Una corriera nel 1992 parte da Sarajevo durante l’assedio e porta con sé donne, bambini, uomini, vecchi: un intero popolo è seduto su quel bus durante quel lungo viaggio notturno che li porterà ad attraversare i check point per dirigersi chissà dove. Torneranno? Saranno accolti da qualcuno? Riconosceranno ancora la loro terra martoriata? Dalla città bosniaca a Londra, una testimonianza dolorosa e nostalgica, ma anche ricca di speranza che ci conduce verso un epilogo dove da qualche parte, nascosta ma ben visibile, può apparire la felicità. Prefazione di Maria Tilde Bettetini. Postfazione di Bozidar Stanisic.
Predrag Finci is a philosopher, author, and essayist. His work is best known for its combination of erudition, philosophical and aesthetical insights, and personal experience. Finci writes extensively in his native language and also in English. A great number of articles and reviews of Finci’s books have been published in Bosnia and Croatia.
Il libro è suddiviso in tre parti: la partenza, il ritorno, la felicità. Nella prima parte, la più lunga, l'autore annota i suoi ricordi della fuga da Sarajevo nel 1992 durante l'assedio serbo-bosniaco. I pensieri sono buttati giù alla rinfusa (un paio di volte anche scritti sotto forma di brevi flussi di coscienza) e ho fatto fatica a seguire l'autore. Forse ha voluto ricreare con la scrittura il caos e l'incertezza della fuga? Durante la lettura di questa parte mi sono sentita spaesata. Spaesata come i personaggi di Kafka nella Metamorfosi, Il castello, Il processo che l'autore a un certo punto tira in ballo. Finci dedica dei paragrafi a diversi personaggi famosi della letteratura classica adattandoli come "stranieri" nel suo racconto. Da quando Finci inizia ad utilizzare e trasformare questi personaggi in protagonisti della sua storia sono riuscita finalmente a trovare il filo della narrazione perché mi sono immedesimata in quella sensazione di estraniazione e incomprensibilità che i personaggi di Kafka impersonano così perfettamente: non riuscire ad uscire da una situazione di malessere e il sentirsi incompresi. In tutta la prima parte ritroviamo il senso di alienazione, la solitudine, l'incomprensione, la tristezza.
La terza parte, dedicata alla felicità, è un trattato di filosofia (Finci era stato fino al 1992 professore di Estetica alla facoltà di filosofia all'università di Sarajevo) e nonostante non sia un'amante di elucubrazioni filosofiche sono riuscita a seguirla abbastanza bene perché mi sono rispecchiata negli interrogativi e nelle risposte di Finci. Per Finci la felicità o è collettiva o non è felicità. Questo perché non può esistere una felicità individuale se intorno a noi ci sono persone che sono obbligate a fuggire dai loro paesi con tutto ciò che comporta: sofferenza, dolore e in molti casi la morte. Secondo Finci anche l'infelicità è collettiva. Non solo perché accomuna gli infelici, ma perché se c'è un solo individuo infelice ciò deve riguardare tutti. Quindi, si può essere pienamente felici solo se ci rendiamo utili agli altri per alleviare le loro pene e rendere anche loro un po' più felici. L'infelice tende a chiudersi in se stesso pensando che la sua infelicità sia peggiore di quella degli altri e tende quindi a sentirsi incompreso. La felicità, invece, ci apre e ci fa guardare fuori da noi, verso il prossimo, verso il bisognoso. Deve essere una felicità attiva perché ci fa aprire gli occhi su chi ci sta intorno e non è felice. La felicità, quindi, deve avere una base morale. Senza questa non potrà mai essere pienamente tale, e deve essere attiva perché la persona felice deve fare qualcosa attivamente per alleviare la tristezza e le sofferenze degli altri. A me questo discorso è piaciuto tantissimo e lo condivido. Ovvio, anche Finci dice che una persona non può essere sempre felice, ma se la felicità è comunitaria e collettiva ci sarà sempre qualcuno su cui contare per non sentirsi isolati e ricadere nella tristezza assoluta. In questo modo, aiutandosi vicendevolmente, si può sempre contare su qualcuno. Un altro tema brevemente affrontato da Finci nella terza parte è la speranza. Secondo l'autore anche nelle situazioni più disperate c'è sempre un barlume di speranza che aiuta ad andare avanti perché è nella natura dell'uomo anelare alla felicità senza arrendersi mai del tutto.
Nella seconda parte, la più breve, Finci torna a Sarajevo e condivide con il lettore ciò che vede e le sue impressioni. Secondo Finci ci sarà sempre la nostalgia per la patria anche se si tende ad addolcirne i ricordi. Afferma che la nostalgia pulisce i ricordi dalle brutture e rimane solo il bello. Purtroppo non ritroviamo più questo "bello" tornando in patria dopo svariati anni. I luoghi sono cambiati, ma anche le persone non sono più le stesse. Ci sono facce nuove e anche con le vecchie conoscenze ormai c'è poco in comune. Se nella prima parte parla di sentirsi a casa ovunque ma non sentirsi in patria da nessuna parte, adesso ci spiega come anche tornando in patria rimane la sensazione di non sentirsi più a casa. Non si ritrova più lo stesso posto che si era lasciato e che si era conservato intatto nei ricordi. Non è più la stessa patria da cui si è dovuti fuggire e spesso si va anche incontro a delusioni che riaprono ferite facendo tornare a galla un malessere dimenticato ma mai del tutto sradicato. Il rischio è di sentirsi stranieri ovunque, in ogni luogo. L'importante secondo Finci è di iniziare a vivere in un posto e non limitarsi più al solo abitarci. Facile da dire ma non da fare. Capita anche di vivere in patria ma di non sentirsi a casa. Ecco dove torna di nuovo fondamentale la società, la comunità, in cui si vive: per far sentire tutti accolti, voluti, e non come un peso o un fastidio da accantonare o, peggio ancora, eliminare; per non sentirsi uno straniero in qualsiasi luogo. Ogni esperienza di vita è ovviamente individuale e ogni persona affronta questa sensazione di sradicamento in modo unico e personale, ma ci sono molte cose che accomunano le vari esperienze e questo dovrebbero spingere le persone ad aiutarsi reciprocamente.
Questo testo non ti può lasciare indifferente; ha lo stesso effetto di chi ci dice verità scomode che non avremmo voluto sentire, che abbiamo sempre con fatica represso in noi: verità inconfessabili a noi stessi, che ci riguardano e con le quali siamo costretti ad avere a che fare. Ecco, è proprio questa l'impressione che mi ha lasciato la lettura di quest'opera di Finci. Il punto di partenza di questo viaggio ciclico, di questo romanzo filosofico, è lo scoppio della guerra in Bosnia ed Erzegovina nel 1992 con l'assedio di Sarajevo. La corriera porta via questi disperati esuli sui cui volti si mostrano quelli di un intero popolo - del "popolo del diluvio", come dirà un passeggero della corriera. È l'inizio di un viaggio, di un racconto, di un ritorno (ecco la ciclicità); ma questo "viaggio" è soprattutto costellato di interrogativi penetranti, ficcanti, che, da buon filosofo quale Finci è, pone all'attenzione di tutti noi - di lui stesso, in primis - e di risposte amare e dirette, che non possono appunto, come dicevo più sopra, lasciarti indifferente. Una lettura non facile, ma, in un qualche modo, necessaria...