Un’architettura che genera mutazioni nel comportamento umano, funzionali a rendere l’individuo felice. Questo è il progetto Bioma, teorizzato da Marta Fiani. A Tundra, la città-bioma perfetta, Diana vive nell’appartamento che fu della figlia di Marta, Lea. Diana, indagando tra le memorie di Lea – foto, lettere, quaderni – porterà alla luce il vissuto di Marta e di sua figlia, i ricordi, le aspirazioni e, soprattutto, il modo in cui il «modello Tundra» ha mutato le relazioni tra persone e la loro percezione del tempo – ma anche l’occasione per rispondere alla cruciale domanda: chi sono io?
Un dramma futuribile al tempo stesso delicato e tagliente che rievoca le atmosfere di Don DeLillo e Solaris.
“Mi ripeteva che c'era un certo tipo di felicità che invidiava agli animali. E stava nella sicurezza con cui sapevano cosa fare, quando e in che modo. Non c'erano deviazioni. Non c'era indecisione. Via il libero arbitrio, dannazione della specie” (pagina 76).
“La felicità sta nel non esitare. Sei così adatto che non hai dubbi. Una sola unica direzione. Un circuito funzionale. Se diventassimo specializzati sapremmo cosa fare senza esitare. Ci sarebbe un numero di azioni precise. E di abilità differenti a seconda delle funzioni. Nessuna esitazione. Nessuna esitazione. E il libero arbitrio? Non rende felici” (pagine 85-86).
“Hai mai pensato che non ci sono panchine? O muretti? Non sono molto utili, credo. Ma tu cammini mai per il solo gusto di camminare o sai sempre dove andare?” (pagina 94).
A Diana viene assegnato un periodo da vivere (o da scontare?) nell'Altrove, e l'Altrove per Diana è Tundra, città-bioma progettata dall'architetta-filosofa Marta Fiani. Questa città, che si sviluppa su un'unica, lunghissima strada, è stata pensata e costruita sin nei suoi minimi dettagli per esercitare un certo tipo di influenza sugli esseri umani, influenza tesa a rendere ciascun abitante un piccolo meccanismo di un perfetto ingranaggio, una cellula di un grande organismo vivente. Il sogno di Marta Fiani, ossessionata dal peso del libero arbitrio, è quello di rendere le persone felici attraverso l'architettura, ma di una felicità negativa, intesa come assenza di preoccupazioni, di affanni e di angosce – una felicità animalesca. L'urbanistica e l'architettura a Tundra sono studiate per annientare l'individuo, per controllare le coscienze, per modificare le relazioni umane, per manipolare la percezione del tempo e dello spazio, per organizzare la società, per uniformare i comportamenti umani, rendendoli prevedibili ed eliminando l'errore individuale e l'imprevisto. Tutto a Tundra è pensato per non distrarre i suoi abitanti, per non far perdere tempo in azioni inutili, per non far esitare, per evitare di dover pensare, riflettere, decidere. Perché la causa dell’infelicità, per Marta Fiani, è proprio il libero arbitrio. Essere felici, dunque, consiste nel non dover scegliere e concentrarsi sulla mansione per cui si è specializzati. L'obiettivo è una popolazione priva di incertezze e di esitazioni, e le case e le città in cui essa si muove sono funzionali a tale obiettivo: impulsi e bisogni vengono immediatamente soddisfatti, con massima praticità ed efficienza, e non c'è tempo per per ricordare il passato o per pensare al futuro. Nessuna memoria, nessuna preoccupazione: solo il presente conta.
Come gli spazi esterni, anche quelli interni delle singole abitazioni vengono approfonditamente studiati per ottenere efficacemente il controllo e la disciplina dei cittadini di Tundra, per eliminare l'imprevisto: gli appartamenti, essendo periodicamente riassegnati a diversi individui, devono essere impersonali, anonimi, di una fredda, algida neutralità, di una squallida, asettica monotonia: devono anestetizzare i loro inquilini, controllarne il comportamento e renderli prevedibili. Solo eliminando i sentimenti più intensi, incanalando le emozioni in un sistema codificato, tenendo a bada la memoria ed il pensiero, si può ottenere l'efficienza e il controllo della popolazione. In un ambiente del genere, non stupisce che le persone siano alienate a tal punto da vedere nei propri simili dei meri oggetti, semplici merci da cui trarre un qualche tipo di piacere o di utilità personale, automi disinteressati a creare tra loro un qualche tipo di legame.
Diana, che qui è la voce narrante, scopre che nell'appartamento a lei assegnato la precedente inquilina ha infranto la legge che vieta di lasciare nelle case qualsiasi effetto personale. Ad abitare in questa casa è stata Lea Fiani, la figlia di Marta, che ha riempito tutte le stanze, come fossero indizi, di lettere, foto, video, pagine di diario, mappe, quaderni, libri, documenti e scritti di architettura esoterica della madre. Sembra che Lea, una delle poche persone, nonostante i suoi comportamenti discutibili, ancora in grado di provare forti passioni e di coltivare sentimenti per i suoi simili, in una società in cui è vietato innamorarsi, provare affetti, avere sogni e desideri, coltivare la memoria e tramandare storie, insomma, esistere pienamente, abbia sentito il bisogno di ribellarsi, raccontando la sua vita, anche ad un individuo sconosciuto, attraverso un percorso narrativo eventualmente interpretabile, non necessariamente in grado di fare chiarezza, ma capace perlomeno di lasciare il segno in un interlocutore, di evitare che la sua persona possa ridursi ad un semplice ammasso di dati, numeri, statistiche, per poi cadere successivamente nell'oblio.
Non esistono fatti in questa storia: tutto viene interpretato da Diana, tra gli sforzi di ricostruire la storia di Lea – e di riflesso, quella della madre Marta, la cui visione è antitetica rispetto a quella della figlia ribelle – e le sofferenze che la conoscenza della vicenda le arreca, ma è proprio questa difficoltà, questo conflitto interiore, questa fatica mentale nel voler raggiungere la verità che legherà in modo viscerale le due donne, che sembreranno diventare una sola persona. Diana entrerà nella vita di Lea, si immedesimerà in lei, tentando di riviverla e di comprenderla, ma attraverso la ricostruzione della sua storia capirà anche molte cose di se stessa.
Diana, la cui voce narrante oscilla tra sogno e realtà, tra la propria identità e quella di Lea, ricostruisce la vita della donna sulla base degli indizi lasciati, se la immagina, ne ripercorre le tappe, dialoga con lei intellettualmente ed emotivamente, per formarsi una nuova coscienza politica e sentimentale, necessaria a diventare padrona consapevole dei propri desideri e della propria vita. Il dialogo con Lea è in gran parte scritto in seconda persona, perché Diana si rivolge direttamente alla Lea ricreata nella propria mente. Lea non accetta la passività ideata dalla madre, non si vuole sottrarre ai dubbi né rinunciare al libero arbitrio. A differenza della madre, Lea si lascia guidare dalle proprie emozioni, cerca di esistere sfuggendo allo squallore e all'oblio, non vuole ridursi a semplice “evento”. Diana sembra raccogliere il testimone lasciato da Lea: conosce gli uomini da lei frequentati e si accorge di vivere in una società in cui l'individuo non è libero, in cui le sue emozioni sono appiattite, in una realtà in cui non si costruiscono relazioni, ma si soddisfano funzioni biologiche. Il sesso è ridotto a semplice pulsione, a pratica priva di emozioni, a servizio da svolgersi sbrigativamente.
Peculiare è la gestione del paratesto: molte note a piè di pagina riportano i riferimenti bibliografici alle opere scritte da Marta Fiani ed edite, senza luogo e senza data, dalla Guida, un ente impersonale che rappresenta lo Stato; altre note spiegano ed approfondiscono caratteristiche e funzionamento delle varie istituzioni di Tundra. Nel testo sono poi disseminati estratti degli scritti di Marta Fiani. Diversi capitoli, inoltre, sono introdotti dalle piante delle case dei personaggi principali e dagli schizzi di Tundra, disegnati sempre da Marta Fiani. Infine, troviamo una bibliografia, in cui le opere fittizie di Marta Fiani si mescolano a quelle vere di Gehlen e di Kawabata Yasunari, in un’affascinante connubio tra realtà e finzione che, se da una parte provoca straniamento, dall'altra immerge ancor di più il lettore nella vicenda.
Configurazione Tundra è un romanzo inquietante ma anche giocoso, dove a partecipare sembra sia il lettore, che ha ruolo attivo nella ricostruzione e nell'interpretazione della storia, ma anche la stessa autrice, che si diverte inserendo una moltitudine di suggerimenti e suggestioni, indizi sotterranei e tracce nascoste, nel testo come negli elementi paratestuali: ad esempio, i capitoli sono intitolati a nomi di animali della tundra – Lupo, Lemming, Simulide, Volpe artica – apparentemente slegati da tutta la storia, ma che potrebbero anche essere visti come corrispettivi dei caratteri umani che si incontrano nel procedere della narrazione. Un animale, tra l'altro, compare già in copertina: l'uroboro, che è anche un simbolo carico di rimandi esoterici, religiosi, filosofici, psicologici. In effetti, in Configurazione Tundra sembra esserci un parallelismo costante tra gli uomini e gli animali, in particolare gli insetti: entrambi privi di emozioni, incapaci di comunicare (come insegna Orwell in 1984, anche qui il ruolo del linguaggio è centrale nel controllo dell'individuo), in relazione tra i propri simili solo per dare ordini, usare, sfruttare, sopraffare, consumare.
Colpisce molto il primo romanzo breve di Elena Giorgiana Mirabelli: per la precisione di un linguaggio ipnotico, chirurgico ed essenziale, dove ogni parola è calibrata alla perfezione; per la moltitudine, più o meno esplicita, di citazioni e riferimenti culturali (letterari, filosofici, artistici, cinematografici), da Gurdjeff a Lynch; per l'originalità della storia, nonostante la scelta di un genere (quello distopico) e di alcuni elementi narrativi (come quello perturbante del new weird) oggi fortemente inflazionati; per la narrazione minimale, che lascia molto spazio al non detto e allo sforzo interpretativo del lettore, che ha parte attiva nella costruzione della storia; per l'ambientazione di una società futuribile e altamente realistica nei suoi aspetti più aberranti e distopici; per la fascinazione, che è anche inquietudine, esoterica, misteriosa e vagamente iniziatica delle dottrine su cui si regge tale società; per i personaggi problematici e controversi, ma anche umani nel loro tentativo di insubordinazione, di ribellione, di risveglio delle coscienze e di dissidenza; per l'empatia e le relazioni rivelatrici tra gli esseri umani che, nonostante le imposizioni, emergono e ne rivelano le caratteristiche di individui estremamente sfaccettati e conflittuali; per l'atmosfera fortemente onirica, straniante e disturbante, di un razionalismo grottesco, spinto fino alle più estreme e disumane conseguenze.
Una scrittura già matura e complessa fin dal suo esordio, una storia originale e magnetica, che incanta per la sua musicalità e scatena una moltitudine di riflessioni filosofiche – dai temi linguistici a quelli psicologici, politici, sociali ed etici. In futuro, sarò molto curioso di leggere altre opere di questa interessantissima scrittrice.
Questo è un romanzo di segni che celano altri segni. È il romanzo del linguaggio come catalizzatore per scoprire nuove parti di sé. È, of course, un distopico, in cui predomina incontrollata l'ossessione di sottomettere ogni cosa a un certo tipo di gestione dello spazio, di fatto eliminando ogni forma d'imprevedibilità e controllando anche le singole emozioni, la crescita di ognuno attraverso grafi e statistiche. Ma c'è chi tenta, nel suo piccolo, di sovvertire tutto ciò, di lasciare tracce in un mondo, quello di Tundra, in cui ogni cosa dev'essere esattamente ciò che è, di un dato colore e una data forma, i quali devono comunicare una data emozione. Eppure Lea - figlia di colei che ha ideato tutto questo, Marta Fiani, che credo sia il personaggio più antipatico di tutto il romanzo, a tratti addirittura stucchevole - e Diana ci provano, a staccarsi da quella linea retta, a scomparire, ad evitare di lasciare i segni prestabiliti e a crearne di altri (non so perché, ma tutta questa storia di segni, linguaggio, interpretazione, mi fa venire in mente il maeatro Eco); a tratti le due si sovrappongono, sembrano quasi sorelle, o la stessa persona, o due fasi di un ciclo che è destinato a ripetersi e consumarsi in quella casa che, come sostiene l'autrice, è una scatola a cui l'animale sociale dà un significato. A dire la verità, a tratti non sopporto neanche Lea, poiché certi aspetti della sua personalità vengono esasperati, a mio parere, fin troppo, rendendola un po' odiosa e stereotipata. Nel complesso, le parti narrative funzionano benissimo, quelle riflessive, introspettive, invece, le ho trovate a volte troppo ellittiche, astratte: è vero che il lettore deve capire da sé, ma certe pagine ho dovuto rileggerle tre o quattro volte per capirci poco... Inoltre, credo che Tundra stessa, come personaggio, come luogo (o non luogo) fisico meritasse un maggiore approfondimento, invece della focalizzazione quasi esclusiva sull'io dei vari personaggi, che pure è fondamentale, naturalmente, per comprenderne l'evoluzione. Sarebbe stato bello saperne di più. Ben vengano, comunque, romanzi del genere, che provocano il lettore, gli fanno porre domande, cercano di spiegare il reale sttraverso la sua irrazionalità, specie in un periodo storico in cui prevalgono noiosa semplificazione e asettica sintesi.
Sono contenta che mi ci sono sempre più libri come così: strani, complessi, belli davvero. L'Altrove in CT non è più una soglia soprannaturale, un luogo mitico, ma una residenza fisica, un luogo dove riprendere possesso di sé, e questo secondo me dice già tutto quanto. È l'ambiente che crea e modella i cittadini perfetti che sono del tutto annullati. Ma non come in una semplice distopia; qui il perfezionamento è ricercato totalmente, l'ambiente, le città-bioma, come l'uomo sono una lunga linea retta priva di deviazioni e quindi di scelte. La filosofia, la meditazione, il linguaggio, tutto è adattato a interrompere un'evoluzione.
(Poi, io ormai ci penso costantemente a Evangelion ma qui secondo me ce n'è un bel po'.)
"Configurazione Tundra" di Elena Giorgiana Mirabelli (Tunué) è un romanzo distopico. Poi è un manuale di sopravvivenza, infine un trattato di urbanistica sul disegno e il progetto delle città ideali. Per Le Corbusier, uno dei più grandi e influenti architetti dell'ultimo secolo, il protagonista assoluto della progettazione è l'uomo, che diviene in qualche modo modulo e unità di misura; non è l'uomo che deve adeguarsi all'architettura e all'ambiente, non è l'uomo a doversi inserire in uno spazio. Eppure la stessa valenza scientifica si potrebbe dare alla teoria contraria: l'architettura, così come l'impianto di una città, influenzano moltissimo l'attività umana, dunque il modo in cui l'uomo si sposta e vive la città, dunque i suoi sentimenti primari legati alla percezione positiva o negativa, dunque la sua felicità o infelicità. In "Configurazione Tundra", l'architetto Marta Fiani, attraverso il progetto delle città-bioma, persegue l'obiettivo impossibile di costruirne una che, attraverso la forma, la funzione e la percezione, muta il comportamento umano con l'obiettivo puro di renderlo felice. Il risultato è una città lineare, che si muove su una retta infinita; ordinata perché "l'ordine permette di non girare a vuoto" e con un confine invisibile perché il confine segnato "avrebbe generato ansia".
"Gli abitanti di Tundra dovevano percepire estensione, ampiezza, orizzonti lontani. Convinti di poter andare ovunque e certi di non volersi allontanare troppo."
Le città ideali sono un tema caro all'urbanistica, quella descritta in Configurazione Tundra è simile a "La ciudad lineal" pensata dall'ingegnere spagnolo Arturo Soria y Mata, che al classico modello con sviluppo concentrico, contrappone lo sviluppo in orizzontale, lungo un'arteria unica. Soria y Mata tentò varie volte di tradurre nella realtà quanto da lui immaginato, e ci andò anche molto vicino, ma una retta infinita, per quanto elegante e attraente per la sua coerenza formale, presenta certamente dei limiti. Primo fra tutti l'impossibilità di comunicazione tra punti molto lontani appartenenti alla stessa retta, da cui scaturisce lo svantaggio di non avere alcun vero centro e di essere caratterizzata da una grande monotonia dovuta alla replicabilità necessaria della città nella città.
Parallela alla condizione collettiva però, esiste quella individuale, che potremmo riferire al luogo casa: "Le case sono grandi organismi a forma di scatola. Le persone, animali che le scelgono e reagiscono." E che si riassume, infine, nell'attitudine suprema, ossia la ricerca della propria identità, costruita anche e soprattutto sulla memoria di ciò che siamo. È quello che capita alla protagonista del romanzo, Diana, che si ritrova a vivere immersa nei ricordi lasciati da Lea, la figlia di Marta Fiani, per la quale però, il concetto di "felicità costruita", così caro alla madre, diventa inafferrabile e pericoloso. Lea, a dispetto delle regole, nasconde nella sua vecchia casa, che viene assegnata a Diana, tracce. Ritagli, fotografie, album, scritti. A Diana spetta l'arduo compito di rimettere insieme i pezzi, in quella che è di certo una ricostruzione dell'io. Compito arduo che spetta a ognuno di noi, prima o poi.
La scrittura di Elena seduce, in certi punti ferisce, perché infila le mani in quei solchi profondissimi che abbiamo, tutti. In altri odora di disinfettante e ordine. Di piscio. Borotalco. E ancora, disinfettante. Un libro che è una città, in cui quindi può capitare di perderti o ritrovarti; un libro che puoi amare oppure no, come accade sempre con le cose immense. Ma che comunque è necessario leggere, specie in questo periodo storico, per il semplice fatto che nel dopo ti ritrovi con le domande giuste, immaginando un "Altrove" diverso, non replicabile.
"Tundra è una lunga linea retta, e noi la percorriamo all'infinito."
Questo libro avrebbe dovuto riempire i miei momenti liberi in queste settimane di quarantena. Pessima scelta. Un libro che non ho capito, una scrittura che non rientra nelle mie corde. Leggo: “Il mio rapporto con il tempo è mutato, non riesco a situarmi con precisione in luoghi, non riesco a vedermi chiaramente nell’occasione in cui qualcuno mi ha spiegato la differenza fra le ragioni e le cause” e non capisco. Pessima scelta ma può capitare.
"Ti farò seguire la linea e non avrai più momenti di vuoto. La sosta ti devia e tu non dovrai più farlo. Se ti fermi provi dolore. Sogno un uomo senza dolore, capace di seguire la direzione del proprio spazio, del proprio cuore, senza nessun tipo di ticchettio a scandirlo. Voglio che tu sia felice. Ti permetterò di sottrarti alla schiavitù del Tempo."
A Tundra ogni persona viene assegnata a una casa per un tempo prestabilito. Diana viene assegnata alla casa che fu di Lea Fiani, figlia della rivoluzionaria architetta Marta Fiani. Lea ha anche lei fatto qualcosa di rivoluzionario: lascia degli oggetti nella casa e non oggetti qualunque; i suoi diari, la sua testimonianza di esistenza. Diana cerca così di ricostruire la storia di Lea, incrociando le scie delle persone che l'hanno conosciuta.
Quando ho finito di leggere "Configurazione Tundra" mi sono sentita profondamente disorientata. Ho chiuso il libro e ho guardato attentamente l'uroboro in copertina; così, ho deciso di rileggere alcune pagine e ho trovato ciò che stavo cercando: gli indizi disseminati in tutte le pagine che solo alla fine riesci a sommare a trasformare in una storia. Sebbene sia un libro breve (106 pagine) è estremamente denso di riflessioni filosofiche: che cos'è la felicità? Siamo infelici perché esiste il libero arbitrio? Che cosa significa esistere? Quale rapporto esiste tra l'Io e l'ambiente che occupa? Quale il suo rapporto col Mondo?
La distopia di Configurazione Tundra è particolare, esoterica, misteriosa che mi ha fatto pensare a "L'isola dei senza memoria" per ambientazione e colori e a Dark per la complessità dei concetti di Spazio e Tempo utilizzati, che in questo caso sono due entità volutamente separate. Un romanzo d'esordio originale. Spero vivamente di leggere altre opere di questa autrice.
strano e affascinante. in una Utopia contemporanea, una giovane donna segue le tracce di un'altra vita, di una possibilità di diserzione, per costruirne una propria.