Furibondo per la bocciatura di un suo brillante progetto di legge, Attilio abbandona la carriera politica e si ritira in montagna, tra boschi e trattori. Condivide le sue giornate con la piccola comunità agreste che lo circonda: la vita all’aperto è la sua guarigione. Ma i ricordi incombono. Hanno la forma immateriale dei rapporti personali irrisolti, delle parole sprecate in televisione, delle occasioni perdute quando viveva in società. E hanno l’ingombro fisico degli oggetti che il passato ha accumulato attorno a lui. Casse e casse di libri, lettere, fotografie, documenti, mobili tarlati, cianfrusaglie. Il canapè di zia Vanda, liso e minaccioso, è il condottiero indiscusso di quello che Attilio considera un esercito invasore. Vorrebbe liberarsi di quelle cataste e comincia a progettare roghi, per ridurre in cenere il lascito delle vite altrui. Sogna leggerezza, un cammino più spedito, più libero, sollevato dal ricatto della memoria. Fatalmente, brucerà quello che non avrebbe dovuto bruciare, in un finale di partita segnato dal classico colpo di scena e dominato dalla presenza delle donne: una moglie sempre in viaggio, la sorella femme fatale, la vicina di casa bulgara. Attraverso l’eroe attaccabrighe e insofferente del romanzo, Michele Serra guarda allo spirito dei tempi facendone emergere la rabbia, l’inconcludenza, la comica mediocrità. Ma anche le piccole illuminazioni che salvano la vita.
Anche di questo romanzo ho ascoltato l'audiolibro su storytel, che consiglio vivamente perché la narrante è pazzesca: splendida da ascoltare e magistrale nel rendere i sentimenti del protagonista.
Detto ciò, il romanzo mi è piaciuto molto. Lo stile di scrittura può apparire un po' troppo ricercato, a tratti pomposo, quasi aulico, ma a mio parere è in linea con il personaggio principale che si reputa un intellettuale incompreso. Non sono entrata in sintonia con nessun personaggio in particolare, anzi il protagonista mi è stato alquanto antipatico. Ma c'è qualcosa in questa narrazione di vita che mi ha tenuto le cuffiette incollate alle orecchie! Perché in fondo questo romanzo non è altro che la narrazione della vita di un personaggio in vista che in seguito ad una cocente delusione decide di isolarsi dalla società, ma l'autore è stato così bravo da instillare nel lettore la voglia di sapere come andrà a finire questo isolamento. Il finale non mi ha delusa, anzi mi è piaciuto molto. Forse un po' prevedibile, ma comunque azzeccato. Dà quel tocco di scandalo che vivacizza il tutto.
E poi l'ateismo esplicito ha reso il tutto ancor più nelle mie corde.
Ex uomo politico che si ritira a vivere su una montagna tentando di ritrovare serenità e tranquillità. Fa il possibile per scappare dal passato fino al momento in cui lo dovrà affrontare, perlopiù involontariamente. Penso che questo sia un atteggiamento comune tra le persone, sopratutto quando il passato non piace. Tutto sommato è stata una buona lettura estiva.
Un viaggio introspettivo per imparare come lasciare andare pezzi di sé del passato — così come cercare di ritrovare la propria identità nella semplicità dei lavori manuali.
Scoprii "Le cose che bruciano" nell'ormai lontano 2019, al Salone del Libro di Napoli, dove incappai per caso nel suo reading. Complice l'ottima recitazione di alcune pagine -purtroppo non ricordo il nome dell'attore/lettore-, la mia curiosità per questo libro crebbe a dismisura ed è rimasto un conto in sospeso fino a qualche settimana fa, quando ho avuto finalmente l'occasione di iniziare a leggerlo.
Cito: "Ma le penne, credetemi, non sono le dita che le hanno impugnate, le scarpe non sono i piedi che le hanno calzate, i cappelli non sono scalpi. E gli occhiali sono solo orbite vuote. Scorie delle vite altrui che rimiriamo impotenti, sgomenti per la quantità incredibile di cose che in poche decine di anni ognuno di noi riesce ad accumulare. Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria.
Libertà è un rogo ben congegnato."
Premessa per nulla malvagia, non credete? Peccato che, almeno negli attimi in cui sto scrivendo questa recensione, io riesca a trovare un'unica nota positiva in questa esperienza: quella di aver soddisfatto la mia curiosità, così da non avere rimorsi e non pensarci più.
Partiamo subito dai difetti della forma. Ho trovato qualche errore grammaticale di diverso tipo, da quello ortografico alle ripetizioni inserite probabilmente per distrazione, soprattutto nella parte iniziale. Sintomo, forse, di scarsa revisione del testo? Un'altra stortura è il margine superiore quasi inesistente dei fogli, che dà l'impressione che le pagine taglino in qualche modo il discorso; eppure non mi sembra di aver trovato tutti questi errori di stampa negli altri libri della collana "Universale Economica" della Feltrinelli.
A parte questi elementi che possono essere considerati inezie, la scrittura non è malaccio e il libro si può divorare abbastanza velocemente; il vero problema è il protagonista, che risulta a dir poco indigesto.
Attilio Campi è un ex politico appartenente a un partito progressista che, dopo la bocciatura della sua proposta di legge per l'introduzione dell'uniforme obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado, decide di ritirarsi a vita privata in un paesino di montagna, Roccapane, a lavorare la terra. Attilio pecca di prepotenza e arroganza, ma almeno ha la creanza di esserne conscio. Peccato, però, che cerchi di rimediare a questa sua mancanza di umiltà in modo da riuscire allo stesso tempo a nutrire e accrescere il suo ego: deve assicurarsi di avere un pubblico pronto a lodarlo mentre finge di essere costernato oppure essere certo di apparire vincente in ogni situazione, anche quando offre "misericordiosamente" una resa. Usando una lunga lista di aggettivi, Attilio Campi è: arrogante, prepotente, mitomane, paternalista e pregiudicante, saccente, radical chic che si finge di sinistra ma che è invece palesemente reazionario, ostentatore di finto progressismo per celare sessismo e razzismo interiorizzati.
Tanto per fare degli esempi: • La moglie è un ingegnere (scrivere "ingegnera" costava troppo) che "lo mantiene" mandandogli 1200€ al mese; denaro che a lui basta e avanza, perché tanto nella sua nuova vita bucolica non ha bisogno di spendere molto -ovviamente ci tiene a spiegare anche che in generale sarebbe assurdo non riuscire a campare con così tanti soldi-. Ma mica gli dà fastidio che sua moglie guadagni più di lui, no, no: sente solo la necessità di ricordarlo ogni volta che parla di lei. Oltre che citare il suo culo "antigravitazionale", ovviamente. • La sorella Lucrezia viene da subito classificata come "una grandissima fica" al pari di Kate Moss, anche se ha più di cinquant'anni. Nonostante non abbiano rapporti stretti, tanto basta a Attilio Campi per decretare che sua sorella sia una che pensa solo agli uomini e ai soldi, visto che si è sposata tre volte e ora sta con "un franco-libanese". L'ammirazione che prova per lei è al limite dell'incestuoso, al punto che egli stesso ammette di aver cercato solo donne che fossero belle almeno quanto lei (ed è per questo che ha avuto pochissime relazioni); in più è soddisfatto di non somigliarle molto fisicamente, così da suscitare invidia negli uomini che lo vedono approcciarla, credendo che sia un suo pretendente e non suo fratello. Però, ehi, sorpresa! a fine libro si scopre che Attilio e Lucrezia hanno due padri diversi e che quindi in realtà sono fratellastri. Ora l'attrazione che lui prova non può essere giudicata poi così tanto male, no? • Tutto il libro è pregno di pregiudizi ingiustificati e critici nei confronti della gioventù. Pensavo che questa mancanza di fiducia verso le nuove generazioni fosse prerogativa di Attilio Campi; invece, indagando su altri libri di Michele Serra, ho capito che è una costante ficcata a forza ad ogni occasione. In "Le cose che bruciano" c'è un ragazzo, Federico, appena sopra i ventidue anni, che fa l'allevatore a Roccapane. Attilio immagina immediatamente che il giovane uomo abbia scelto un lavoro così duro per sfuggire a una vita di droga. E guarda caso: a fine romanzo scopre di avere ragione! Federico si faceva di eroina, proprio la droga che aveva presupposto Attilio! Ci sono poi i nipoti, figli di Lucrezia, che Attilio non ha mai incontrato e di cui non sa nulla, ma nella sua mente sono automaticamente viziati e vittime della droga. Ma guarda un po'! nei "Titoli di coda" (sì, è l'imbarazzante titolo del finale) si scopre che la nipote effettivamente è tossicodipendente. Il nipote, no, no, quello studia a Cambridge. • Gran parte dei protagonisti non vengono mai indicati con il loro nome proprio, ma con la loro presunta provenienza: e così abbiamo il ricco marito franco-libanese, il corriere slavo, la moglie del secondo personaggio più nominato del libro che viene semplicemente chiamata "la Bulgara", i due pakistani della cui vita privata non si sa nulla e che lavorano in nero per Federico. Questi ultimi, a causa delle ultime leggi sull'immigrazione, a fine libro sono costretti ad andare a lavorare negli Emirati Arabi dove, ovviamente, non si trovano bene.
In realtà potrei anche passare sopra alla personalità del protagonista -dopotutto ho letto libri con personaggi anche più deviati- se non fosse che la storia, scritta dal suo punto di vista, non faccia altro che perorare le sue opinioni e dargli ragione, riempiendo le pagine di lamentele e scimmiottamenti nei confronti degli altri personaggi, ritenuti a caso stronzi o intellettualmente inferiori, e allontanando l'attenzione dalla trama -a un certo punto mi son chiesta se ce ne fosse effettivamente una-
In sintesi: non avevo mai letto un libro di Michele Serra prima e non credo che mi avvicinerò ancora a questo autore molto presto.
Non mi é rimasto nulla di questo libro, se non l'incazzatura perché volevo rivenderlo su Libraccio ma durante la lettura si sono staccate le pagine. Neanche ai libri della Newton si staccano le pagine. Gigantesco no.
Non mi sono sentita coinvolta durante la lettura.. ho abbandonato il libro dopo i primi capitoli.. magari lo riprenderò più avanti, dando all'autore una seconda possibilità
Strano è l’effetto che mi fanno i libri del vecchio direttore di “Cuore”. Io sono stato sempre profondamente solidale con le sue idee, che trovavo piuttosto affini alle mie, in particolare un certo senso di disprezzo per l’ignoranza, soprattutto quella tronfia e compiaciuta della “Lumpenborghesia” (termine suo). Ho provato disgusto per i suoi detrattori, quelli che lo ritengono appunto un moralista compiaciuto e sentenzioso, e che ormai stanno diventando sempre di più. Nello stesso tempo devo dire che ho avuto qualche difficoltà a seguirlo nel momento in cui ha cominciato a inveire contro i giovani d’oggi in “Gli sdraiati”, con una generalizzazione che aveva del pauroso, e un curioso astio per chi non mostra una ilare passione per le vendemmie o un folle desiderio di seguire il proprio padre per sentieri di montagna. “Ognuno potrebbe”, peraltro, il suo penultimo romanzo, mi è piaciuto abbastanza. Questo diciamo che è un po’ mezzo e mezzo tra i due precedenti. Un politico di sinistra si è ritirato in campagna dopo aver perso credibilità nella curiosa battaglia per l’introduzione della divisa obbligatoria nelle scuole (cosa che, dal suo punto di vista, aveva anche un senso: basta con gli esibizionismi e gli status symbol di scarpe, vestiti e pantaloni, basta con le uniformità della moda e di modi di essere, che stia a ognuno la capacità e il diritto di darsi una personalità. Invece, ad essere colto è stato l’aspetto repressivo e fascistoide). In campagna si appassiona al lavoro della terra, fa amicizia con alcuni vicini, un agricoltore di vecchia data, sua moglie bulgara e un giovane pastore di capre, e si lascia andare in profonde riflessioni sulla natura, la terra, il cielo, il tempo e tutto il resto. Riflessioni che se da un lato hanno anche una bellezza e un senso, dall’altro fanno troppo pensare al mito del cittadino che pensa che la ricetta per la felicità sia il ritorno alla natura, e a quello del moralista per cui bisogna rinunciare, togliersi di dosso il superfluo, fare a meno di molto, puntare all’essenziale. Al punto da voler fare un rogo, quasi purificatorio, delle quantità di oggetti lasciatigli in eredità da una vecchia zia, e dalla madre, tra cui una voluminosa scatola contenente le corrispondenze tra lei e un suo vecchio compagno di università, forse innamorato, forse amante. Serra, comunque, scrive molto bene. I personaggi in qualche modo prendono forma davanti ai propri occhi, anche se sono tutti fortemente iconici; paradossalmente finisce però che la più simpatica ed affascinante tra essi sia quella che l’autore vorrebbe più criticabile, la bellissima sorella del protagonista, grande viveuse dell’alta società, sposatasi per tre volte sempre con uomini ricchissimi, che si posa leggera e soave su tutto quello che la circonda senza farsi particolari drammi esistenziali. Che alla fine del romanzo gli porta una notizia sconvolgente: sono fratelli solo da parte di madre, hanno padri diversi, e quello che lui ha ritenuto essere il padre di entrambi lo è solo di lei. E allora quale sarebbe il vero padre? Forse il compagno di università della corrispondenza con la madre, che lui ha appena bruciato? (Peraltro questo atteggiamento di disprezzo per gli oggetti, la memoria e tutto il resto lo trovo irritante e fastidioso. Forse perché ho avuto una madre per cui gli oggetti erano solo un fastidio, e non perdeva occasione per buttare via cose che avrebbero avuto per me un valore, di memoria o d’altro genere; forse proprio perché è un supremo atto di arroganza pensare che quello che non ha valore per te debba non averne per nessuno. Le corrispondenze tra la madre e il compagno di università riguardavano, non si sa bene se in termini marginali o sostanziali, i graffiti rupestri di uomini primitivi nel massiccio francese del Mercantour; bene, conosco una professoressa universitaria di antropologia che avrebbe fatto follie per qualsiasi cosa riguardasse gli uomini primitivi, comprese quelle corrispondenze). E poi, ancora, che scocciatura questa ossessione per la terza guerra mondiale incombente, sembra Douglas Coupland con la bomba atomica… In ogni caso un libro che si fa leggere volentieri, anche solo per dire: no, caro Serra, non sono affatto d’accordo con molte delle cose che dici. E tutto sommato, tra il tuo personaggio tormentato e ipercritico (a cui è evidente che hai prestato molto di te), e la sua affascinante, soave e borghesissima sorella, preferisco di gran lunga lei.
In questo romanzo ho ritrovato il Michele Serra autore de “Gli sdraiati”: abbiamo l’elemento della natura, il sarcasmo, la crescita personale… Lo stile è comunque diverso, l’impostazione è diversa, ma del resto lo sguardo stesso lo è. Questa volta a parlare è Attilio Campi, sbattuto fuori dalla vita politica dopo aver presentato una proposta di legge per inserire l’obbligo della divisa scolastica. Dopo questo fallimento abbandona la politica e si rintana tra boschetti, colline e la vita semplice lontana da tutto e tutti ( almeno, lontano dal suo passato). Sì, perché il suo passato lo rincorre. Qualche video di qualche conferenza gira ancora su YouTube, qualche rammarico (pure qualche rancore). Lettere, oggetti, ricordi. Che ne direste di fare un grande e immenso falò per bruciare tutto?. Così Attilio decide di bruciare le sue memorie, i suoi ricordi. Bisogna essere come l’acqua, dice tra le righe. Qualche volta bisogna lasciare andare. Quando trattenere non serve a nulla dobbiamo guardare per terra e ricordarci dove siamo. A quel punto possiamo decidere se lasciar scorrere la roba vecchia, rimasta lì a fare la polvere in qualche angolo della nostra testa. Succede però, così accade ad Attilio, di bruciare qualcosa che non doveva essere cancellato. Scopre una grande verità sulla sua famiglia, ma si rende subito conto di aver bruciato le uniche prove di cui disponeva. Le uniche fonti che gli avrebbero permesso di scoprire la verità. Attilio troverà la sua guarigione in una casetta di montagna, nella solitudine, confrontandosi con se stesso e, soprattutto senza filtri, senza social, senza telecamere, senza la finzione che lo circondava.
“Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria”
Oggi vi parlo di un libro estremamente introspettivo, quasi tutto quello che viene raccontato succede nella testa del protagonista.
Attilio Campi, dopo il fallimento della sua ultima proposta di legge, decide di mollare la sua carriera politica e trasferirsi in un paesino di montagna a lavorare nei campi.
Con una moglie ingegnere, quasi sempre via per lavoro, Attilio trascorre le giornate arrovellandosi tra i ricordi e vecchie situazioni irrisolte.
Diventate ormai più ingombranti di tutti gli oggetti accumulati ed ereditati, sopraffatto dal ricatto del passato, inizia a progettare roghi fino a ridurre in cenere l’unica cosa che avrebbe dovuto conservare.
Sono sempre molto attratta da questo genere perché amo trarre insegnamenti dalla vita degli altri, ma questo libro mi ha letteralmente spiazzata.
Nella parte iniziale la curiosità e le aspettative salgono molto e poi dopo il colpo di scena, si arriva velocemente alla conclusione con troppa voglia di continuare a leggere.
All’inizio ho provato quasi delusione, poi ragionandoci ho pensato che forse era proprio questo lo scopo dell’autore, portare il lettore a immedesimarsi nella storia e vivere in prima persona la morale.
Bisogna fare molta attenzione con il passato perché molto spesso, tutto ciò che prima occupava spazio vitale potrebbe lasciare un vuoto ancora più ingombrante.
Trama: Un uomo che ha lavorato per anni in politica, desidera, ardentemente (:, il distacco completo dal suo passato. Nella sua vita, ora completamente diversa e fatta di piccole soddisfazioni agresti, esso risulta ancora molto centrale e si fatica a capire se il protagonista ne vada fiero o lo rinneghi. (Ho trovato divertente la continua menzione della riforma sulle scuole di ogni ordine e grado e del conflitto con il rivale, palesi tentativi di distacco inconclusi). Ad obbligarlo a fare i conti col passato, ci si mettono alcuni oggetti ereditati dai familiari, che richiedono le sue attenzioni.
Osservazioni: Le descrizioni vivide della natura in cui è immerso Attilio, fanno dimenticare che si sta leggendo un libro e invogliano a respirare aria pulita stando all’aperto. Nonostante lui sia il protagonista indiscusso, il suo universo rimane ancorato a tre figure femminili: tutte donne presenti in forma sfuggente ma che pur esercitano un grande potere e un ruolo nella sua vita.
Stile: Ho apprezzato lo stile con cui è stato scritto questo libro: scorrevole, nonostante un linguaggio molto forbito con tanti termini inconsueti. Vocaboli dettagliati per la descrizione della natura. Si vede che l’autore ha letto molto e scritto altrettanto (: In ciascuna pagina emerge l’umorismo pungente e il carattere tagliente del protagonista che rendono i toni più leggeri e canzonatori.
“Il solo accumulo domestico che non mi dà angoscia, e anzi mi conforta, è quello del cibo. Devo avere avuto, in vite precedenti, una maledetta fame. Devo avere conosciuto penuria e spavento. E qualcosa, nel mio profondo, conserva memoria di quegli stenti, perché niente come una dispensa ben fornita mi fa sentire al sicuro, e basta una tavola apparecchiata a rendermi felice.”
Prima parte succede pochissimo, ritmo abbastanza lento e segnato dall’ incedere delle stagioni e dal lavoro della terra. Seconda parte un po’ più scorrevole e con spunti più interessanti, diventa chiaro probabilmente solo nel finale che il ritiro montanaro del politico reduce dal fallimento ha funzionato (non sembra invece slegarsi dal suo passato per tutto il romanzo come sottolineato dalle continue ripetizioni della “legge sulla reintroduzione dell’uniforme obbligatoria nelle scuole di ogni ordine e grado” e la ricerca della pace con Mirabolani). Probabilmente la scintilla è la rivelazione fatta dalla sorella, che tende a slegarlo dal suo passato, ma la narrazione del presente si chiude poco dopo quel momento. Belle le caratterizzazioni dei personaggi e le descrizioni del paesaggio sul cucuzzolo. Non rapisce particolarmente nella prima parte.
È un libro che mi ha lasciato perplessa, che mi ha richiesto tanto tempo e tante pause, pur essendo così piccolo. Lo mollavo lì, convinta che fosse troppo complicato, sconnesso, che non mi avesse preso. Poi però la mente tornava all'assurda storia di Attilio Campi, alla sua campagna e al silenzio. Non riuscivo a dimenticarmene, non riuscivo a interrompere. La vita è così, a volte la costruisci tutta in una direzione, e poi all'improvviso in un solo istante decidi di deviare. Cambi rotta. Cambi registro. Ricominci. È un libro per i nuovi inizi, questo. Un libro per chi si è perso, per chi è tormentato dal passato e non sa scrivere la prima parola del nuovo capitolo, ancorato com'è all'ultimo punto. Sconnesso ma spontaneo, assurdo ma reale.
Conoscevo Michele Serra solo come giornalista, soprattutto per la famosa rubrica L'Amaca da lui curata su La Repubblica, di cui sono stato lettore fino a un anno fa circa. Le cose che bruciano non mi ha entusiasmato. La lettura è abbastanza scorrevole, i capitoli sono piuttosto corti, il linguaggio abbastanza ricercato. Ma la storia non mi ha avvinto, non è di quelle, almeno a mio parere, che ti tengono legato al libro. Anzi, l'ho trovata un po' trascinata e ripetitiva dall'inizio fino agli ultimi capitoli, quando un imprevisto ti risveglia dal torpore in cui eri caduto (era ora!). Mi spiace, perché i temi di fondo sono anche interessanti, però mi sembra un'opera riuscita per metà.
Le tematiche trattate nel libro mi hanno colpita, perché attuali nella mia vita. Il narratore, nonché protagonista, affronta i suoi “demoni” facendoci partecipi del suo marasma interiore, e facendoci sorridere per la mondanità delle sue preoccupazioni. Nondimeno il libro parla di una catarsi interiore, tanto agognata e che arriva, proprio quando la vita sembra voler stravolgere di nuovo il precario equilibrio, nel più inaspettato dei modi.
Scritto bene, ma poco scorrevole per una quasi totale mancanza di trama. Il libro sembra quasi una raccolta lunga delle varie "amache" scritte da Serra. Riflessioni sulla vita, presente e passata, del protagonista del libro, con la vicenda che si evolve davvero soltanto verso il finale. Mi aspettavo qualcosa di più, ma comunque si lascia leggere.
Mi piacerebbe poter dare tre stelle, perché Attilio politico fallito in cerca della umilta, si esilia in montagna, progettando roghi, cercando paci con i suoi nemici, ma al netto delle cose buone, troppe ripetizioni ( ripeterà almeno 15 volte la storia dell' introduzione dell'uniforme obbligatoria) .
L'avevo lasciato a metà perché non vedevo un avanzamento nella storia, che effettivamente è abbastanza monotona, come la vita del protagonista.. Poi mi sono forzata ad andare avanti e ho proseguito tranquillamente. La storia è carina per i temi trattati (distanza dalla metropoli, ritorno alla semplicità, il peso dei ricordi) un po' ripetitiva ma comunque piacevole.
Bella l'idea di mettere un politico in stato di redenzione, esiliato per propria volontà in una zona fuori da luci e riflettori. La sua fissa dell'uniforme e del fuoco sono divertenti, ma non ho trovato la storia molto coinvolgente. L'insegnamento alla fine c'è e riguarda le cose importanti della vita. 13/04/19
Seguo Michele Serra da quand'era poco più che un ragazzo, scapigliato e feroce. Leggo ora, quando posso, la sua 'Amaca', che trovo sempre ben diretta e condivisibile. Questo libro (come altri da lui pubblicati) si riduce in fondo a una serie di riflessioni, sulla vita e i suoi veri valori. Nulla di sconvolgente, ma fa sempre piacere leggere un italiano così limpido.
'Sotto la superficie celeste e luminosa della mia vita all'aperto, corre il fiume oscuro della memoria, le facce e le voci perdute, quelle amate e quelle detestate, quelle importanti e quelle trascurabili confuse nella stessa indistinguibile corrente. La mia incapacità di separare i pezzi di memoria che valgono qualcosa da quelli che impicciano e basta è paralizzante.'
Non so se serissimo o ironico però l’ho letto nel momento preciso. Rimango con questa frase “Abbiamo troppe cose, io e Maria. E in generale, checché se ne dica, abbiamo troppe cose tutti quanti.”
Mi ero immaginata tutt'altra lettura. In parte piacevole, in parte mi ha trasmesso un po' di inquietudine. Forse anche per il fatto che è scritto in prima persona. Il personaggio, a tratti, è brillante in alcuni suoi ragionamenti.