite ed è per questo che non attribuisco stelle o stelline, rischierei di essere ingenerosa ed il lavoro e l’impegno profusi dall’autore meritano rispetto.
Il libro si fa leggere, il lunghissimo racconto dell’erede di una famiglia veneta trapiantata nell’Agro Pontino ai tempi della bonifica, l’epopea di una famiglia fedele al duce, cinquant’anni di storia patria attraverso lo sguardo di questo ultimo rappresentante, sono una sorta di amarcord da osteria, con il tono rassegnato di chi ne ha viste tante, dalla miseria al boom economico, anche se mi ha lasciato un po’ perplessa il tentativo (non so se dell’autore o della voce narrante) di far passare il messaggio che sia sempre la stessa storia: umili vs potenti , opportunismi politici, revisionismo di comodo, insomma proprio come all’osteria (in particolare non credo che chi cucina alle feste della lega abbia cucinato alle feste dell’unità, ditemi che non è così).
A questo momento, il miglior libro letto nel 2010. Grande e suggestiva saga di una famiglia ma più ancora di una società in anni cruciali per la storia del nostro Paese. Un affresco reso con un linguaggio diretto e accattivante ma solo apparentemente elementare: in realtà frutto di una accorta tecnica manovrata con originale sensibilità. Personaggi memorabili, fondali grandiosi, profonda umanità, e in più l'ironia che evita a questa lunga e turgida vicenda di scadere nel melodramma. E non sfugge la finezza, la leggerezza con la quale in più occasioni l'autore richiama confronti con i fatti italiani di oggi... Bravo Pennacchi, un romanziere autentico.
Sono restata a lungo sulla pagina bianca della recensione, indecisa su come scriverla. Il libro è ben scritto, inquadra una pagina della nostra storia attraverso una nostra famiglia, ben delineati i personaggi, originali in molti tratti. Ma resto dell'idea che o si fa un libro di storia o si fa un romanzo e qui le pagine storiche talvolta sono troppo invasive rispetto alla trama e la lettura ci rimette. Anche le descrizioni tecniche sono eccessive, quasi un trattato di tecnica agraria ed idraulica. Un libro che si fa leggere, ma premiato oltre il suo reale valore
Ho finalmente terminato Canale Mussolini che, mi scuserete, sarà pure un premio Strega, ma a me ha lasciato alcuni dubbi. Io mi aspettavo una saga familiare inquadrata in un determinato periodo storico e luogo mentre, a mio avviso, è un resoconto storico (magari anche molto accurato) con una risicata parentesi su alcune vicende familiari di tal famiglia Peruzzi. Dettagli tecnici a non finire ed espressioni dialettali rallentano la narrazione. Alcuni tratti di una noia incredibile, si riprende con vicende buffe narrate con leggerezza e arguzia ma secondo me per un premio Strega... delusione
Sapore di paese, delle cose che furno e qualche cenno storico a volte rivisitato. Piacevole e fluido. Ma niente a che vedere con il capolavoro di cui la critica ha tanto parlato.