Dalle braci di un Umanesimo appena sorto che ha dato cultura e lingua a tutta l’Europa, in Italia il cittadino disegnato e plasmato pieno di virtù si trasforma in un suddito, in un consenziente al banco del potere. In “La fabbrica dell’obbedienza. Il lato oscuro e complice degli italiani” Ermanno Rea parte dalle origini di questa piaga che dilania la società italiana per capirne le cause e le ragioni più intrinseche che ci differenziano dai francesi, dagli spagnoli e dal resto del mondo. Dal secolo XVI in poi fino ad arrivare al berlusconismo, il saggio di Rea si fa racconto, passato eroico in cui l’Italia era culla di cultura, civiltà e peregrinazione filosofica sul potere. L’asservimento alla Chiesa è una delle cause più forti che lo scrittore napoletano individua come origine di questa assurda malattia. Il prostrarsi del cittadino del 1500 al voto religioso senza porsi domande, ma come puro dogma, è – per Rea – solo un’anticipazione del fascismo e una predisposizione del cittadino italiano medio ad essere convinto e assoggettato al potere con sorprendente facilità. “La fabbrica dell’obbedienza” si affida anche al fatalismo, alle stelle malvagie o ad un clima infelice che avrebbe istigato l’italiano a crescere in questa sorta di mancanza di responsabilità, di indifferenza. Per Rea però è solo la storia che parla chiaro e ci prospetta il presente e un passato recente fatto di cultura televisiva, di semplici annuire ad un potere che si prende gioco di noi utilizzando il serpeggiante consumo illimitato della televisione e della sua pubblicità. Siamo automi nel saggio di Rea, contenitori a cui il potere rappresentato dalla politica, dalla religione o da un gruppo di consumo può propinare ciò che vuole e in cui l’italiano medio si riconosce sempre, pronto a confessare le sue piccole grandi colpe per liberarsi la coscienza e legittimare così un’autorità più collusa di lui. L’indignazione che arriva dall’estero sull’incredibile rassegnazione e asservimento che serpeggia nello stivale lascia stupito il popolo, incapace di fare autocritica, di guardare al di là della penisola. “La fabbrica dell’obbedienza” propone però al lettore una domanda, una possibile soluzione al dilagante problema: concentrarsi solo su una parte del Paese e offrire al Sud, martoriato e spesso vittima di pregiudizi, un’occasione di riscatto, una sperimentazione per ritornare ad “un’economia virtuosa” e ad un modello di uomo etico del Rinascimento.
Un saggio denso, ben scritto, richissimo di spunti di riflessioni. Che ruota tutto attorno a una domanda: quanto ha inciso sul carattere degli italiani (o di buona parte degli italiani) il ruolo che, a partire dalla Controriforma, santa romana Chiesa ha avuto in campo sociale, politico, morale, etico, culturale, vale a dire in ogni aspetto della vita quotidiana del cittadino italiano? Le conclusioni a cui giunge Rea si possono o meno condividere, ma una cosa è certa: ogni riflessione è ben calibrata, contestualizzata, oltremodo argomentata; e, nonostante un certo grado di emotività riconosciuto dallo stesso scrittore, l’analisi è sempre lucida, ragionata, che induce alla curiosità e all'approfondimento. Un lettura che consiglio caldamente (sarà anche perché ne condivido a pieno le conclusioni).
Ermanno Rea non è uno storico; non è un politologo; non è uno storico delle dottrine politiche, e neanche della Chiesa. E' un giornalista, nato nel 1927, i cui libri generalmente sono inchieste su casi di rilievo, come quello della scomparsa di Federico Caffè o "La dismissione", su come sono state smantellate le acciaierie di Bagnoli.
Questa premessa per dire che i suoi limiti in quest'opera sono proporzionati al coraggio e alla passione dimostrati nell'affrontare un tema enorme e complesso. I limiti si vedono qua e là, ad esempio nell'introdurre il concetto di "democrazia bloccata" - notoriamente riferito alla cinquantennale esclusione del Pci, dopo gli accordi di Yalta, dal novero delle possibili forze di governo italiane, indipendentemente dal suo peso elettorale - all'interno di un’opera che parla dei danni fatti all’Italia dalla Controriforma, e in particolare in riferimento a un ragionamento di tutt'altro genere, ovvero la svendita della legalità in cambio del consenso nel Sud Italia.
Rea, però, non è un ingenuo. E neanche un anticlericale di positivistica memoria. Ha l'ardire di spaziare da una tesi all'altra e da un campo all'altro. I meriti, in questo saggio così ibrido e così poco specialistico, ci sono eccome. È un libro che approfondisce la falda inquinata del legame Stato-Chiesa in Italia nei suoi mille rivoli e rivoletti: - la storica, perdurante e vergognosa protezione dei poteri forti agrari del Sud e della malavita organizzata (non un solo mafioso è mai stato scomunicato, anzi, mentre gli anatemi si sono sprecati per divorzio, aborto etc.); - la persistenza nella cultura pubblica italiana del dannosissimo istituto della confessione, mutuato dalla Santa Inquisizione; - la distruzione della concezione libera, non necessariamente laica, ma spiritualmente libera, dell’uomo, che era stata la più grande invenzione del Rinascimento italiano; - il rilievo potenziale, e storicamente negato, del pensiero di uomini come Giordano Bruno, Campanella, l’hegeliano Bertrando Spaventa; - le conseguenze dell'Unità d'Italia per il sud, così negative da invogliare ad accogliere la tesi secessionista-sudista dell'economista Ruffolo; - Machiavelli, i machiavellici nascosti, i machiavellismi di oggi; ...e potrei continuare.
Ognuna di queste voci è una martellata pesantissima sulla storia del nostro Paese. In definitiva mi sentirei di raccomandare questo saggio vivacissimo ed estremamente stimolante non tanto ai laici, che troveranno nuovi spunti sì ma anche molte conferme alle loro idee, bensì - e non credo di essere provocatoria - ai cattolici italiani, affinché misurino la distanza tra il Cristianesimo delle origini e la Chiesa italiana, quella tra l'Italia e l'Europa, quella tra Rinascimento e Controriforma.
Con passione civile, nonché in un italiano stilisticamente splendido, l’intellettuale napoletano Ermanno Rea traccia un impietoso ritratto dei mali e dei difetti degli italiani, rintracciandone le ragioni in maniera compiutamente argomentata nel momento della controriforma, che segnò la fine del processo di maturazione e di impossessamento della consapevolezza che sotto ben altri auspici si era iniziato negli anni dell’Umanesimo e del Rinascimento. Nel segno della controriforma, infatti, gli italiani persero progressivamente l’attitudine a fare i conti con la propria coscienza, venendo deresponsabilizzati da Santa Madre Chiesa che sola poteva gestire le colpe e somministrare le assoluzioni. La conseguenza di ciò fu la nascita di un atteggiamento di autoindulgenza nel privato, di superficialità e di disinteresse nel pubblico – tanto, non esiste colpa che non possa venire perdonata – che fu all’origine prima della marginalizzazione dell’Italia nei grandi movimenti della storia europea, poi, in tempi più vicini a noi, dell’adesione acritica al fascismo e, ovviamente, al berlusconismo. Tutti i ragionamenti di Rea sono rigorosamente argomentati, facendo capo a vari filosofi del passato e alle loro voci lucide e spesso critiche, primo tra questi Bertrando Spaventa. L’autore fa spesso voti di umiltà, asserendo di non essere un filosofo né uno storico, e questo libro non sarebbe altro che un’accozzaglia di riflessioni buttate lì senza pensarci troppo. Non è vero; al contrario il libro ha un suo senso logico e il ragionamento fluisce in maniera lineare e razionale, toccando vari argomenti e vari eventi della storia o della contemporaneità per dimostrare una tesi che, tutto sommato, forse non ha nemmeno bisogno di troppe dimostrazioni. E, come dicevo, lo fa anche fraseggiando in un italiano bello e stilisticamente curato, al quale purtroppo i tempi odierni ci hanno disabituati (Rea ha più di ottant’anni, cerebralmente portati benissimo, direi). Certe pagine, poi, come l’invettiva immaginaria che un prelato rivolgerebbe al pittore Caravaggio redarguendolo per gli aspetti di “critica sociale” presenti nelle sue opere, sono perfino letterarie. La conclusione, amarissima, è la stessa a cui ero arrivato dopo aver letto “I segreti del Vaticano” di Augias. Difficile prevedere un momento in cui la comoda delega della propria coscienza possa avere una fine, e gli italiani possano definitivamente diventare padroni di sé stessi e delle proprie scelte.
Un libro che per certi Italiani si legge (e si deve leggere) come l'ossigeno che manca in un'aria ormai miasmatica e insopportabile. Eredi e prigionieri della Controriforma e di una Chiesa ipocrita e soffocante, alla quale ancora oggi dobbiamo rendere conto.