Da un po' di tempo si è diffusa l'idea che la letteratura debba promuovere il bene, guarire le persone e riparare il mondo. Breviari e "farmacie letterarie" promettono di confortarci e di insegnarci a vivere, i romanzi raccontano storie impegnate a fare giustizia, confermando chi scrive (e chi legge) nella convinzione di trovarsi dalla parte giusta. Ma la letteratura è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato: più si tenta di piegarla al proprio volere, e usarla per "veicolare un messaggio", più lei ci sfugge e porta in superficie ciò che nemmeno l'autore sapeva di sapere. Sostiene il Bene se il Potere lo reprime, ma quando il Potere si nasconde dietro stereo-tipi di buona volontà lei non ha paura di far parlare il Male, di affermare una cosa e contemporaneamente negarla, di mostrarci colpevoli innocenti e innocenti colpevoli. In questo pamphlet militante e preoccupato Walter Siti analizza alcuni autori e testi contemporanei di successo per difendere la letteratura dal rischio di abdicare a ciò che la rende più preziosa: il dubbio, l'ambivalenza, la contraddizione. Non senza il sospetto che l'impegno "positivo" sia soltanto la faccia politicamente in luce di una mutazione profonda e ignota, in cui tecnologia e mercato imporranno alla letteratura nuovi parametri.
Contro la preoccupazione pedagogica verso il lettore (che viene considerato come un bambino da educare). Contro la scrittura edificante e quindi semplificata. (“Il neo impegno diffida della sintassi troppo elaborata e di un’eccessiva cura formale”). Contro la letteratura che si prefigge di intervenire sulla realtà. Perché scrivere, invece, è “la passione di esporsi a un trauma.”
Ma che cos’è allora la scrittura “impegnata”? Se proprio vogliamo salvarne l’originalità e il senso dobbiamo tornare a Sartre, per il quale “l’engagement letterario era sostanzialmente una scuola di libertà, intendendo per libertà il rovesciamento continuo dell’ordine.”
Siti crede (come Kundera) “che la letteratura sia un modo di conoscere la realtà non surrogabile da altri tipi di conoscenza.” Inoltre: “ L’arte è un bastian contrario che spira sempre dal lato sbagliato; è ambivalente, dà ragione a chi ha torto e torto a chi ha ragione; per questo è più longeva della politica e della cronaca a cui pure si ispira.” Ma: “se il criterio per giudicare la letteratura è il bene che fa, allora che cosa può importare se sia bella o brutta letteratura?“
In sei capitoli (tra cui uno, acutissimo, dedicato ai talk show) l’autore spiega le sue ragioni e porta esempi concreti alla sua teoria (citando Saviano, Carofiglio, Murgia e molti altri ); nel settimo puntualizza (sempre esemplificando) quali dovrebbero essere secondo lui i capisaldi di una letteratura autentica, ossia fedele alle sue peculiarità conoscitive uniche e irriducibili: 1. l’onestà intellettuale ed emotiva che non cede agli stereotipi; 2. la stratificazione dialettica del testo che apre il discorso al dubbio; 3. lasciarsi “dettare” da quel discorso interiore che è Parola ancora non posseduta, “farsi concavi” per accogliere il non ancora conosciuto.
Dante diceva che un “dittatore” gli “ditta dentro” e Calvino, commentando un verso del Sommo poeta (“poi piovve dentro a l’alta fantasia”), sottolineava che “la fantasia è un posto dove ci piove dentro”.
Ma per ascoltare, per “essere parlati” dal linguaggio è necessario un silenzio che forse oggi è irrimediabilmente perduto.
Un libro di spunti brillanti e schiette riflessioni, sulle quali si può discutere o anche essere in disaccordo, ma che di certo non possono lasciare indifferenti.
Parliamo un po' di Albert Camus. Figlio di colonizzatori francesi in Algeria, si fece portavoce delle istanze indipendentiste dei colonizzati. Allo stesso tempo condannava il terrorismo, preferendogli la mediazione diplomatica, così come criticava lo stereotipo del "colonizzatore bianco, ricchissimo e privilegiato che fuma il sigaro e mangia dalla mattina alla sera". Odiato dai conservatori francesi (che non volevano mollare la colonia), mai veramente amato dagli algerini (che continuavano a vederlo come un 'bianco colonizzatore'), Camus era tenuto d'occhio da entrambi - e chissà che in quell'incidente automobilistico, che stroncò la sua vita a 46 anni, non c'entrassero i servizi segreti della Francia o le cellule terroristiche dell'Algeria, o addirittura (come alcuni speculano) il KGB, visto che negli ultimi anni aveva cominciato a prendersela con la Russia... A leggere la sua biografia, si capisce il perché Camus venga considerato un prototipo del ecrivain éngangé ("scrittore impegnato"). A leggere le sue opere, però, le cose diventano un po' meno nitide. Camus non ha mai scritto pamphlet o manifesti, rivolgendosi al popolo algerino o al popolo francese. Nei suoi romanzi, racconti, opere teatrali e saggi, Camus scandaglia gli abissi dell'animo umano. Il problema più grande affrontato nelle sue opere? Non la politica, i partiti, i governi, le elezioni, bensì il suicidio, che è un problema prima di tutto filosofico, il più importante di tutti a suo avviso. Altri problemi sono il (non)senso della vita e l'assurdo, l'anarchismo filosofico, l'umanesimo. Se da un lato Camus in quanto uomo e citoyen si era sempre contraddistinto per il suo impegno sociale e politico, il Camus scrittore si esprime per metafore e simboli. In altre parole, il modo che ha Camus per essere uno 'scrittore impegnato' è quello di impegnarsi a esaminare problemi esistenziali fondamentali che vanno ben al di là delle contingenze e dei punti all'ordine del giorno.
Esiste ancora questo tipo di impegno, in letteratura? Secondo Walter Siti, no. Esiste piuttosto quello che lui definisce neo-impegno. Il primo tipo di impegno è quello che in francese viene descritto dal termine engagement (leggi 'angashmã') ed è quello, per intenderci, di Camus, Sartre, eccetera. Il termine è stato poi importato nella lingua inglese e, oltre al significato originario, ne ha acquisito altri. Infatti, l'inglese engagement (leggi 'engheidgment') si riferisce non solo all''impegno' (sociale e morale), ma anche all'intrattenimento: in inglese, qualcosa è 'engaging' se ti prende, se 'ti acchiappa'. La differenza fra scrittori impegnati e scrittori neo-impegnati, dunque, è una differenza nel rapporto 'dativo' con il lettore. C'è poco da fare i romantici o i tormentati: che sia 'empirico', 'ideale' o addirittura 'eterno', l'atto della scrittura presuppone sempre l'esistenza di un 'lettore'. Scrivendo si stabilisce (o si spera di stabilire) una relazione fra lo scrittore e il lettore. Nel caso degli scrittori impegnati, ciò che la loro scrittura da ai lettori è il frutto di investigazioni letterarie, estetiche, filosofiche: nessuna facile risposta, più domande di prima, la messa in discussione di tutto e persino di sé stessi (esemplare, appunto, il caso di Camus, il quale metteva in discussione sia la retorica dei colonizzatori che quella dei colonizzati, richiamava le vittime alle loro responsabilità, soprattutto non pensava che una vittima debba essere necessariamente 'buona e innocente' e un carnefice necessariamente 'cattivo': la condizione umana è mille volte più complicata di così). Non è detto che ciò che gli scrittori impegnati danno ai lettori sia sempre cosa gradita (anzi!). Gli scrittori neo-impegnati, invece, danno ai lettori proprio quello che i lettori vogliono: risposte facili a domande ovvie, un mondo manicheo dove i 'buoni' stanno tutti da una parte e i 'cattivi' tutti da un'altra (i lettori, ovviamente, stanno sempre dalla parte dei 'buoni', perché così gli dicono gli scrittori neo-impegnati), l'idea che gli uni (cioè i buoni, quindi anche i lettori) trionferanno sugli altri (cioè, tutti gli altri). In questo modo, i lettori 'si immedesimano' e 'si riconoscono' nelle storie raccontate: che sono, appunto, storie 'engaging' ma non 'engaged' nel senso etico del termine.
Quali sono le caratteristiche della letteratura del neo-impegno? Innanzi tutto, gli scrittori neo-impegnati scrivono rivolgendosi a chi è già d'accordo con loro (in altri ambiti si chiamerebbe 'ricerca del consenso', in editoria forse si chiama 'marketing', in letteratura è solo 'paraculaggine'). Piuttosto che far riflettere, la letteratura neo-impegnata deve consolare: ecco allora la solita cascata di buoni sentimenti, magari parlando di 'vita vera', ed è subito un tripudio di autofiction in cui c'è sempre meno 'fiction' e sempre più 'auto', che è tanto più emozionante ed 'engaging' quanto più è tragica. Siti accenna alla primavera di autopatografie, ovvero di autofiction che raccontano di lunghe e tormentate malattie, perché il racconto della malattia, si sa, è 'edificante'. Abbiamo così l'autore finito in manicomio che scrive il romanzo di lui che finisce in manicomio, oppure l'autore che ha una determinata malattia che scrive il romanzo di lui che ha quella malattia, e il perché e il percome di tutti i suoi malasseri. Un esempio che a tal proposito Siti non fa, ma che avrebbe potuto benissimo fare, è Febbre, di Jonathan Bazzi, di cui ho detto tutto il male possibile in una mia vecchia recensione (del libro, non di Bazzi, ovviamente! https://www.goodreads.com/review/show...). Il libro, in cui si parla della sieropositività dell'autore, è stato però apprezzato da moltissimi lettori. Ma hanno apprezzato veramente il libro in quanto tale (e per come è scritto), oppure solo il suo autore e la sua storia? Difficile capirlo e difficile persino criticare un simile libro, visto che poi uno ci fa pure la parte dell'insensibile che "se la prende con un povero malato che ha avuto il coraggio di raccontare la sua storia". Soprattutto, dal momento in cui la cosa più importante è la 'morale della storia', la letteratura del neo-impegno è caratterizzata da uno stile minimalista, scarno, diciamo pure stitico. Parole comuni, banali e poche per esprimere idee che sono comuni, banali e poche. Altro che Maupassant, Zola, Camus e Sartre!
È un vero peccato che Contro l'impegno venga pubblicizzato come "il libro in cui Walter Siti se la prende con Roberto Saviano, Michela Murgia e Gianrico Carofiglio". Da lì a pensare che "questo è il libro in cui quel boomer di Siti se la prende con lo spauracchio della minaccia del politically correct che in realtà è solo una bufala messa in giro dai Trumpisti per convincerti che la sinistra comunista vuole metterci il bavaglio", ahimé, è un attimo. Ma, ovviamente, le idee di Siti sono molte, sono meno banali di come appaiono a chi crede di averle capite e meritano riflessione.
Tanto per cominciare, Siti non parla solo di Saviano, Murgia e Carofiglio, ma se la prende anche con gli scrittori di destra: da Giampaolo Pansa, ai testi più viscerali (e irrazionali) della Fallaci, a Pierangelo Buttafuoco. Il motivo per cui è più facile criticare gli 'intellettuali di sinistra' (qualunque cosa significhi), o i cosiddetti 'radical chic' (qualunque cosa significhi) è che, semplicemente, sono di più rispetto agli scrittori di destra. E lo sono non perché c'è un complotto della sinistra che impedisce agli scrittori di destra di scrivere e di pubblicare, ma perché è la destra stessa a dire che gli intellettuali sono inutili e che con la cultura non si mangia. Ma a parte le quantità, la qualità rimane la stessa, sia quando parliamo di 'scrittori di destra' che di quelli 'di sinistra': dal momento in cui si scrive per (per un certo pubblico, per difendere una certa idea o ideologia, eccetera) si è già nel territorio del neo-impegno e ben lontani da quella che per Siti è la vera letteratura.
Inoltre, sono molteplici i fattori che hanno portato alla letteratura del neo-impegno. Non è solo una questione di marketing e di case editrici che pubblicano solo libri che 'fanno cassa'. Per Siti, una delle radici del problema è la critica letteraria. Sempre più assediate ed emarginate dai successi empirici delle scienze naturali e dalle innovazioni tecnologiche (opportunamente marketizzate dal sistema capitalistico), le discipline umanistiche, che già di loro hanno sempre un po' sofferto dell'invidia del pene tecnoscientifico, hanno deciso di fare il salto e, appunto, 'scientificizzarsi'. La critica letteraria ha seguito il trend e si è scientificizzata diventando 'biocritica' e 'critica evoluzionistica'. La letteratura non è più studiata nelle sue strutture formali, ogni ambizione ermeneutica è stata abbandonata. Adesso la letteratura è semplicemente un fenomeno umano e come tale va studiato attraverso le nostre migliori teorie scientifiche in ambito antropologico, neurobiologico ed evoluzionista. I nuovi critici ci spiegano che le storie che resistono nel tempo sono quelle in grado di superare una pressione selezione, le strutture narrative si evolvono come i tratti delle specie animali e, in fondo, se le storie sono rimaste con noi per tutti questi millenni significa che anche loro una qualche funzione adattiva ce l'avranno. Che funzione? Presto detto: le storie ci fanno stare bene, quindi noi ci siamo evoluti anche grazie a esse. Il fatto è che non solo questi approcci 'biologizzanti' spesso non fanno altro che produrre un lessico specialistico pseudo-scientifico, decisamente astruso e praticamente incomprensibile, col quale si (ri)descrive l'ovvio ma non si spiega mai nulla, ma ça va sans dire che in una prospettiva in cui contano solo le 'storie', ma non come vengono raccontate, ogni riferimento allo stile diventa non necessario. Peccato, però, che proprio lo stile discrimini un autore dall'altro, la letteratura dalle barzellette raccontate in osteria...
L'unica pecca di questo libro è che i vari capitoli sono in realtà saggi e articoli che Siti aveva già pubblicato in riviste e giornali. Data la natura frammentaria del libro, l'argomentazione non è sempre facilmente discernibile: deve essere cercata fra i capitoli e le righe, a volte doverosamente ricostruita. Per esempio, l'ultimo capitolo fa un'analisi di alcuni programmi televisivi, concentrandosi sulle tribune politiche. Le osservazioni di Siti sono deliziose e tranchant, ma cosa c'entrano i programmi di La7 con la letteratura del neo-impegno? Forse nulla, o forse qualcosa c'entrano. Con il neo-impegno, la letteratura si è fatta sempre più 'polarizzata', proprio come certe discussioni politiche (slogan facili, mentalità tipo "o con noi, o contro di noi", eccetera). Per un perverso meccanismo di 'contagio' (per usare un'immagine cara a Siti) la politica si è 'narrativizzata': ci sono le grandi battaglie epiche, i buoni, i cattivi, gli intrighi, i tradimenti, i vari personaggi. In definitiva, sembra dirci Siti, la letteratura è lo specchio del mondo che è diventato lo specchio della letteratura: siamo tutti personaggi abbandonati a una trama banale e ripetitiva, e siamo tutti senza stile. Forse bisognerà cambiare l'una cosa per cominciare a sistemare anche l'altra?
Nonostante il carattere frammentario e disomogeneo (in particolare l'ultimo capitolo dedicato al trash pop televisivo), questo testo merita grande attenzione e soprattutto un sentito ringraziamento a Siti per aver posto una questione centrale per la letteratura ed il suo futuro (sempre che esista). Sì, perche Siti ha ragione da vendere nello stigmatizzare la deriva semplificatoria, massificata e banalizzante che l'arte di scrivere sembra aver preso. la consegna generalizzata di rivolgersi al maggior numero, semplificando ed esteriorizzando i testi .
E' questo che sta rovinando il libro, la richiesta per uno scrittore di essere "leggibile", "fruibile", "per tutti" - la forma viene sacrificata sull'altare del "messaggio" semplice e codificato, scontato e banale, quello che Siti chiama "Bene", ma che forse è più "Luogo Comune" che va bene per tutti. Ci si potrebbe anche fare qualche domanda sul carattere reazionario e conservatore di tale concetto di letteratura: una scrittura semplice come strumento per veicolari messaggi antielitari comprensibili a tutti, come una specie di populismo letterario?
Validissima l'analisi sui pericoli della confusione tra giornalismo e letteratura, il famigerato storytelling che sta facendo davvero disastri terribili - io sono convinto che il diffondersi incontrollato e pervicace delle fake news sia anche dovuto a questo mescolamento innaturale tra la descrizione dei fatti reali e la narrazione di una storia. Quando ci si preoccupa della "storia da raccontare" e si piegano e manipolano i fatti per questo obiettivo, lentamente passa l'idea che la realtà non è più unica e solida, ma confusa ed interpretabile.
Ottimo testo, quindi, questo di Siti che dovrebbe porre a tutti qualche domanda e spingere i lettori a cercare libri difficili, complessi, non scontati e edificanti.
Bazzicando le librerie e interessandomi di letteratura è un nome che è saltato fuori molte volte, sapevo che aveva un po' la fama di scrittore scomodo, ma per il resto non sapevo nient'altro di lui prima di imbattermi in "Contro l'impegno", il suo ultimo saggio dal sapore di pamphlet. Allora, diciamo subito che questo libro non è una tirata contro il politically correct. Piuttosto, Siti si preoccupa della deriva che sta prendendo la letteratura, "impigliata in un ingranaggio che non si può fermare", la cui funzione sembra diventare sempre più quella di impegnarsi a veicolare messaggi positivi rischiando di trascurare la complessità, l'ambiguità, le contraddizioni e persino il Male che derivano dall'addentrarsi nelle profondità dell'essere umano. Per fare ciò, tra le altre cose egli prende in esame, leggendole e sviscerandole secondo i dettami della critica letteraria, alcune opere di autori come Roberto Saviano, Michela Murgia, Gianrico Carofiglio e Alessandro d'Avenia, senza l'intento di stroncare ma semplicemente cercando di far comprendere a chi legge (le parti meglio riuscite sono secondo me quella su Saviano e sulla Murgia) che "il maggiore obiettivo dell'opera letteraria non è la testimonianza ma l'avventura conoscitiva. E non è un problema di 'purezza' ma quasi il contrario, di ambiguità: soltanto la letteratura, tra i vari usi della parola, può affermare una cosa e contemporaneamente negarla; perché ambigua è la nostra psiche, ambiguo il nostro corpo - le ambiguità rimosse possono portare a esiti controproducenti, a false euforie. L'ambiguità. lo spessore, la polisemia fanno emergere quello che non si sa ancora; per questo la letteratura non può prestarsi a fare da altoparlante a quel che già si crede giusto. La si umilia, così; per questo dare importanza allo stile non è diserzione - non tutte le battaglie si combattono con fucile ed elmetto". E ancora "la verità letteraria è la verità del desiderio, cioè non è verità: è un campo di tensioni in cui ogni asserzione può essere rovesciata, ogni no può valere come un sì, dietro ogni oggetto può apparire la sua derisione, il mito più sanguinario può essere salvifico o viceversa, ogni minima procedura può trasformarsi in un rito, il tempo può ristagnare o cessare di esistere". Insomma, questa è solo la punta dell'iceberg: di carne al fuoco ce n'è (e io ne avrei voluta ancora di più) e lo stimolo alla riflessione è assicurato, qualche capitolo è un po' meno incisivo di altri - del resto questo libro è un insieme di "saggi staccati, scritti in momenti diversi e con diversa tenuta di fiato" - ma nel complesso è una lettura che gli amanti della letteratura non dovrebbero mancare di fare.
Molto interessante e continua a confermare la mia idea di partenza secondo la quale i saggi di Siti mi piacciono sempre molto piú dei suoi romanzi, per quanto anche questi ultimi mi diano sempre molto da pensare. C'é anche da dire che l'autore utilizza queste pagine per levarsi anche qualche sassolino dalle scarpe, ma tendenzialmente trovo le sue analisi di alcuni autori/autrici, decisamente appropriate.
Una raccolta di testi con introduzione sostanziosa, che costituiscono un insieme coerente ed efficace. Il punto di vista sul tema è di questi tempi minoritario quanto assolutamente necessario, le recensioni di alcune opere di successo (come i profili di alcuni suoi colleghi) sono molto lucide, e tutte condivisibili. Da far leggere nelle scuole (di scrittura creativa).
Mai letto nulla di Siti, ma questo saggio composto da brani parzialmente pubblicati tra il 2018 e il 2021 su “L’età del ferro” e “Domani” sono straordinari. E quanta verità: Siti scomoda Saviano, Murgia, D’Avenia, Carofiglio e persino Barbara D’Urso per parlarci di come la letteratura sia ormai subordinata alle idee del bene e dell’intento pedagogico che si vuole trasmettere per forza, ma anche di come si pensa di più al contenuto che alla forma, ciò che più crea ambiguità e permette di confrontarsi con la verità del nostro vivere o il “Male”. Alla fine (e qui sono d’accordo con l’autore), la “letteratura è utile se fa male”.
Quando si vorrebbe acclamare alla necessità di un'opera, si dice sempre: "Dovrebbero farlo leggere nelle scuole". Io di questo libro dico che dovrebbero farlo leggere agli insegnanti di materie umanistiche.
Grata alla mamma di Walter Siti, grata di esistere in questa tempo-linea.
[...] molti scrittori hanno cominciato a scrivere come se fossero autori televisivi o social media manager in pectore, ossessionati dal problema del messaggio da far passare. Ovviamente positivo, secondo i criteri di una morale senza profondità e senza sorprese, quella che si sa condivisa dal pubblico di riferimento.
[...] ma è il come raccontarle che fa esistere le storie, perché la vera responsabilità per uno scrittore è l'invenzione; e l'invenzione è stile... e lo stile non si preoccupa dei like.
Un saggio a suo modo necessario, per spunti e per riflessioni.
Sebbene la sua struttura non sia sempre organica (ogni capitolo tratta un argomento più o meno diverso), le argomentazioni son ben collegate l'una all'altra. Se in singoli capitoli ci si "perde" spesso in analisi dettagliate di specifici autori e libri (Saviano, Santarelli, D'Avenia, Carofiglio, Murgia...), in altri si affrontano temi più generalisti, come i talk politici oppure - capitolo che ho trovato molto interessante - il confine sempre più labile e compenetrato tra giornalismo e letteratura.
L'introduzione è anche cappello di tutto il libro, con considerazioni più condensate e "riassunte", ma non per questo meno illuminanti, anzi. L'analisi di Siti è fredda, oculata, anche ironica e fornisce un buon quadro socio-politico del nostro paese attraverso l'analisi della letteratura e del suo "impegno", che ha sovrastato ormai la mera "avventura". Tra le righe continua a insinuarsi l'annosa - e sempre più diffusa - questione del separare l'autore dall'opera: ma è davvero possibile farlo oggi? O meglio, l'autore "impegnato" vuole essere veramente separato dall'"engagement" (inglese, non francese) della sua opera?
Anche per la brevità e la chiarezza di esposizione, è un saggio molto consigliato.
"Riconoscere le ingiustizie della Storia non può voler dire perdere la capacità di distinguere il bello del brutto, né rovesciare sul testo i peccati dell'autore, del tipo "era d'accordo con la persecuzione degli ebrei, ha trattato sua moglie come uno straccio, ha lasciato i figli in un orfanotrofio, quindi il suo libro fa schifo e io lo espungo dalla biblioteca comunale."
Interessante (e aggiornatissimo: tratta opere letterarie uscite fino a quest'anno) pamphlet che, molto coraggiosamente e ai limiti del politicamente scorretto, tenta di contrastare tutte le idee malsane che ammorbano gran parte di certa letteratura contemporanea. Innanzitutto l'idea scriteriata che la letteratura debba necessariamente perseguire il bene ed avere addirittura un'unica funzione educatrice e terapeutica. Come se l'arte di per sé non dovesse essere scomoda, inquietante, stravagante e perturbante, nella sua funzione primaria e catartica di dover raccontare quello che la ragione spesso non può e non vorrebbe dire. Purtroppo, come dice l'autore, a sua volta romanziere parecchio coraggioso e un po' scomodo, nei mala tempora che stiamo attraversando "ci sono emergenze sociali ed etiche, ma ci sono anche emergenze culturali". Consigliatissimo.
Pamphlet di cui s'è parlato abbastanza e che vale la pena di leggere. Ho trovato utile la riflessione critica sulla letteratura consolatoria, che riduce l'impegno a un'adesione a messaggi già confezionati, privi di ambiguità approfondimento. La superficialità e deresponsabilizzazione che ne segue sono tipiche dell'odierno panorama delle "storie" (in qualsiasi medium siano esse veicolate).
Al di là delle tesi principali, la struttura del libro è a capitoli-saggio separati. Se mi sono divertito con la critica a Saviano (ora ho capito meglio perché è un autore che non mi interessa), sono andato veloce con i mini-saggi dedicati alla televisione, in cui Siti ha perso fin troppo tempo a descrivere fenomeni e personaggi irrilevanti.
Siti ridimensiona Saviano, fa a pezzi i libri di Carofiglio e D'Avenia (che goduria!), si ribella contro la letteratura sciatta e consolatoria ma poi perde il filo passando in rassegna i momenti più imbarazzanti delle trasmissioni della D'Urso, rivelando, come ogni grande scrittore che si rispetti, una passione per la tv spazzatura. Peccato.
Siti mi sta proprio simpatico. Questa raccolta di spunti critici per me potrebbe intitolarsi anche “Qualcuno lo doveva dire.” Unica pecca, a gusto personale, è la sua ostinazione a guardia di quelli che lui stesso chiama “uova di dinosauro ormai fossili”. Ma ne è consapevole, cosa che me lo fa apprezzare ancora di più.
Tantissimi spunti letterari e tante sincere riflessioni contro la letteratura impegnata, quella che sacrifica la forma e il suo obiettivo primordiale di "esporci a un trauma" in nome del messaggio che deve arrivare a tutti i costi; una letteratura non più di indagine dell'ignoto, ma di banale utilità didattica, mirante soltanto ad ammaestrare questa massa informe di lettori senza criticismo.