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264 pages, Paperback
First published February 11, 2014
Shinjuku ha gli occhi spalancati. E non dorme mai.
O così almeno credono i tokyoti. In verità, fa brevi ma frequenti pisolini a bordo dei treni che transitano sui binari e si concede la pigrizia dell’attesa in alcune domeniche di luglio, di mattina presto, quando le rotaie sono ancora fredde e la pioggia soffoca l’aria di umidità.
Un occhio aperto e l’altro chiuso, fingendo una vigilanza che non le appartiene. Shinjuku è tentacolare e allunga le sue ventisei braccia, tredici linee in doppia direzione, sopra e sotto la superficie di tutta la città.
Non ha ciglia e non le sbatte mai. Ma deve stare in guardia dagli stuoli di ubriachi che si riversano in strada ogni notte e dalla yakuza che passeggia per Kabukichō. E se Shinjuku lo fa, il suo mabataki – il ritmo delle ciglia sulle guance, dell’occhio che si apre e poi si chiude, che si chiude e poi si apre –, ecco se lo fa è solo per incantare chi ha voglia di cadere. Shinjuku ci gioca con la sua immagine di sirena ammaliatrice piena com’è di locali di piacere. Di postacci.
Tokyo è fatta così, ha la faccia sporca e il bicchiere sempre pieno.
Se New York è una mela, Tokyo è un melograno. È dolce e stuzzicante, ma anche amara. In sé racchiude tanti chicchi, tutti schiacciati l'uno contro l'altro in una convivenza forzata, ma sempre, inesorabilmente soli. A volte, però, qualche chicco si ribella; così può succedere che quattro giovani si incontrino per caso, una notte a Shibuya, il quartiere più folle della città, e decidano di avvicinarsi, per provare a colmare quella distanza sottile. Qualcuno per inseguire una favola d'amore, qualcun altro per lenire il dolore di un passato ingombrante, o per cambiare vita senza lasciare tracce. E in quell'incontro che è sesso ma anche qualcosa di più, Sara e Hiroshi, Carmen e Jun troveranno l'antidoto alla solitudine che pare volerli ingoiare. La storia di un amore sprecato e di uno realizzato, del sesso che unisce e separa, di una città immensa e piccolissima.
«Jun, you’re so pop!»
Lo dice in inglese, perché quella lingua è la più pop di tutte. E perché lo è, soprattutto, detta e scritta in giapponese: le parole straniere s’arricchiscono di vocali in mezzo o a fine parola, perdono le caratteristiche di pronuncia originali e non hanno più vie di mezzo.
«Poppu?» ripete Jun, con la sua pronuncia alla giapponese.
Mentre anche Sara si alza ed entrambe si avviano verso la cassa con il foglio del conto, un uomo di cinquant’anni, con un’eleganza triste addosso e un’espressione persa in volto, chiede dove è il bagno e scompare nel corridoio angusto sul fondo del locale. Oggi, di ritorno dal funerale del figlio ventenne, schiantatosi con troppa foga nella vita e sulla strada, l’uomo ha deciso che, per la prima volta in trent’anni di lavoro, si dedicherà una giornata intera. Sarà una passeggiata per i tre quartieri che ha più amato in gioventù: Kichijōji che conserva di quel periodo la freschezza e gli ricorda i primi appuntamenti con la moglie; Ochanomizu e i suoi negozi di strumenti musicali dove perdere pomeriggi interi con uno strumento, uno qualsiasi, sulle spalle; e Asakusa, senza peli sulla lingua, con il suo teatro di rakugo dove spargere risate. E mentre l’uomo tira su la cerniera dei pantaloni e si sciacqua le mani con immensa cura, gli tornano in mente d’improvviso i particolari di un giorno che non ricordava neanche più di aver vissuto. Un pomeriggio di diciotto anni prima, un sabato, il giorno in cui portò suo figlio a un kaiten-zushi per la prima volta e in cui il bambino continuò tutto il tempo a gridare “tonno” in direzione dello chef. In un attimo gli occhi gli si gonfiano di lacrime, violenti singhiozzi iniziano a scuotergli il corpo e lui, raggomitolato nel suo completo nero sul pavimento lurido del bagno, si chiede se mai ce la farà.