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Lo stradone

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Primi anni Venti di questo secolo nella «Città di Dio», decadente metropoli che assomiglia molto a Roma. Un uomo di circa settant’anni osserva dal settimo piano della sua palazzina le vicende dello «Stradone»; i tanti personaggi che lo percorrono incarnano tutte le forme del «Ristagno» della nostra società. Invecchiamento e conformismo, razzismo e sessismo, sopravvivenze popolari e «trentelli» rampanti, barbagli di verità, etnie in conflitto, il fantasma dell’integralismo islamico, la liquefazione di sinistre e destre e della classe media in un unico «Grande Ripieno»: nulla sfugge a questo narratore disordinato ma perspicace, che pare saper restituire meglio di chiunque – con ironia, cinismo, nostalgia, umorismo – il non senso del nostro presente. Racconta anche, l’uomo senza nome, la propria esistenza di «Novecentesco», aspirante storico dell’arte, funzionario di Ministero, uomo che ha creduto nel comunismo e poi si è fatto socialista e corrotto, con i suoi amori e, oggi, l’ossessione per la vecchiaia, la malattia, la pornografia; e ricostruisce infine – con documenti veri o quasi-veri – la storia di un quartiere i cui abitanti, operai e proletari, per secoli e fin oltre la metà del Ventesimo, hanno prodotto qui i mattoni di cui è fatta la Città: il quartiere più comunista e antifascista di tutti, forse visitato da Lenin – personaggio inatteso di queste pagine – nel 1908.

Il risultato è un libro certamente unico nel panorama letterario non solo italiano, in cui la passione politica, antropologica e linguistica, le vicende di una vita, di un quartiere, di un intero secolo concorrono a un’esperienza di lettura memorabile: un’illuminante – tragica ed esilarante – avventura di conoscenza.

443 pages, Paperback

First published April 18, 2019

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About the author

Francesco Pecoraro

13 books28 followers
Francesco Pecoraro è uno scrittore e poeta italiano. Architetto e urbanista a 62 anni pubblica la raccolta di racconti Dove credi di andare, che si aggiudica il Premio Napoli.
Con La vita in tempo di pace si aggiudica il Premio Viareggio.

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Profile Image for Orsodimondo.
2,458 reviews2,433 followers
June 17, 2025
LA VITA DIETRO



Che bello ritrovare Pecoraro, chiaro, lucido, elegante, ironico, cinico, impietoso, disincantato, sofferto, doloroso…
Letture che riempiono così tanto che ho lasciato passare anni tra l’altro magnifico romanzo La vita in tempo di pace e questo suo secondo.
Come se prima dovessi svuotarmi e ricaricarmi.
Non son letture che posso fare a distanza ravvicinata.
Sublime depressione, come quella che prova l’io-narrante in visita alla Rothko Chapel di Dallas.



Anche questa volta non s’allontana dalla Città-di-dio che è quella dove anch’io sono venuto ad abitare ormai da qualche decennio. Ci ho messo anni ad abituarmici, non la digerivo: poi ho imparato ad andarci d’accordo, ad amarla, con gli umori che nelle pagine di Pecoraro ho ritrovato a iosa.
E ambienta tutto, come era successo in buona parte già nel romanzo precedente, intorno a casa mia: il suo Stradone, se solo volessi, potrei raggiungerlo a piedi. E invece lo giro in motorino, incrociando sguardi che sembrano non gradire la mia presenza estranea. Oppure lo domino dall’alto passeggiando col cane.
O, ancora, frequento la biblioteca che è un luogo che m’è piaciuto subito.



Stimolato da Pecoraro ho appreso che, non solo in quella ristretta parte della Città-di-dio, le fornaci rappresentarono la rivoluzione industriale della capitale, la vera classe operaia con tanto di primi sindacati e di possibile, o mitico, incontro con Lenin nel 1908, e di soprannome indicativo, La Piccola Russia. Anche se di industrialmente rivoluzionario c’era così così, e visto che si sfornavano mattoni da costruzione (et similia), l’impressione è che fosse comunque un’attività un pochino retro.
Io stesso ho esperienza diretta di altre fornaci romane, quelle a Saxa Rubra - che salutavo anche nei miei giri ciclistici – nelle quali ho passato sia (forse) le giornate di lavoro più gelide che quelle più torride essendo zona di alta umidità, fattore che come si sa rafforza (in senso drammatico) qualsiasi temperatura.



Pacata invettiva, non così biliosa e arrabbiata come il primo. Eppure anche questo si potrebbe intitolare La vita in tempo di pace. Anzi, proporrei un La vita in tempo di pace: la vendetta.
Un’invettiva che qui e là si fa inchiesta, con (apparenti?) interviste e citazioni.
I corsivi surreali, che sono stralci di conversazioni da bar in romanesco, che sono spasso e illuminazione, aneddoto e aforisma, sintesi perfetta dell’oggi.



Pecoraro affida a un alter ego narrante ormai in pensione, studi umanistici (storia dell’arte) riciclati in un impiego al Ministero utile per lo stipendio meno per soddisfazioni e realizzazione professionale, militanza politica nel Partito poi trasformato in quello socialista – quando i socialisti occuparono posti potere e quant’altro – mazzette, arresto nel 1991 (Mani Pulite), un mese di carcere, condanna lieve da non scontare, reintegrazione al ministero, matrimonio, divorzio, altre storie. E oggi, solitudine, internet, passeggiate senza una meta, supermercato, estraneo ma perfettamente inserito nel suo tempo…



E intanto ragiona descrive racconta, prova a spiegare ma sapendo che non si spiega nulla - e soprattutto non si comprende nulla, cominciando dalla fenomenologia dell’incrocio semaforizzato a tre vie – le trasformazioni urbanistiche, i giovani e i pensionati, uomini e donne, baristi e clienti, i cani e le cacche e i padroni dei cani, i senza casa e il traffico, gli uccelli le blatte e il mondo. Il suo e il mio.
Che sembra incontrarsi tutto e essere racchiuso in quel bar Porcacci, luogo famigerato da mortacci e sticazzi

Non servono parole perché sappiamo già tutto, cioè che non capiremo mai. E chi di noi vuole davvero procurarsi le “crude” immagini di eventi stragisti e islamo-macellanti le troverà facilmente nell’internet.





Profile Image for Ubik 2.0.
1,073 reviews294 followers
August 29, 2021
“Il cinismo sarà anche sbagliato, cioè cinico, ma una chiave di lettura te la dà e di solito funziona…”

Concordo con l’opinione comune che “La vita in tempo di pace” sia un ottimo libro, meritevole di aver inserito Francesco Pecoraro tra i migliori autori italiani contemporanei e giustamente consacrato da riconoscimenti, premi, fama e citazioni, ma non mi spiego l’accoglienza tiepida e dubbiosa che sei anni dopo ha accolto “Lo stradone”, opera a mio parere anche superiore per certi aspetti che credo rimarranno a lungo nell’immaginario collettivo, nel mio senza alcun dubbio.

Forse è perché il romanzo precedente era molto più strutturato e compatto, ben afferrabile nel suo procedere a ritroso del tempo del protagonista scandendone le tappe esistenziali più significative. “Lo stradone” è invece un magma, non un romanzo ma un profluvio di idee, meditazioni, invettive, quaranta capitoli che potrebbero essere letti in ordine sparso senza perdere spessore e significatività.

Dall’alto del suo terrazzino al settimo piano munito di binocolo, il narratore “osservatore/analizzatore” esamina e anatomizza uno spicchio della “Città di Dio” raccogliendo proprio come un entomologo tutti i dettagli, anche e soprattutto quelli in apparenza insignificanti, utili a estrapolare una miriade di riflessioni applicabili all’intera “Penisola”, intrise di cinico e affilato pessimismo sulle sue sorti socioeconomiche ed esistenziali che non si limitano ad annunciare il famoso e famigerato “degrado” ma comprovano che esso è già presente fra noi con assoluta inarrestabile dominanza, avendo preso il deciso sopravvento rispetto alla passata “Grande bellezza” e alle aspirazioni che mossero e sostennero intere generazioni, quella di Pecoraro e le immediatamente successive (fra cui la mia).

Lo Stradone è in effetti molto intriso di romanità, ma uno dei corollari dell’analisi è la valenza universale delle tipologie di individuo, dei comportamenti, dei vizi, dei segnali di disfacimento che promanano dalle figurine che si agitano sullo stradone e sui luoghi ad esso connessi.

Un elemento determinante del testo e che si pone ad equilibrare e stemperare la pena e il dolore che altrimenti rischierebbero di deflagrare il quadro, è rappresentato dalla dirompente quota di ironia che Pecoraro sa dosare con grande proprietà, senza sbandare in direzione del racconto demenziale ma utilizzandola a sottolineare l’aspetto tragicomico che connota l’umanità descritta, soprattutto sé stesso e i suoi più o meno coetanei, nei quali vede specchiarsi gran parte dei suoi stessi difetti (anche se più che difetti appaiono come ferite, malattie, spie del cedimento psicofisico verso il rincoglionimento e/o la morte).

Mi ha convinto meno, come accadeva anche nel romanzo precedente, il lato intimo del narratore, la vita sessuale e sentimentale nella cui descrizione si infiltrano luoghi comuni e giravolte poco interessanti e già viste e lette; non così l’aspetto altrettanto personale dell’involuzione politica del soggetto, che pur non sfuggendo anch’essa a qualche luogo comune ha un suo peculiare significato che si ricollega ai lunghi capitoli (che noto aver infastidito qualche lettore…) dedicati alla storia della rossa comunità di fabbricanti di mattoni che popolava le colline di argilla poco oltre lo Stradone ed allo straordinario fugace passaggio fra loro di Lenin in persona, per poche ore nella limitrofa sezione di Partito.

Ma comunque sia, ribadisco che la coesione interna di questo pseudoromanzo non ne rappresenta certo la dote migliore, peraltro neppure perseguita forse perché esso sgorga in maniera torrenziale dall’anima dell’autore e lascia straripare senza filtro le sue (sacrosante per quanto mi riguarda) idiosincrasie. Resta da dire che mi sono annotato una quantità esorbitante di righe o di pagine, di intuizioni geniali e ritratti da antologia, manuali impareggiabili di patologia urbana (e urbanistica) che talora possiamo trovare in qualche articoletto dei corsivisti più lucidi ma mai in una sequela quasi onnicomprensiva come in questo caso. Non ho più tempo per stabilirne le (mie personali) gerarchie né spazio per trascriverne qualche brano.

E’ infine evidente che, essendo a mia volta un pensionato ex dirigente pubblico (mi manca tuttavia il coté “Ministeriale”…) mi sono alquanto immedesimato in questo testo, nell’osservatore/analizzatore ma anche nei miseri omini oggetto dell’osservazione/analisi anche se, più che nella frequentazione del Bar Porcacci o simili, dalle mie parti la categoria è nota e celebrata per la contemplazione degli scavi stradali.
Profile Image for Laura Gotti.
587 reviews611 followers
Read
July 15, 2019
Questa volta non mi faccio ingabbiare nel giochino delle stellette, perché per me questo libro non può essere riassunto in un unico voto. Ho faticato a partire, l'ho fatto perché ero in vacanza, avevo tempo e potevo dedicargli attenzione per lunghissime pagine. L'avessi letto a casa, magari 30 o 40 pagine alla volta l'avrei mollato. Il tutto per dire che, per esempio, ho accusato tantissimo le prime 70 pagine, non entravo nel libro, tutta la vicenda storica mi annoiava tantissimo eppure ero catturata dalla scrittura.

Sapevo poco di questo libro se non per averlo inserito a pieno titolo nella classifica di qualità, ora tanto in voga, e nulla dell'autore. Pensavo fosse il solite giovane autore, giovane all'italiana cioè un cinquantenne. Poi sono andata su google e mi sono trovata davanti un austero signore poco più giovane di mio padre. La lettura è continuata catturata dalla sua prosa complessa e affascinante, dalla sua riflessione sulla vecchiaia, il sesso, il bar, le tute da ginnastica, i negozi che si affacciano sullo stradone. Insomma sulla vita in quel pezzo di mondo lì.

Davvero un gran libro, a tratti grandissimo, con una periodare lungo, più pagine a volte, e un uso accorto e mai a caso del romanesco. Un libro in cui non c'è una parola o un aggettivo di troppo, curato, attento, per niente piacione, difficile anche. Si poteva accorciare? Non credo, perché si sarebbe perso lo spirito di questo libro e di questo autore. Comunque un libro non per tutti, ti deve piacere davvero la letteratura.

Questo, per me, è un libro da inverno. Da vino rosso e da camino accesso. Implica riflessioni che durano a lungo e che non se ne vanno. È un libro che richiede tempo e testa, come gli uomini migliori. e ce ne sono pochi così, di libri e di uomini.
Profile Image for Frabe.
1,196 reviews56 followers
May 28, 2019
Ma in che cosa sperate, alla fin fine? Che la terra rinasca a primavera? Che il mare e i fiumi ridiventino pescosi? Che cada ancora della manna dal cielo per degli imbecilli come voi?
È qui, in questa frase in esergo da Finale di partita di Beckett, la visione dell'autore, pessimistica più che mai (come peraltro era già era chiaro da La vita in tempo di pace). Ora, va detto subito che è un signore anziano, Francesco Pecoraro, molto consapevole del fatto che il suo futuro è breve, la fine vicina, eppure pesa questo suo veder così nero, e pesa tanto al lettore che lo ama. Perché, va pure detto subito, Pecoraro è uno scrittore amabile, bravissimo, è uno che – come qui – può parlare della periferia poco attraente di una metropoli per centinaia di pagine meravigliando in ognuna di esse per la qualità della scrittura, componendo poco per volta un grandioso quadro d'insieme, sempre coinvolgendo fortemente il lettore, nonostante il pessimismo: così lo Stradone, il piccolo mondo del narratore fatto di un passato che fu vivo, delle sue tracce, e di un presente che si trascina stanco, senza un futuro degno di tal nome che si possa intravedere, lo Stradone è pure il mondo del lettore per un po': lì, pure lui, avanti e indietro, tra la casa popolare e il bar Porcacci, come il narratore, sperando di fargli un po' di compagnia, a Pecoraro, di smuoverlo, portarlo fuori dallo Stradone ogni tanto, in gita, al mare.
Profile Image for Marcello S.
647 reviews291 followers
August 17, 2023
Romanzo ibrido con ampi frangenti da saggio storico/sociale ed elementi di teoria urbanistica novecentesca. È il racconto di una irreversibile decadenza estetica e morale; di un protagonista in costante dissenso col presente, in osservazione ostinata dalla sua postazione relativamente privilegiata al piano alto di una palazzina che affaccia sullo Stradone (immagino sia il tratto iniziale della Aurelia, non lontano da San Pietro). Calca abbastanza la mano sul senso di disagio, fallimento e personale catastrofe culturale; sulla desertificazione politica, le palazzine ex IACP, le lotte tra Lavoro e Capitale, il Partito. Per come osserva il contemporaneo non è troppo lontano da certe cose di Houellebecq (depressione, pornografia, crollo della società occidentale), pur ragionando da prospettive probabilmente opposte. In più fa anche sorridere. Scrittura ottima, con un discreto uso della ripetizione, un proliferare di parole composte e continui spostamenti di focus dal particolare al generale.
In breve: uno dei migliori libri italiani letti recentemente. Il libro di cui si dovrebbe parlare al bar, davanti a una Peroni da 66. Non lesina coi bestemmioni.

[83/100]

∞ È indispensabile avere un’idea del presente?
∞ Forse questo tratto di Stradone è solo l’allestimento scenico di un reality a bassa intensità, forse la stessa città è solo un esperimento scientifico per testare cosa succede quando non crediamo più a niente e non ci importa di niente.
∞ Non leggo libri magari fondamentali e però con brutta copertina, grafica di merda e soprattutto pagine stampate male, cioè con inchiostro sbiadito. Non capisco come case editrici rinomate possano sfornare prodotti graficamente e tipograficamente così scadenti.
∞ Com’è il morire? Cosa provi quando ti fucilano? Com’è sentire una pallottola entrarti nel costato, fracassare le costole, forare il tuo polmone, recidere un’arteria? Morire è perdere il respiro? Com’è perdere il respiro?
∞ Ma allora, nel mio vivere questo tempo in questi luoghi, quand’è che sto meglio o addirittura bene? Quand’è che mi rilasso e mi rassereno e ritrovo, non dico il mio centro, ma una certa saldezza e solidità che direi interiore se mi conoscessi dall’interno?
∞ Si sa che tutti i cultori e gli osservatori più appassionati del porno vanno a caccia di eccezioni, cioè di momenti speciali in cui, anche solo per un attimo, si vede balenare la verità di un godimento autentico. Un momento di tenerezza vera in una ragazza che sta succhiando un cazzo da un quarto d’ora può essere impagabile.
∞ A un certo punto devi dire chi sei, o almeno provarci.
∞ Restare in salute significa ritardare il più possibile il momento di smettere di pesare sul Paese.
∞ La nostalgia, se coltivata condivisa o peggio esibita in pubblico, è il più osceno dei sentimenti.
∞ Il come stai, un tempo convenzionale, con l’avanzare dell’età sta diventando una domanda vera, cui qualcuno risponde seriamente, vale a dire raccontando davvero come sta.
∞ Penso alla granularità dello spazio-tempo ogni volta che considero seriamente l’idea del suicidio. Per me il suicidio non può essere una cosa meditata a lungo, ma eseguita d’impulso. E l’impulso suicidario qui non può che risolversi in un tuffo nel vuoto.
Profile Image for Jacques le fataliste et son maître.
372 reviews57 followers
May 26, 2019
Pecoraro parla di società e di individui come se si trattasse di un paesaggio in mutamento.
Parla degli elementi che divorano le montagne e ti fa sentire la stanchezza della pioggia e del vento, la sofferenza della montagna (e siamo noi pioggia, vento, montagna); parla del mondo che si fa attraverso sedimentazioni e corrugamenti e metamorfosi fatali, e ti fa sentire quanto siano faticose e scomode le conformazioni in cui alla fine il mondo riposa (e siamo noi sedimenti e strati ecc.); parla delle tensioni, degli scoppi, delle estrusioni, fatali anch’esse e fatale la loro ininfluenza su un processo che è essenzialmente di sgretolamento, di discesa dal meglio al peggio, e ti fa sentire rancori ed esasperazione che stanno dietro quelle tensioni (che sono le nostre tensioni).

«Ieri sera il solito annuncio del caos terminale prossimo venturo. Stracci caoticamente gettati e ammassati addosso ai cassonetti sotto casa, assieme a sacchetti di ordinario pattume e oggetti, anzi frammenti di oggetti, non-identificabili. Una vista quasi intollerabile. Quelle camicie, quei pantaloni furono un tempo costruiti esposti in vetrina poi scelti secondo le misure disponibili comprati indossati rimirati allo specchio forse con moderata soddisfazione lavati asciugati stirati riposti in cassetti, in armadi, assieme a tavolette di canfora, palline di naftalina, poi indossati e ancora indossati, giorno dopo giorno, oppure ignorati e mai messi, finché o il/la titolare è morto/a oppure sono diventati stretti, oppure macchiati o troppo sdruciti. A quel punto, gettati via, si sono avviati sul breve cammino che riconduce al ri-assorbimento nell’amalgama del caos. Gli abiti, appena gettati via, si trasformano istantaneamente in stracci e, se non rimescolati, ritornano nel lento rimescolio delle cose putrefatte che chiamiamo natura e che ci circonda ci assedia ci osserva in attesa del cedimento fisico finale che ci ri-immetterà nel ciclo del carbonio. Il naturale è lì che aspetta noi e ciò che ci circonda, in quanto ordine da noi provvisoriamente imposto al caos: vuole riprendersi tutto.
Tazze brocche vasi tazzine occhiali forcine di tartaruga anelli robe di vetro, tutto ciò che col tempo si fa corredo, minuto e non del tutto utile, delle nostre vite e che costituisce materiale per le viscere delle nostre case, prima o poi si rovescia all’esterno, in mani estranee e in vendita. Talvolta ricomprato. Molto più spesso no, lasciato a deperire sui banchi dei mercatini periferici, domenica dopo domenica, oggettini brutti, senza valore, scatoline, statuette, lampade, frammenti. Tagliacarte. Tutto finito. Concluso. I mercati dell’usato mi commuovono, sono una cosa funebre, di lutto, di abbandono. Oggetti appartenuti ad altre vite, cose magari molto amate, tramandate, conservate con cura, oggetti con un significato che improvvisamente perdono mentre sono ributtati sui banchi di questi mercati a centinaia, a migliaia, a centinaia di migliaia. Persi come si sono perse le esistenze di cui fecero parte, una massa compatta di cose intime messe a nudo, mescolate al ciarpame altrui.»
September 8, 2019
“Pensare comunista mi da piacere”

L’ho comprato perché avevo già letto “La vita in tempo di pace”, vita che ho vissuto: me ne sarei guardata bene se avessi letto prima le recensioni (di cui vi porterò ampi stralci) di esimi critici austeri, tutti nati negli anni settanta, quindi cresciuti intellettualmente negli ottanta & seg ( e che nulla possono capire di questo flusso di pensieri quasi cronologico, dalla preistoria a tutte le tappe storiche della Valle dell’Inferno, di un settantino che vive sullo Stradone della città di Dio). Critici scriventi in prestigiose riviste in cui si sbizzarriscono in lenzuolate, specie sulle novità degli italioti autori, difficilmente decriptabili, soprattutto rispetto agli stessi autori che si pregiano di onorare: a loro confronto questi scrivono roba abbordabilissima stile “La vispa Teresa”.
È certo che gli autori gradiscano queste anche osannanti critiche, un confabulare snobisticamente tra loro esimi con la logica conseguenza del darsela a gambe del lettore medio, quello che mediamente legge una decina di libri all’anno, di media cultura e di media intelligenza, appartenente a quello che Pecoraro chiama “Ceto medio esteso”?
Dubito che lo scrittore scriva per sé stesso, come don Alessandro Manzoni ci insegna. Come sono sicura che, inconsciamente gramsciani diffidando /confidando nel lettore medio, gli autori più talentuosi sfidano i loro venticinque fans servendogli piatti nuovi di forma e sostanza, non con la puzza sotto il naso ma per vera necessità e pulsione civile alla cultura per tutti.
Non credo nemmeno che l’autore rifugga dalla corrispondenza di amorosi sensi col detto lettore, pur non gradendone l’identificazione foriera di svarioni di senso: è bene mantenere una decorosa distanza tra i due sé: dell’emissario e del ricevente.
Detto questo (peroratio?) sono abbastanza convinta che a Francesco Pecoraro non saranno sgraditi l’entusiasmo, la vicinanza e solidarietà con il narratore, il signor Nessuno, scelta non casuale del “non nome”: esserci o esserci stati, non è avere un nome se non all’anagrafe o per imbastire le storielle della Storia: docet Odisseo il cui non essere è nel nome, cosa che non gli impedì di condizionare il suo e altrui destino, come è e è stato per miliardi e miliardi di “furono viventi”.

Come il Nessuno di Pecoraro, tutti i Nessuno hanno uno Stradone di cui narrano leggende o stirano all’inverosimile il senso di un pezzo di carta ingiallito che giace in un archivio non frequentato: certo non tutti i Nessuno possono vantare una passeggiata di Lenin in “pirsona” sul loro stradone italico.
Al massimo Garibaldi -neanche lui da poco- l’eroe dormiente, stando alle targhe che ne attestano il salutare sonno. Tutti i nessuno degli infiniti Stradoni Italici sono incagliati(o) in questo secolo di passaggio…strano difficile mortificante.

Alte sono le probabilità che sugli Stradoni italici possano rinvenirsi ectoplasmi “sessantottardi” ora pensionati settantini ” a fare un cazzo”, non più con l’eskimo ma con “il multitasche” e gli “snickers” para calli, duroni e alluci valghi. Tutti a vegetare nel “Ristagno”. Tutti facenti parte dell’indistinto ” Ripieno sociale” in cui si sono trasformate la classe media in discesa e la proletaria, pochissimi fortunati, in salita.

Di questi Nessuno, un buon numero frequentano il bar del quartiere ”privo di qualità…che acquista una fatale attrattiva dalla non qualità urbana circostante”: parlano di salute o meglio di malattie, dei settemila passi prima del “cappuccino macchiato freddo”, del fitness e del pilates, prendono le misure del culo, ormai miraggio, delle ragazze tatuate che gli passano sotto gli occhi.

Un piccolo drappello dei Nessuno è ancora comunista interiore ma si guarda bene dal parlarne perché “ quando incontri uno come te, uno perplesso e comunista interiore e magari quello si mette a dirti e a sproloquiare cose che tu stesso pensi, ecco in quel momento provi un senso di sputtanamento della tua stessa condizione, del tuo stesso smarrimento, della tua stessa confusione e allora il tizio in cui ti specchi ti dà fastidio, ti rompe il cazzo e vorresti che la smettesse di parlare da vecchio comunista, quale tu stesso potresti essere, cioè da quel residuato che è e che tu stesso sei. Nessun senso di colpa di essere diventati squaletti socialisti quando il segretario prometteva a tutti almeno uno Stradone “Da bere”: erano i tempi. ”… Soprattutto con determinazione, era importante manifestare estraneità a ogni severa e noiosa etica, comunista o cattolica che fosse, con relativa austerità, da cui si erano finalmente liberati. L’ontogenesi sunto della filogenesi, non è acqua: sei uomo fin dalla morula e non puoi sfuggire alla “merda” alla vecchiaia e alla morte e ti devi difendere.
Ma vergogna de che? Vergogna perché? Neanche di provare SPAD (Soddisfatta Pietà per Altrui Disgrazia) davanti alla disgrazia altrui.

Una cinquina dei Nessuno è titolare di una pensione che le generazioni senza paracadute gliela strapperebbero assieme al cuore: la spende in libri ” …stupidamente. Perché non posso leggerli tutti e nemmeno ci provo. A volte nemmeno li apro…non posso farci niente se amo il libro in quanto oggetto…”.

Ma solo io , sullo Stradone dove sono nata e cresciuta e di cui ho visto il mutare dell’architettura e degli abitanti, posseggo Homo Ludens di Huizinga, libro da Pecoraro molto desiderato e non letto anche quando in un raptus lo rubò. Lui lo perse nei traslochi. Io, giuro, da quando l’ho ritrovato abbandonato sugli scaffali, ce l’ho a destra del monitor ripromettendomi di leggere almeno la prefazione di Eco.

Soprattutto, su questo Stradone solo io !, ne sono sicura, ho la fissa di Zenone come Pecoraro.

Devo confessarlo: passi lo Stradone straripante di storia e di disincanto, passi l’essere comunista interiore e l’essere settantina settantottarda, e pure il possedere o l’avere posseduto “Homo Ludens”, tutte coincidenze non improbabili qua in Italia che gronda di Storia e avanspettacolo. Ma Zenone non è un caso o coincidenza: Pecoraro sono io.
Nonostante, o proprio perché, uno dei critici sunnominati raccomandi di “ … leggerlo come invito a un’ecologia della finzione, da adottare come produttori o come consumatori, per evitare di rinchiuderci nelle bolle isolanti e stoltificanti delle “nostre” storie.” Mi facci il piacere.

Due parole sulla forma, tanto intrigante per chi ha scordato che si sono strutturati e si vanno strutturando registri linguistici per ogni ambito di comunicazione: è romanzo, non romanzo, saggio?
Mi sembra chiaro sia un romanzo "biografico": c'è la storia di Nessuno intrecciata con la storia di Tutti: del passato, da cui ha surto le sue ideologie più o meno immerse, e del presente con cui condivide modi e vezzi di cui non comprende bene "i dati, le cause e i pretesti"ma con cui è intrecciato. E su tutto l'inesorabile attesa della morte. Che si vuole di più?
Insisto sulla scelta del non nome del protagonista: il signor Nessuno potremmo essere tutti noi settantini, sessantottardi occidentali, da Berkley ( da poco ci ha lasciati Peter Fonda) a Canicattì come Nessuno/Odisseo continua a essere uno di noi.

[Un assaggio delle critiche: a voi scoprire il chi e dove:
- Eppure è proprio grazie a un’azione «parallattica», per dirla con Žižek, che nello Stradone Pecoraro, lui ostinato «costrutto della metà del Ventesimo Secolo», against all odds dimostra che «l’interpretazione, nella sua odierna rarità post-ideologica, resta pur sempre un atto prezioso e singolare»: quello che almeno dal punto di vista soggettivo, etico (l’«ultimo dignitoso sforzo di consapevolezza cui siamo tenuti di fronte a noi stessi»), ci può consentire di essere sì «travolti, ma ad occhi bene aperti».

- Gli umori irriconciliati che urticavano l’epidermide a nudo, ai tempi del precipitato da blog di Questa e altre preistorie (fuoriformato Le Lettere 2008), da tempo si sono sedimentati in costrutti formidabilmente riconoscibili: che, proprio per la loro difformità dal piattume della letteratura circostante – come l’ha definita Gianluigi Simonetti – nonostante tutto se ne ergono, col misterioso residuo fossile di un metabolismo che dovrebbe essere stato da tempo messo a tacere, e ne rappresentano un contro-esempio tacitamente annichilente…

- Il punto fondamentale è che nel libro le due declinazioni di fiction, la fiction-jeans falso strappato e la fiction-Lenin, diciamo, non stanno in rapporto di opposizione frontale né di meccanica alternanza. Opera che contiene pagine di microstoria e di pura riflessione, il libro deve la propria forza alla capacità di osservare, mimare e decostruire il presente collocandolo in una pluralità di tempi: la cronaca, la storia politico-sociale degli ultimi due secoli, la storia di lunga durata e il tempo lunghissimo dell’evoluzione della specie.

- Lo stradone è scritto bene, ma non è «ben scritto», per tornare alla formula di Mozzi: nel senso cioè che non si piega alla solita lingua trasparente, senza identità letteraria e senza attriti. Pecoraro non perde mai il contatto con «lo stagno eterno greve arguto della lingua»; sa alternare i linguaggi settoriali con lo stile orale, nel discorso diretto e nell’indiretto libero].
Profile Image for pierlapo quimby.
501 reviews28 followers
May 6, 2019
Resoconto dallo Sfacelo, urbano, peninsulare, occidentale, in scala diacronica, con sguardo che passa dal micro al macro, slitta di lato sul potenziale, abbraccia tempi diversi, si fa racconto di vita e parabola ideologica senza concessioni o quasi alla narrazione pura, magnifico lavoro sul linguaggio, contemporaneo e però radicatissimo nel novecento... mamma mia che romanzo!
Profile Image for marco renzi.
299 reviews100 followers
June 10, 2019

La mia recensione su Minima&Moralia:

http://www.minimaetmoralia.it/wp/lung...

«Appoggiarsi ad altre forme di scrittura è forse un modo che la letteratura ha trovato per sopravvivere? Oppure rivela la capacità di rinnovarsi e la versatilità della forma-romanzo, tuttora imprescindibile e ideale per descrivere, capire, rimasticare il mondo, la realtà e noi stessi, anche in mezzo alle miriadi di immagini e parole alle quali veniamo sottoposti ogni giorno?

Le opzioni potrebbero essere ambedue vere: è certo però che Pecoraro e il suo libro ci fanno comprendere quanto ancora oggi ci sia bisogno di letteratura. Ovvio: una letteratura che non faccia sentire il lettore una persona migliore: non accomodante, non a tesi o a tema. Una letteratura che dia schiaffi, alle volte anche dei calci in bocca ben assestati, facendo anche ridere. Già, perché Pecoraro fa ridere, quando ci si mette pure di gusto, sebbene quello suscitato sia riso amaro, doloroso, perso nel cemento dello stradone, nei palazzi ex IACP, nei supermercati aperti ventiquattrore al giorno, nello specchio di una disillusione e di un immobilismo che è anche quello che stiamo vivendo».
Profile Image for Samuele Petrangeli.
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June 25, 2019
Molta della roba che si scrive in Italia in questi ultimi anni vede, più o meno al centro, un'Apocalisse dilazionata. Quasi mai concentrandosi sul durante di questa Apocalisse, il racconto si svolge o appena dopo o appena prima, ma in un modo in cui il pre-Apocalisse e il post-Apocalisse sembrano sorprendentemente a coincidere. Il crollo è, infatti, dilazionato, dilungato così tanto, da non essere netto o anche soltanto catartico. E' come un infinito rantolare. Ecco, la Crisi tutta italiana è caratterizzata soprattutto da questo aspetto silenzioso, ma devastante. Forse il termine Apocalisse è errato perché, pur adatto a indicare la portata distruttrice, fa intuire, erroneamente, una qualche grandezza epica dietro. Ma non c'è nulla di epico, tutt'altro. E' una crisi tanto quotidiana quanto degradante. E' come un corpo che marcisce. Tipo, per capirci, l'aspetto estetico di questo collasso è esemplificato alla perfezione dallo scenario di Dogman, il film di Garrone. Questa provincia post-industriale, grigia, semi-abbandonata e semi-imbarbarita. I semi- sono importanti: nel collasso manca anche una spinta vera e propria a collassare definitivamente: il pre e il post-apocalisse, come si diceva, si somigliano sorprendentemente. I racconti della Crisi ormai si stanno accumulando e si stanno differenziando, simbolo che ormai la Crisi, il Collasso è l'orizzonte in cui inserire qualsiasi racconto. Che è impossibile immaginare una storia ambientata nel mondo d'oggi senza che vi sia la Crisi a fargli da sfondo. C'è la storia d'amore ("XXI secolo"), il racconto di formazione ("Cometa"), il racconto religioso ("Il vizio della speranza"), il racconto intimista ("La festa nera") e così via. "Lo stradone" di Francesco Pecoraro, allora, va a dare compiutezza e quasi una forma programmatica a questa situazione.
Più che un romanzo, "Lo stradone" è uno zibaldone di pensieri, ripetizioni, derive, di un uomo, settantenne, che riflette su più o meno tutto, affacciato dalla sua finestra sopra la via Appia di Roma - lo stradone, appunto. Il narratore, alter-ego di Storaro, si descrive come un "vecchio stanco impotente cinico borioso pre-giudcante glicemico intransigente flogistico depresso ialuronico asfittico nostalgico prostatico misantropo irritabile gastrico iperteso intasato antalgico biliare ursodesossicolico supponente linfatico neuropatico cirillico benzodiazepinico renale bisbetico letargico pre-venuto presbite ateo che-sa-tutto-lui". E' un uomo che incarna profondamente il suo tempo, e le sue contraddizioni. Peccato, però, che il suo tempo è il Novecento. Consapevole di quanto ormai il Novecento sia finito - piuttosto tragicamente per chi come lui era comunista - tutte le sue riflessioni sono caratterizzate da un profondo senso di sconfitta e rassegnazione. Sa che ormai il suo tempo è finito e che, fondamentalmente, manco nel suo tempo è stato in grado di fare qualcosa veramente. E' fuori tempo massimo e lo è sempre stato. "Lo stradone", sotto questo punto di vista, è un romanzo profondamente novecentesco, nel senso più letterale del termine: è il romanzo del novecento stesso che fa i conti con questi primi anni Venti. Il narratore, allora, impersona su di se l'intero percorso ideologico degli intellettuali novecenteschi: prima comunista, poi socialista (senza crederci veramente), mezzo affossato da Mani Pulite, per poi vivere e essere in un mondo post-ideologico. Dove l'unica appartenenza sentita è quella per la Squadra. La voce che per quattrocento e passa pagine ci riversa addosso tutta la sua disillusione, infelicità e depressione è una voce carica di astio e rancore perché consapevole che ormai sta per morire. E' la voce di chi odia i giovani perché sa che i giovani manco lo vedono, o se lo vedono lo ignorano, o se non lo ignorano provano disgusto: "non abbiamo la minima idea di come potremmo abbattervi e nemmeno di ciò che metteremmo al vostro posto, ma possiamo sfregiare tutte le cose che lasciate incustodite, gli oggetti dimessi usuali che fanno il decoro del vostro paesaggio, per ridurli al nostro, di paesaggio, cioè al post-atomico che sogniamo, al mondo visivamente svelato nella sua infamità respingente, riportato all'immagine del caos contro cui, qui come altrove, inutilmente lottate".
La Roma atomizzata, dove le ideologie comuniste, o qualsiasi ideologia per quello che vale, sono perse nel passato, scomparse insieme ai forni Hoffman ("Lo stradone" è anche una ricostruzione del passato manifatturiero di un quartiere romano e di come le masse di operai abbiano perso ogni appartenenza o lotta perché mutato indelebilmente il paesaggio e l'architettura: in questo "Lo stradone" è un romanzo architettonico prima di tutto), questa Roma, comunque dicevo, e lo stradone in particolare diventano il micro-cosmo da studiare per mostrare la Penisola intera. Il micro che si riflette nel macro, come il telescopio Hubble che attraverso i suoi fermi immagine di una porzione di universo ci ridà tutta la sua storia. E la Crisi di cui si diceva prima, in un linguaggio profondamente marxista, fra ceto medio esteso e roboti, viene definita come il Ristagno - che rende tra l'altro molto bene quest'idea di un crollo che si prolunga così tanto nel tempo da non essere quasi più percepibile come un crollo da chi lo sta vivendo: "Ecco, allora penso che quel caffè costa ancora ottanta centesimi e sono anni che il prezzo non varia, come non varia la qualità assolutamente standard dei cornetti (Oggi me n'hanno portati de meno), come non variano i brani trasmessi perché destinati a persone in età, cui non piacciono i cambiamenti (i pezzi nuovi sono diversi ma uguali), perché ormai l'estetica musicale cui sono sensibili è quella e non cambierà. Ecco, questo è l'attimo di massima agnizione del Ristagno che da qui, cioè dalla mia postazione a fianco del frigo del latte che fiata aria calda, si estende a tutto il mondo visibile". Nemmeno la dignità di una Vera Apocalisse, con la sua catarsi e la sua distruzione, ci è concessa. E' su questo punto che, secondo me, verte la narrazione italiana contemporanea.
Forse, la frase, decontestualizzata, che rende perfettamente ciò che stiamo vivendo ora è di Gramsci: "La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati". Che è più o meno il centro del libro di Pecoraro: il Novecento è morto, ma non è venuto nulla dopo di esso. Questa dilatazione diventa una dilatazione quasi ontologica nell'ultimo capitolo dello Stradone, quando la distanza diventa infinitamente divisibile, o meglio, divisibile così tante volte, in così tanti micro-segmenti che per precipitare veramente, per collassare veramente, ci vorrebbero miliardi di anni. Il Ristagno, appunto. "E' il vivere nel post-tutto, quando tutto quello che era, tutto quello che pensavi dovesse essere non è più, o non è mai stato o non sarà mai e la materia di cui sei fatto è obsoleta, è ruggine che si sbriciola rapida, è moneta fuori corso. Vivere nel post-Novecento, starsene sulla soglia, nella terra di nessuno di un secolo nuovo che sa di vecchio, che non comincia ancora e qualora l'avesse fatto tu non te ne sei accorto, oppure è successo altrove, lontano da qui, oltre il tuo orizzonte, oltre l'orizzonte dei tuoi simili, fuori portata da quelli che credi siano i tuoi nemici".
E il massimo che si può avere, che si può costruire, è un centro commerciale. Ma con le scale mobili messe a cazzo.
Profile Image for Elena.
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December 1, 2025
Desde la ventana de una séptima planta, un narrador sin nombre radiografía la llamada Ciudad de Dios, una Roma periférica y escacharrada, habitada por el “Gran Relleno” de clase media-baja que sostiene (y padece) la modernidad europea. Mezcla de crónica urbana, memoria de clase y reflexión ensayística, "La avenida" se sitúa entre el presente desencantado y el recuerdo obrero del barrio. De Roma al agotamiento europeo. Sus más de quinientas páginas de digresiones, flashbacks y comentarios se pueden hacer en algún momento largas y repetitivas, casi a juego con el propio cansancio del narrador. Pero incluso ahí reside parte de su fuerza: el libro se lee como una gran caminata por una ciudad de la queremos marcharnos y, al mismo tiempo, nos sigue fascinando. Una novela total y exigente pero totalmente disfrutable.
Profile Image for Gianni.
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May 12, 2019
Impietoso, uno sguardo disincantato tra il passato, forse l'unico dotato di senso, e il vuoto pneumatico del presente, senza futuro, in una Roma periferica che potrebbe essere benissimo una delle qualsiasi megalopoli che si assomigliano. Vite consumate in quasi perfetta solitudine.
Quasi un "post-esotismo" a la Volodine.
Lo apprezzeranno sicuramente i lettori nati tra gli anni '50 e '60.
Profile Image for Gauss74.
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December 6, 2020
Mi sono avvicinato a Francesco Pecoraro leggendo le sinossi dei romanzi finalisti del premio Campiello 2019 (che devo dire mi piacevano tutti e 5, al contrario di quest'anno nel quale sono ad un desolante zero), e questo nonostante la ridicola fascia di copertina dell' editore Ponte alle Grazie: sembra quasi che paradossalmente gli editori scrivano le fascette per scoraggiare i lettori, anzichè invogliarli. Di cosa sembrava parlare questo libro? Di un uomo invecchiato ed arenato ai margini del mondo, di un lettore forte che contempla ciò che lo circonda dalla finestra del palazzo al settimo piano oltre che dalle pagine di tutti i suoi libri, delle periferie delle grandi città del ventunesimo secolo.

E' una fotografia che comincia a riguardarmi da vicino, adesso che ogni tanto mi sorprendo affaticato dal troppo lavoro, ma anche dalla sempre imprevista noia del troppo tempo libero quando sto a casa per più di qualche giorno; la vita che conduco in quei casi non è poi diversissima da quella del pensionato statale che è insieme protagonista e narratore del libro, dopo tutto.

Ne è valsa la pena, anche se la focalizzazione è leggermente spostata rispetto a quello che mi aspettavo. Come dice giustamente Helena Janeczek, questo libro è la cronaca del deteriorarsi di un mondo che si ama, da parte di un vecchio rifugiatosi nelle periferie romane. E' la storia dell'ascesa e del declino di Roma e dell' Italia raccontata al bar e con le chiacchiere da bar, nel tentativo di riempire le troppe ore diventate libere con la pensione. Più che un romanzo con una linea narrativa ben definita, è quindi uno zibaldone di pensieri messi in fila con una linea non sempre retta, che hanno il pregio di entrare in risonanza con ragionamenti banali e stupidi che la gran parte di noi ha fatto almeno una volta, magari con davanti la pagina della gazzetta dello sport o sfogliando un rotocalco mentre si aspetta il proprio turno dal parrucchiere.

Balza agli occhi fin da subito, e permane durante tutto il libro, il feroce cinismo autogiustificatorio, il perpetuo chiagneffotti del cittadino medio dell' Italia di questi anni. Chi parla è un pensionato statale che si vanta di vivere a scrocco della società dopo una vita passata a grattarsi i cabbasisi in ufficio alle spalle di chi si spezza la schiena nelle aziende private, di un pesce piccolo che ha lottato per avere la sua fetta di torta ai tempi di tangentopoli e che poi si è giustificato perchè tanto così fan tutti e gli onesti sono coglioni.

Ma magari tanto bieco cinismo è solo figlio dell'età matura e dei tempi? Andiamo a vederlo a vent'anni, a trent'anni questo ambiguo personaggio. Studente universitario di belle speranze, non riesce ad ottenere il massimo dei voti, non riesce ad ottenere il tanto agognato posto fisso (alla faccia dell'ambizione dei giovani che vogliono aggredire il mondo, quanti dei nostri ventenni sono statali nell'anima?) ovviamente mai per colpa sua. E' sempre il professore che è corrotto, è sempre il destino che è cinico e baro. Al protagonista non viene mai in mente (a chi legge di continuo) che questo ceto medio arenatosi nel grigio nulla come una balena spiaggiata che pesa sulle generazioni successive, è molto più risultato della mancanza di talento, di passione, della voglia di combattere (vorrei dire voglia di lavorare saltami addosso, ma mi trattengo) che non di chissà quale necessità storica o divenire dialettico.

Forse tanta flaccida pigrizia è figlia dei tempi? Torniamo ancora indietro, agli anni settanta, agli anni sessanta, prima della guerra mondiale: quando le idee per cui lottare c'erano eccome, quando le passioni erano ardenti, quando si guardava al futuro se non con fiducia, almeno con voglia di combattere. Sono gli anni della crescita tumultuosa delle città, del lavoro massacrante nelle fornaci, delle rivendicazioni operaie. E si respira veramente tutta un'altra aria, specialmente nell'episodio della visita di un giovane Lenin alle periferie romane. Ma già nel dialogo tra il rivoluzionario russo ed i lavoratori emerge una bassezza, una mancanza di spirito che non può che condurre a ciò che vediamo oggi.

All' intorno, la città di Roma. Mai nominata direttamente, ma sempre per perifrasi. La città delle migliaia di dipendenti statali che si lamentano perchè nessuno li valorizza ma che poi si vantano di vivere a scrocco dei ceti produttivi; la città dei corrotti espulsi e messi al margine per essere sostituiti da corrotti nuovi, ancora peggiori; la città la cui panciuta pigrizia ammantata di una bellezza quasi scandalosa ha fatto nascere la Lega Nord (dalla classica padella alla classica brace). La città degli immigrati, i veri nuovi proletari del terzo millennio. Parlando di questa gente che tutti conosciamo, gli albanesi o i romeni che fanno i manovali, i cingalesi che vivono 24 ore al giorno nei loro negozietti di alimentari, la scrittura di Pecoraro si ammanta di una profonda umanità. Perchè qui non c'è cinismo ma solo umiltà, la voglia di andare comunque avanti, magari con un filo di speranza di stare meglio.

E' una Roma che è esempio e perifrasi di tutte le grandi città di oggi, raccontata nella parte che nessuno racconta mai. Quella delle periferie brutte nate negli anni 60 e 70 che circondano i centri storici, che servivano a mettere un tetto sulla testa agli operai delle nuove fabbriche e che ora con la crisi non servono più. Le periferie dell'archeologia industriale, dei capannoni abbandonati pieni di erbacce, di chilometri quadrati di palazzine a dieci piani brutte e scrostate, di bar puzzolenti pieni di pensionati e di frustrazione che cercano qualcuno a cui dare la colpa (di solito sono i politici, i negri, i giovani d'oggi ahquandoceralui). Sono quei quartieri dove quarant'anni fa i quadri giovanili del PCI e dei sindacati andavano a sobillare le masse per fare la rivoluzione, e che ora invece ricevono i pacchi alimenti dai militanti di Casa Pound ahquandoceralui.

Lo stradone è la polvere sotto il tappeto, quello strato geografico ma anche sociale tra le città satellite extralusso ed i centri storici che nessuno vuole far vedere, è quel fallimento che per vincere la frustrazione si finge grasso e compiaciuto, è tutto ciò che ci piace del nostro stare insieme che crolla, marcisce e si deteriora. E' il lavoro culturale di una nazione che per secoli è stata faro dell' umanità che diventa chiacchiera da bar. Chi si salva? I cingalesi. Devo dire che non da oggi mi sono reso conto che immigrazione ed integrazione sono la nostra sola ancora di salvezza, però se integrarsi vuol dire diventare un ceto medio pigro, imbruttito e mantenuto, comincio a dubitare dell' integrazione.

Il tutto scritto in modo devo dire eccellente. La scrittura curatissima sia nel lessico che nella sintassi riesce a rendere riposante la lettura di un tomo di quattrocento e passa pagine su un argomento cupo, pesante e cinico come pochi.

Promosso Francesco Pecoraro, devo dire che per una volta la sbrodolante fascetta di copertina non è andata troppo lontano dal vero. Ma la prossima volta, vorrei che questa ambientazione, questi lucidi passaggi di pensiero, si incastonassero un unità di pensiero e di azione, in una sequenza narrativa; un una parola: in un romanzo.
Profile Image for Elalma.
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January 26, 2020
Mi piace moltissimo come scrive Pecoraro, quello stile così ironico, pungente, caustico, capace di calare il romanesco nell'italiano in maniera naturale e armoniosa. Oltre a essere un ritratto realista del ceto medio, dei pensionati (maschi...), della vita di quartiere, di "quel" quartiere e della sua storia, descrive la nostra epoca passata e recente, come nessun altro sa fare, secondo me. Peccato che anche qui, come nella Vita in Tempo di Pace , ci trovi tratti lievemente maschilisti. Insomma, un mondo maschile, ma è quello che conosce, ed è estremamente impietoso. Ma tanto godibile.

Profile Image for dv.
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June 6, 2019
Torna il Pecoraro di La vita in tempo di pace, sempre ossessionato dal tragitto calante del Novecento e dalla percezione della contemporanea decadenza sociale, morale e - spessissimo - fisica. I passaggi dedicati alla valle Aurelia sono molto belli e riempiono il libro soprattutto nella sua prima parte, mentre un io narratore degno di nota a poco a poco emerge nella seconda, anche se un po’ schiacciato dai "flash" in romanesco e dai frequenti elenchi vari, due espedienti narrativi che tengono insieme il libro e un po’ funzionano e un po’ no. Sicuramente l'Ivo Brandani de La vita in tempo di pace era un personaggio molto più incisivo e memorabile di questo narratore senza nome. A ogni modo, una visione spietata, critica e a tratti pungentemente ironica del presente (anzi, dell'immediato futuro degli anni 20 di questo nuovo millennio), in cui alcuni passaggi sono davvero folgoranti (vedi qui sotto).

«C'è stato un tempo in cui il corpo della società era attraversato da gagliarde fratture e tensioni tra le classi, oggi invece mi appare come un Grande Ripieno, in cui tutti si mescolano con tutti. Non è il reddito ad aggregarli, ma una comunanza culturale, che sussiste a prescindere da chi abbia più/meno soldi, da chi sfrutta chi: prolets residuali assieme a impiegati e commercianti e piccolo-borghesi generici, e questi con borghesi, anch'essi residuali, accorpati con partite iva & piccoli imprenditori, tutti insieme anestetizzati da una comune aspirazione alla sicurezza economica e fisica, da un vago e superficiale attenersi alle regole, da una verniciatura di pensiero civile, apparentemente corretto e televisivo, che nasconde la solita inestirpabile natura brutale e ferina che potentemente emerge sempre più spesso e sfacciatamente in circostanze in cui questa medietà sociale universale si sente minacciata nelle due principali sicurezze di cui sopra. Le tensioni di classe sono ormai quasi scomparse, le classi sono tornate allo stato di corporazioni, le ideologie politiche che promettevano una gamma di futuri possibili sono morte e al loro posto si è installato una specie ottuso presente, dimentico delle sfide drammatiche che ci aspettano e tutto ripiegato su consumo & social & fitness, un po' di reddito, un po' di porno, una pizza ogni tanto, er mutuo, i regazzini, il tatuaggio sul polpaccio, l'avambraccio».

(Francesco Pecoraro, Lo Stradone, p. 166)
Profile Image for Rachel.
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January 19, 2022
Roma como metáfora de nuestro tiempo, maravillosa novela
Profile Image for Giacomo.
365 reviews25 followers
October 9, 2019
ci ho messo un pochino a scrivere due righe su questo libro, l'ho lasciato respirare un pochino dentro, sedimentare e (forse) solo ora riesco a mettere assieme qualche pensiero.
Lo Stradone è un libro impietoso. Lo è per come ti si presenta (un lungo flusso di coscienza), per i temi di cui parla e per i personaggi che abitano il micromondo dello stradone (a partire dal protagonista.
Lo Stradone è anche un libro molto lucido. Mi ha raccontato nuovamente tutto quello che c'era da sapere sugli ultimi venti anni delle nostre vite italiane, sui peccati della piccolo borghesia, sugli sforzi per volersi elevare e per cercare in tutti i modi di NON essere quello che si è. Sul non accettarsi insomma.
Lo Stradone è un libro anche molto nostalgico. Sul mondo che c'era prima e sul comunismo. anche nei suoi lati più negativi traspare dall'autore una nostalgia per un senso di appartenenza a qualcosa che non c'è più, che si è sgretolato e che non è stato rimpiazzato se non dall'individualismo più sfrenato. lo sgretolamento non è stato solo del comunismo ovviamente ma della società in toto.
Lo Stradone è un libro su Roma. Ma è anche un libro sull'Italia. Diciamo che è un libro su entrambe. Ma è anche un libro sulla società (di Roma e dell'Italia). Del resto, lo dice lo stesso Pecoraro, "la città fisica è la conchiglia che la città sociale costruisce per se stessa". Le due cose (fisico e sociale) coesistono e vivono sullo stesso piano. Non si può raccontare una senza l'altro
Lo Stradone sarebbe quasi pronto per diventare un film. Anzi una serie. Il protagonista c'è già, è il Nanni Moretti di adesso, ripulito di tutto l'ottimismo.
Lo Stradone è una pillola avvelenata da prendere per potersi vedere un pochino meglio il presente e chi dice il contrario è in malafede. Uno dei libri più belli ed amari che ho letto ultimamente ed il libro più attuale da 6 anni a questa parte. Da far leggere, da rileggere e da studiare. Ne ho sottolineato molte parti*.
Sarei curioso di leggere tutti i libri premiati al Campiello ma devono essere veramente fenomenali per costringere questo a stare all'ultimo posto.

• la mia sottolineatura preferita? "la verità non era importante. Era importante solo stare bene/stare male"
118 reviews2 followers
April 21, 2022
Una frase: El Sistema me concede una pausa premuerte, no se sabe por cuánto tiempo, con una pensión calculada en los tiempos de la socialdemocracia, cuando aún no se había entendido que la esperanza de vida media se alargaría ni lo mucho que el capitalismo mundial, privado de los frenos opositores del pensamiento y de la praxis socialista, se deleitaría en una cadena de crisis, desplomes, recesiones, estancamientos económicos, deslocalizaciones y reestructuraciones, en detrimento por lo general de quien ya tenía muy poco o ningún dinero.
170 reviews
September 3, 2019
Un libro strano, un po' difficile da leggere, molto interessante a tratti, sopratutto la parte storica, molto lento e pesante in altri.

Non lo rileggerei
Profile Image for Guille.
1,006 reviews3,280 followers
December 21, 2025

Nos encontramos en un trascendental período de cambio, nuestro mundo occidental tal y como lo hemos conocido va desapareciendo a una velocidad que se acelera exponencialmente día a día. El capitalismo, libre ya del peligro comunista y de mecanismos reguladores, campa a sus anchas y se dirige a su estado de máxima expresión en el que toda la economía se queda en las manos de unos pocos sin que los gobiernos democráticos puedan servir de contrapeso ni de freno.

En este estado de inestabilidad y desprotección, que va más allá de la económica y que también afecta a los valores que han caracterizado a la Europa del último siglo, la sociedad, “desinteresada, desmotivada, amargada, empobrecida, enferma y encabronada” ondea las banderas del dogmatismo más casposo, la vuelta a ideas reaccionarias que, sin poner en peligro los objetivos de las elites, más bien facilitando su dominio, cuestionan los valores y derechos democráticos tradicionales. La necesidad de seguridad prevalece sobre la idea de libertad, una idea que para la población en general, entretenida con el fútbol y las redes sociales, se reduce a mera caricatura, mientras que para las élites implica la desaparición de todo límite a una desmesurada ambición que no entiende de víctimas.

Contra este estado de cosas, y cuyas alternativas —la Yihad, China o Rusia— son igualmente inaceptables, todo esfuerzo parece abocado al fracaso. Estamos justo donde esas élites nos quieren.
“... nos hemos despojado y deshecho de toda basura ideológica para acabar desnudos e indefensos, aunque también ligeros y despreocupados como niños...Que venga la crisis ambiental planetaria, el calentamiento global... el derrumbe de la economía mundial, la Tercera Guerra Mundial... ¿Qué todo se ha derrumbado? Pues vale, a tomar por culo, me importa una mierda. Haced del mundo lo que os dé la gana”

Un individuo sin nombre, miembro del partido comunista reciclado en socialista, historiador en bellas artes reciclado en funcionario, idealista reciclado en corrupto, joven esperanzado reciclado en viejo desilusionado, trabajador marginado reciclado en jubilado con buena pensión, militante comprometido reciclado en observador pasivo, nos relata el pasado de una avenida en la Ciudad de Dios que, construida en torno a los antiguos hornos Hoffmann que fueron levantados para la fabricación de ladrillos, en el presente resume la profunda metamorfosis acaecida en este cambio de siglo en el que hemos terminado por no creer nada y por darnos todo igual.
“¿Qué debemos hacer ahora con nuestro ser comunista, mejor dicho, con nuestro sentir comunista, es decir, con ese estado interior de continuo desacuerdo con el presente, de negación estupefacta, de borborigmo desesperado y contrario, que se opone de manera inútil a lo que tú concibes como resto-del-mundo, cuando nuestra única obligación es ir al supermercado, pasear, ver la televisión, sacar al microperro y recoger su mierda en una bolsa de plástico?”

Este individuo asiste entre resignado y enojado al “postodo”, a la desaparición de la ciudad en la que vivió, a la devenida inutilidad de sus ideales políticos, al deterioro de su cuerpo, a una imprecisa posición personal en un mundo que ya no comprende y en el que ya no hay sitio para él (“…somos lo que ha sido, al igual que ellos son lo que es. Y lo que es no lo llegamos a entender”).
“Es la estabilización, la muerte de las aspiraciones al cambio y el advenimiento de la satisfacción de ser como se es, reconfortados por el consumismo mediático, por el fin de la utopía y por la instauración de una política del presente, que no es más que una tecnocracia torpe y ocasional del día a día, el populismo del llegar a fin de mes...”

Es tal el escenario político que observa desde su séptimo piso del bloque de clase media y que se desprende de las conversaciones oídas en sus visitas diarias al bar Porcacci, que ahora, a sus setenta años, este hombre, con tanto tiempo disponible para reflexionar y añorando otros tiempos colectivos y personales, reivindica la rebeldía que inspiraban las ideas comunistas y que tanto éxito tuvieron a mediados del siglo pasado en esa parte de la ciudad que observa. Y lo hace pese a ser consciente de tantas y tantas cosas… “pese al fracaso histórico de la ideología y de la praxis comunistas, pese a las víctimas de los gulags. Serlo pese a Stalin, Pol Pot, Kim Il-sung, Mao, Lin Biao y todos los que vivieron después, pese a Ceausescu, Enver, Hoxha y todos los tiranos y dictadores de poca monta que crecimiento como la espuma gracias al comunismo. Serlo pese a la evidencia manifiesta de que el comunismo siempre termina igual, es decir, con la miseria de las masas, el fracaso de cualquier principio de igualdad y la irrupción del capitalismo más agresivo, voraz y criminal”.

La novela, profundamente desesperanzada, termina con un lamento, una autocrítica extensible a toda una generación de la que yo también me siento parte:
“... lo único que importa es nuestro fracaso político, nuestra derrota histórica, nuestra incapacidad actual, como hombres y mujeres del siglo XX, de comunicar a los perdedores el estado de sumisión en que se hallan en indicarles el enemigo político al que hay que combatir, organizarlos en una fuerza política capaz de llevar a cabo una lucha eficaz contra el desinterés, el abandono, la pobreza, la explotación, el esclavismo, la prostitución y el envilecimiento de millones de seres humanos”

Este exasperado, desalentado e inteligente ensayo novelado de Pecoraro me ha gustado ligeramente menos que la novela que me descubrió al autor, «La vida en tiempo de paz». Esta de ahora se inclina más hacia el ensayo que la anterior, más novelesca, dedicando más páginas de las que yo hubiera deseado a los hornos Hoffmann y a la fabricación de ladrillos, a su influencia en el crecimiento de la ciudad, al propio crecimiento de la ciudad, a las descripciones quizá demasiado detalladas de la vida en su calle, de lo que ve desde su ventana... Y aun así, cierro el libro con la sensación de haber leído una muy buena e interesante novela, narrada con una prosa admirable y, en ocasiones, de gran belleza, sobre un personaje con el que no me es difícil identificarme: aunque soy incapaz de defender el ideario comunista, egoístamente hay que reconocer que a las clases medias de occidente nos iba mucho mejor con la existencia del muro y los países del este. Tampoco he tenido la oportunidad de corromperme, pero vete tú a saber si llegado el caso…
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July 11, 2025
El narrador y protagonista de "La avenida" envuelve al lector en su manera de comprender su presente... y en su manera de ir recordando cómo él y su ciudad fueron encaminándose hacia un vacío de significado y de proyectos sociales y económicos. Aquí la construcción de las ideas (tanto académicas como escuetas) toma el espacio central del relato, por encima de la acción, que aparece en el trasfondo de, por ejemplo, cómo decae la industria de hornos de fabricación de ladrillos en un barrio de "la avenida". En esta construcción, el lector siente el peso de la historia social, política, cultural y artística en la psique de este personaje que ha caído en las tentaciones de la corrupción, así como en la desidia de un empleado público sin funciones y que simplemente espera la llegada de la jubilación.
Profile Image for SaraDurantini.
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September 22, 2019
https://corsierincorsi.blogspot.com/2...

Con taglio documentaristico, Lo stradone di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie), tra i cinque finalisti del Premio Campiello 2019, ci regala uno spaccato dei nostri tempi: sguardo ontologico sull'immagine, sull'oggetto osservato. Il narratore, dal settimo piano del suo appartamento, osserva un luogo già conosciuto eppure guardandolo dall’esterno riesce a intravedere e carpire dettagli nuovi. Pecoraro riprende le misure di una terra già conosciuta ma realmente esplorata per la prima volta, coglie nuovi significati, riconosce i centri emotivi.
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September 17, 2019
Cammina lentamente, il protagonista, come se fosse un gattaccio che entra per la prima volta in una stanza, strisciando su muri invisibili, riservandosi un angolo dove impigliare ragnatele, osservando senza essere visto, prendendo appunti, fucilandoci.
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August 29, 2025
Desde el punto de vista de un anciano de 78 años que vive en una barriada que en su día albergó un horno donde se producían ladrillos, que posteriormente se convirtió en comuna y en símbolo de la resistencia comunista de Roma, se analiza la evolución desde los años cincuenta a los dos mil en Roma. La visión del anciano es profundamente desencantada. Fue militante del PC y, posteriormente, tras la fragmentación de este, se pasó al socialismo y cayó en la corrupción de los años 80 y principios de los noventa. Hombre culto, profundamente ideologizado, que aspiraba a insertarse en a vida académica pero, expulsado de ella por su falta de seguidismo y sus escasas relaciones, debe buscarse la vida de otro modo y es así como llega, mediante su afiliación al partido socialista a un ministerio y, aunque al principio se resiste, después pasa por el aro de la corrupción. Posteriormente es acusado y regresa de nuevo al interior, ya apartado, trabajando poco en un puesto de dirigente pero sin dirigir y esperando a jubilarse.
Todo esto son solo antecedentes que se van desvelando poco a poco en el libro, pero lo realmente interesante son los análisis del personaje de la situación contemporánea, la falta de ideales y principios, más allá del consumismo y el culto al cuerpo, la desideologización de la vida en comunidad, la escasa participación ciudadana, el individualismo, el abandono de los ancianos, que se sienten ignorados y ajenos a una vida que ya no alcanzan a entender, la destrucción de las clases, aunque siguen existiendo, disfrazadas de otros nombres y otros muchos aspectos de la vida del siglo XXI que van pasando por la mente del único protagonista del libro. El personaje siente nostalgia pero se niega a admitir que la siente, y aunque da por finiquitada la la lucha entre capitalismo y comunismo se niega a aceptarlo, aun a sabiendas de que los intentos por instaurar el segundo han sido siempre infructuosos. Al mismo tiempo, percibe en él ya la decadencia del cuerpo y vive una no-muerte, es decir, el paso previo a estar muerto, visitando el bar de debajo de su casa, donde se encuentra con la gente del barrio, algunos de los cuales formaron parte de la resistencia ciudadana inicial, si bien al final todos han terminado adaptándose como han podido a los nuevos tiempos, reformulando sus ideas, olvidándolas o traicionándolas sin escrúpulos en pos de una comodidad y unas promesas que antes no disfrutaban.
El libro es amargo, crítico, pero no tanto por la nostalgia de tiempos pasados, sino por la falta de alternativas, de combate. El anciano siente que ni él mismo fue un verdadero comunista, sino los que trabajaron en el horno. Él es un comunista de segunda que solo puede tratar de comprender qué pensaban y sentían aquellos otros, por qué eran capaces de defender el estalinismo, un régimen que a todas luces era cruel y asesino.
Si La vida en tiempo en paz analizaba una vida en sus momentos estelares desde el final hacia el principio, enumerando una serie de malas decisiones y de golpes contra la realidad, en La avenida hay también una suerte de recapitulación, pero algo más indulgente. No en vano, los mejores años de la vida del narrador son aquellos en los que fue corrupto y no se arrepiente en exceso de haberlo sido, sino que lo acepta casi como consecuencia lógica de la época que le tocó vivir. La avenida muestra una visión incluso más cáustica de la evolución de la Italia posbélica y más centrada en sus consecuencias en la actualidad que en la evolución transitada hasta llegar al presente.
Desde mi punto de vista, un libro mayúsculo que, junto La vida en tiempo de paz, bien merecen ser llamados los dos grandes libros de la literatura italiana en lo que va de siglo XXI por su asombrosa lucidez y su extraordinario nivel literario.
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January 12, 2020
Roma. La città, il rione, lo Stradone visti con gli occhi di un tardo-sessantenne laureato in storia dell’arte condannato ad una vita di non-lavoro all’interno di un ministero. Una vita demmerda in una casa demmerda, in una città demmerda. Nostalgico del partito comunista che non c’è più: divenuto socialista per opportunismo finisce in galera per aver preso bustarelle durante la stagione di mani pulite. Emarginato dal mondo del lavoro passerà il resto della sua vita in una piccola porzione della città che ci descrive. Un personaggio che riassume il peggio dello homo italicus di fine millennio. Un libro che consiglio anche se leggerlo mi ha fatto incazzare parecchio.
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