Se dovessimo indicare una forma romanzesca capace di rivelare come si compone e come si manifesta quell’impasto vischioso del potere che la politica italiana ha avuto per lunghi anni il funesto privilegio di produrre, basterebbe rimandare alle asciutte pagine di Todo modo, alla scansione crudele dei suoi episodi, che solcano una materia informe, torbida e sinistra, quale nessun altro romanziere italiano aveva saputo affrontare. Non meraviglia dunque che questo libro, pubblicato nel 1974, possa essere letto come una guida alla storia italiana dei decenni successivi.
Un non meglio precisato famoso pittore, che disincantato, dipinge per profitto. Un eremo sperduto trasformato da un inquietante e coltissimo prete gesuita, Don Gaetano, in un orribile albergo di lusso in cui si praticano, una volta all'anno, curiosi esercizi spirituali della più illustre rappresentanza del potere (ministri, autorità, avvocati famosi et similia).
Perché Todo modo (frase di sant’Ignazio di Loyola) ogni mezzo è utile per ottenere la grazia di Dio. In realtà per i protagonisti non si tratta di ottenere la grazia di Dio, bensì potere e profitto senza limiti e senza regole.
Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.
La zattera della Medusa, immagine evocata dallo stesso Don Gaetano, a rappresentare la situazione della Chiesa, all'interno di uno Stato che pare non esistere più. Un parroco che veste gli occhiali del diavolo, attraverso le cui lenti deformanti,i peggiori alti prelati sono stati i migliori, ovviamente nei termini di acquisizione del potere temporale ecclesiastico.
Le voglio anzi regalare un piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza, e, più che la sopravvivenza, il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni.
All'interno del losco albergo, davanti agli occhi disincantati dell'eretico pittore, si compiono omicidi. Lo stato, rappresentato da un anonimo commissario e da un poco acuto procuratore, brancola nel buio alla ricerca della verità, a rappresentare la pochezza e l'insufficienza delle istituzioni.
Un romanzo torbido e oscuro, raffinato e colto, che finisce, probabilmente volutamente in modo oscuro, a significare che la realtà rimane sempre incomprensibile.
E’ un libro complicato. Non l’ho capito a fondo. Ha un’impostazione da giallo, con omicidi, indagini di polizia, ma un giallo non è. Non c’è soluzione finale. A Sciascia non interessa scoprire chi è il colpevole, le tematiche affrontate dal libro sono molte e davvero complesse. Provo a parlare di quello che mi ha colpita. Innanzitutto l’autore, volutamente in modo vago, a rappresentare la oscurità e l’ambiguità del tema, alza il velo sugli intrecci tra potere economico, politico e religioso, indissolubilmente legati da interessi, corruzione, malaffare. Tutto rimane nel vago, ripeto, è indefinito, ma gli basta lanciare il seme, poi sta al lettore trovare una personale interpretazione dei fatti. Inoltre un altro tema emergente è quello del rapporto tra intellettuali laici e Chiesa cattolica, un incontro-scontro che viene incarnato da un lato dal protagonista, un pittore famoso del quale non si svela il nome, e Don Gaetano, un sacerdote intellettuale, colto, con gli “occhiali del diavolo”. Un confronto che rimane sospeso, anch’esso indefinito. Ecco, la sensazione che mi ha lasciato questo libro è quella di incompletezza, di indeterminatezza.
Ho riletto per la seconda volta quest'opera di Sciascia, credo una delle più celebri. Non saprei davvero cosa dire delle impressioni che mi ha lasciato, e non saprei nemmeno in che genere collocarlo, se semplice romanzo o anche giallo visto che avviene più di un omicidio al suo interno. Attualissima la critica feroce di Sciascia sui poteri forti (Chiesa e Stato, politica) che fa riflettere su come siamo condizionati da essi nella nostra vita e come essi non vogliono che noi ragioniamo con la nostra testa. Il finale poi ci fa capire (senza fare spoiler) che la vita è così: non si capisce bene dove andremo a parare. Tutta la vicenda sembra irreale, ti porta ad isolarti assieme al protagonista in questo eremo sperduto nelle campagne siciliane e la figura che ti folgora è quella del sacerdote don Gaetano, acculturato prelato della Santa Chiesa Romana moderno e alienante. Il nostro partecipa a una sorta di ritiro spirituale (che di spirituale ha ben poco) e dove, nella recita del rosario, avviene un omicidio. Da quel momento in poi Sciascia ci guida in un'indagine che sembra non avere senso e forse non avere più importanza di chi ha commesso l'omicidio, perché, alla fine, siamo tutti colpevoli.
“Ma signori" disse don Gaetano al ministro e al presidente "spero non mi darete il dolore di dirmi che lo stato c'è ancora... Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più.”
Racconto misterioso (nel senso atmosferico del vocabole) e stilisticamente perfetto che illustra bene che il potere è (sempre) altrove e che siamo tutti complici.
Fino a metà libro mi chiedevo cosa lo stessi leggendo a fare: perché insistere quando qualcosa ti respinge. Asettico al punto che immaginavo tutto grigio e nudo, privo di appigli, monastico, d'altronde la vicenda si svolge tutta in un eremo. Un eremo di lusso però, l'Eremo di Zàfer, di quelli dove politici e imprenditori, le persone in vista della città, una città non definita, si ritrovano per eseguire "esercizi spirituali" sotto la guida dell'enigmatico burattinaio Don Gaetano. Fino a metà libro, quindi, una storia priva di orpelli, un linguaggio colto, troppo colto, ricco di citazioni nascoste, di riferimenti artistici - d'altra parte il corpo estraneo alla vicenda, il narratore, è un pittore famoso approdato per caso all'eremo - un vago senso di fastidio, di ipocrisia, di finzione. Poi, all'improvviso, si accende. E non è solo un omicidio quello che accende la storia, quanto piuttosto la rappresentazione degli intrighi, dei ricatti, delle verità celate, per dirla alla Pirandello, del gioco delle parti. E tutto senza dire nulla. Ma quel nulla detto in maniera chiarissima.
«Alcun non può saper da chi sia amato, quando felice in su la ruota siede: però c'ha i veri e i finti amici a lato, che mostran tutti una medesma fede. Se poi si cangia in tristo il lieto stato, volta la turba adulatrice il piede; e quel che di cor ama riman forte, ed ama il suo signor dopo la morte.» [Orlando Furioso]
Ho visto il film di Petri dopo aver letto il libro di Sciascia e ho fatto bene. Il “Todo modo” di Petri è un’altra cosa. Si ispira, molto liberamente, a quello, ma è un’altra cosa. È un j’accuse all’intera classe dirigente democristiana per il malgoverno e la cancrena politica e sociale che aveva portato al paese. Di più. È un “processo” ed un’esecuzione, una strage robesperriana di politici DC, in nome del popolo. Un Gian Maria Volonté che interpreta un Moro untuoso, sfuggente e cavilloso, mediatore incallito, assetato di potere, ipocrita clericale. Una condanna totale, senza appello… E poi un Mastroianni nei panni di dGaetano, un Savonarola violento e irridente, sarcastico e graffiante… epperò implicato nella rete dei ricatti, invischiato nei giochi di potere Un film visionario, surreale, cupo, cupissimo, funereo, grottesco, da anni di piombo; un regicidio auspicato; quasi un’opera liberatoria, catartica … Che pochi, pochissimi anni dopo si invererà nell’esecuzione-assassinio di Aldo Moro (“il responsabile maggiore di trent’anni di cancrena italiana”, cantava Gaber in “Io se fossi Dio” due anni dopo; oppure “il meno colpevole dei democristiani” secondo PPP). Il “Todo modo” di Sciascia non assume i toni apocalittici, è sfumato, sfocato, indeterminato, indefinito. Sì, è anch’esso un j’accuse alla DC, al suo malgoverno, all’occupazione dello Stato, alla spartizione predonesca della cosa pubblica, alla grossa responsabilità per la corruzione, per il clientelismo, per l’inefficienza, per l’immobilismo, per le trame “nere”, per la cloaca che ha inquinato la società civile… Ma è qualcosa di più. È un viaggio volterriano nell’anima Dc, e nella anima cattolica che la anima, che l’impregna, che l’informa, che crea rimorsi e facili assoluzioni; nell’anima italiana, nonostante tutto. Sciascia-Voltaire a Zafer, a fare gli esercizi spirituali in un eremo ove si raccoglie “un covo di vipere”. Sciascia-Voltaire nei panni del pittore anonimo che dipinge, e male, “a piedi freddi” (“come nasce un brutto quadro per un brutto mondo, un quadro senza intelligenza per quei milioni di esseri senza intelligenza che stanno davanti alla televisione”). Che però, incuriosito, vuol capire, studiare (e smascherare l’avversario, “esacrez l'infame”?). La classe politica DC, ma soprattutto la Chiesa Cattolica (il “Vaticano”!) che si è servita della DC per governare, per egemonizzare, per garantirsi. Eccolo lì il coimputato, il corresponsabile-responsabile maggiore della mancata “Riforma” civile italiana. La Chiesa sintetizzata e spiegata nella figura di dGaetano (l’uno per il tutto), il prete affarista, spregiudicato, immannicato e parassitario, lottizzatore-costruttore di cose brutte (l’architettura sacra del dopoguerra è quasi sempre inguardabile!): “L’Eremo di Zafer… non era soltanto un eremo, ma un albergo: senz’altro brutto, lo riconosceva; ma che si può fare mai con questi architetti oggi?... della bruttezza, comunque, non aveva colpa; della comodità un po’ di merito. Gli architetti! Le due grandi imposture del nostro tempo: l’architettura e la sociologia. E stava per accompagnarvisi la medicina, ormai al livello della più ignobile stregoneria…”. È dGaetano un finissimo intellettuale, sarcastico, pungente, graffiante, cinico, che non ama ma disprezza il prossimo suo, in primis i politici ritiratisi per gli esercizi a Zafer; che travia, inganna con sottigliezze. “Guardo troppo spesso la televisione, perché possa dirmi completamente immune dalla lebbra dell’imbecillità… La grandezza di Dio… Io la riconosco dall’imbecille. Non c’è niente di più profondo, di più abissale, di più vertiginoso, di più inattingibile”. Beffardo, sfuggente, sdoppiato, una figura luciferina, che ha molto poco di cristiano e che invece emana un fascino ambiguo, ammaliante… “Amico mio: io permetto tutto. Ammetto e permetto. – Ma, dico, gli esercizi spirituali…-Ho l’impressione che lei ci creda più di me: che li prende alla lettera, o nel significato originale, ignaziano… E del resto credo che il laicismo, quello per cui voi vi dite laici, non sia il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa una specie di aspirazione perfezionistica: ma standovene comodamente fuori”. E infine il potere. Il doppio potere, quello della DC e quello della Chiesa Cattolica. Il potere che avvelena tutto, che trasforma l’afflato religioso in una scoreggia ipocrita, che divide, e istiga omicidi, intrighi, bramosie smodate. Zafer è l’anticamera dell’inferno, ove non c’è redenzione perché non c’è pentimento ma si pecca contro lo Spirito. È il sovvertimento della verità, che però ammalia, contagia, che seduce con le sue finezze, con i suoi “distinguo”. In una parola, il vangelo viene scambiato con il corano, come nel quadro di Rutilio Manetti. E dGaetano porta gli occhiali… come quelli nel quadro…
Trama sempre attuale quella di questo libro di Sciascia che riguarda la storia della politica italiana.. lettura super scorrevole, trama avvincente, come sempre Sciascia resta nel cuore..
“Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore, peggiore; giusto, ingiusto; bianco, nero. E tutto invece non che una caduta, una lunga caduta, come nei sogni.”
Una scrittura sapiente che mette in scena un teatrino tra il credo, il non credo e il faccio finta di credere. Una disputa intellettuale fatta di colte citazioni e triviali ricatti. Evidente (e dichiarato nella citazione finale) il richiamo a "I sotterranei del Vaticano" di Gide. Sembra non esserci il finale ma a ben vedere il suo senso è evidente fin dall'inizio. ⭐⭐⭐e mezzo Lettura ottima per me: grande spessore per una trama che sferza. La sensazione, tuttavia, di essere rimasta fuori "gioco" da un senso compiuto non mi ha pienamente soddisfatta. Lo rileggerò
«A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» dice il maggior critico italiano dei nostri anni «riassumere l’universo pirandelliano come sin diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all'intatta e appagata musica dell’ uomo solo». Credevo di aver ripercorso, à rebours, tutta una catena di causalità; e di essere riapprodato, uomo solo, all'infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza: quando nell'estate, in campagna, lungamente mi appartavo in un lungo, che mi fingevo remoto e inaccessibile, di alberi d’acqua; e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e infinitamente, alla libertà del presente. E per tante ragioni, non ultima quella di esser nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani (al punto che tra le pagine dello scrittore e la vita che avevo vissuta fin oltre la giovinezza non c‘era più scarto, e nella memoria e nei sentimenti); per tante ragioni, dunqne, rivolgevo nella mente, sempre più precisa (tanto che la trascrivo ora senza controllare), la frase del critico: appunto come frase o tema dell’infinita possibilità musicale di cui disponevo. O, almeno, di cui mi illudevo di disporre."
«Preferisco perire subito, nel naufragio.» «Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già stato...». Fece un sorriso quasi divertito «Non se ne è accorto?».
Un inizio lento, da sabbie mobili, un inizio di quelli che ti fanno sgobbare sulle parole che leggi solo per andare avanti di una riga. Poi, poco prima della metà, il botto del tappo di spumante: i giochi, gli intrighi, le macchinazioni della politica scoppiano come le bollicine di spumante, riversandosi in una oasi di “pace” spirituale, un eremo che non è più un eremo, ma un albergo con sotto un eremo. I personaggi sono sfuggenti, però hanno delle caratteristiche ben precise, come gli occhiali del diavolo di Don Gaetano. Oppure il desiderio di libertà che spinge il narratore, all’inizio del libro, a girare per quel viottolo campagnolo che, come dice l’indicazione gialla-nera, lo porterà all’eremo, un eremo inventato di un religioso inventato. Tutto è un vedo e non vedo, vero e non vero, certo e non certo, in questo libro. Anche il finale. E che finale. Un libro che si gusta piano e che mi darà da pensare tanto anche dopo averne chiuso la quarta di copertina, una quarta che non rivela nulla della trama, anzi, la fa apparire diversa da se stessa, dando una chiave di lettura che, a mio parere, è solo una delle mille sfaccettature del romanzo di Sciascia. Datemi altro di questo autore, mi affascina con le sue parole, mi cattura, mi fa sottolineare tutto. Datemi altro.
«Ecco che lei torna alle parole che decidono, alle parole che dividono: migliore, peggiore; giusto, ingiusto; bianco, nero. E tutto invece non è che una caduta, una lunga caduta: come nei sogni...». L’ultima parola imbevuta restò come imbevuta dall’aria, dagli alberi, da me stesso: sicché quando mi ritrovai solo, seduto su quella pietra rotonda, intorpidito, mi parve di essere stato colto per un momento dal sonno e di aver sognato; e forse più che per un momento.
Politica come mezzo di potere e arrichimento personale, corruzione, intrecci mafiosi, morti ammazzati, insabbiamenti e depistaggi, giustizia che non funziona, ipocrita richiamo ai valori cristiani, chiesa potere temporale.
Non so che altro aggiungere che non sia gia' stato detto: ho riconosciuto molto la politica e soprattutto il Vaticano degli anni 70, gli insabbiamenti e l'omerta' di quegli anni. Molto sofisticato, scritto superbamente, non credo ci sia bisogno di pensare troppo al colpevole, ma bisogna fare come il pittore : sedersi a guardare, non c'e' tanto bisogno di capire, solo godersi il romanzo. Sciascia non delude mai! E adesso cerco il film, che anche Petri e' stato un gran regista e sono curiosa di vedere come ha realizzato e quanto e' stato fedele al romanzo.
La trama ambigua, sinistra e raccapricciante, esaltata dalla straordinaria perizia narrativa dell’autore e dall’incisività del suo stile, fa di questo breve romanzo un’opera di sconvolgente impatto. È interessante constatare come lo scrittore contamini progressivamente l’impianto tradizionale del giallo fino a stravolgerlo interamente, per significare che nel clima di connivenze, ipocrisie e corruzione che regola le relazioni tra gli illustri ospiti dell’Eremo di Zafer non c’è spazio per la chiarezza logica né per la verità, ma soltanto per il sospetto e il dubbio. Il racconto è scandito da scene di volta in volta inquietanti, misteriose o grottesche (indimenticabile il rosario collettivo recitato in processione, che ha i colori di un rituale diabolico, più che religioso), manifestazioni di una realtà insondabile, intessuta di falsità e compromessi. Su tutto e tutti troneggia la figura di don Gaetano, il colto e squisito anfitrione, lucido manipolatore di uomini ed eventi. Qual è il suo ruolo nella oscura doppiezza degli intrighi di potere? Quale il suo influsso sul pittore, narratore delle vicende? Chi è l’artefice degli omicidi? E i delitti, sono tutti opera di un solo colpevole?
E' una rilettura ( la terza) e posto la recensione tale e quale.
Scrissi di là il 26 Maggio 2013. Era domenica , e circa le 17.30
Nulla è come sembra, in Todo Modo. Non è, infatti, un romanzo di cronaca politica: degli anni settanta non c’è un solo fatto storicamente accertato ma ciò che era ancora in fieri, nascosto, intuibile solo dai cervelli più fini.[ Molto più tardi si sarebbe avverata la profezia letta da Petri tra le righe del libro, facendone un film appena due anni dopo: altro non era che “ la catena di causalità kantiana, messa in moto dall’attimo di libertà di Sciascia].
Todo Modo è politico nel senso che la dimensione più profonda, che ne costituisce l’attualità ancora a più di trent’anni di distanza, non è tanto la feroce critica al potere – nonostante lo rappresenti nelle sue fattezze democristiane e vaticane - ma la riflessione acuta e sarcastica sul potere. In superficie, vi è un concetto del potere tutto politico, concreto; in profondità, vi è però un altro concetto di potere, quello del Giulio Cesare shakespeariano: il potere per avverarsi usa gli strumenti che i tempi terreni gli mettono a disposizione. In Todo Modo: la democrazia cristiana e il potere temporale della chiesa nella veste di Don Gaetano, il prete con gli occhiali del diavolo.
Non è un romanzo distopico perché è il referto anatomopatologico di quello che andava allora accadendo in quell’Italia che approfittava della cosiddetta lotta armata per tessere la propria tela di schifezzuole.
Non è un giallo nonostante l’uso della struttura romanzesca di “L' assassinio di Roger Ackroyd”(di cui Sciascia scrisse una memorabile pre e postfazione) e la citazione di “Dieci piccoli indiani”. Sciascia si limita a “vedere” solo la realtà, e non a caso il protagonista del romanzo è un anonimo pittore, utilizzando nel riferircela, però, la forma diario in prima persona.
Si sa quanto sia ambiguo l’uso dell’io da parte dello scrittore. Quest’io è lui stesso e ci sta dicendo la verità? O si mette a disposizione del personaggio, non assumendosi la responsabilità della verità del suo dire, perché la verità non è dicibile per definizione, anche se è sotto gli occhi di tutti e del lettore in particolare che, poveretto, è indotto dalla furbizia dell’autore a tralasciarla? I delitti e le indagini poliziesche non necessitano per Sciascia di un happy and con la scoperta dell’assassino e quindi con lo svelamento della verità. “Questo meccanismo per non capire, che attira tanto Sciascia, è quello che fa dei suoi «gialli» delle allegorie: dei racconti su un mondo dove la verità ci verrà sempre celata. La lucidità del narratore consiste nel dirci che noi non siamo lucidi, “dice Umberto Eco. Roba che possiamo trovare anche in Dürrenmatt. Per Sciascia, quel bruttissimo albergo spacciato per eremo in mezzo a una natura bellissima, non è che la “Zattera della Medusa” di Géricault, di cui non c'è bisogno nemmeno di conoscerne la reale storia, bastando l’orrore del fatto impresso dal pittore sulla tela.
Ma non facciamo l’errore di attribuire a Sciascia la patente del filosofo disincantato, del cantore della verità debole, quella sfuggente, sola energia di cui non si può stabilire l’esatta ubicazione come con gli elettroni che ruotano attorno al nucleo. La verità c’è, è “polposa” ma deve rimanere velata, pena il crollo del castello di carta messo su non solo dai diretti interessati ma dai cosiddetti avversari o da coloro che sono stati preposti al ruolo di giudici. Così è e così sarà. Ma al lettore, neutrale e innocente, è dato il diritto di intravederla, magari sforzandosi di carpire quello che lo stesso scrittore non vuole svelare. Che ci starebbe a fare a chiosa del romanzo il brano dei “ I sotterranei del Vaticano” di Gide se Sciascia non avesse voluto svelacerla 'sta benedetta verità? Il delitto inutile, uccidere per il gusto di uccidere, l'atto assoluto di libertà. Ho riletto parola per parola, per capire come e quando Sciascia allontana il pittore narrante (reo confesso a pagina 120, dell’ottava edizione Adelphi, marzo 2011) dal cuoco, suo alibi di ferro.
P.S. Ho letto Todo Modo, anzi riletto dopo la prima lettura tutta politica degli anni della pubblicazione, dal dentro di quell’albergo che di nome faceva Emmaus, a Zafferana Etnea,nei primissimi anni ’90 e gestito da non so quale ordine pretesco, dove capitai dopo una giornata memorabile alle gole dell’Alcantara. Il luogo, le pendici dell’Etna, è incantevole, ma l’albergo, credetemi, è un obbrobrio e la cucina pessima, chè nei giorni della nostra permanenza non c’era il rinomato cuoco chiamato per nutrire i corpi dei politici di Todo Modo mentre don Gaetano ne nutriva lo spirito. Il piatto di spaghetti alla carrettiera, collosi, asciutti e insipidi, è rimasto memorabile come quell’immenso refettorio e il deserto di quell’albergo dai mille ascensori con cui scorrazzarono tutta la serata i miei tre maschietti.
Un libro dissacrante, ironico, di quelli che stimolano la risata ad alta voce mentre si legge e la silenziosa riflessione mentre ci si ripensa, arricchito dall'eccezionale lettura di Fabrizio Gifuni. Giallo e satira si mescolano e si compenetrano fino a far ridere dei cadaveri e a piangere degli scherzi, delle leggerezze, guidati dalla narrazione sicura del pittore protagonista. Sullo sfondo di politici e potenti di varia risma e simile spirito, infatti, a spiccare sono soprattutto lui, i due tutori dell'ordine - affini ma diversi, spesso in contrasto, a volte macchiette - e l'inimitabile Don Gaetano. Su quest'ultima figura Sciascia gioca, confondendo il lettore in merito alle sue apparizioni, ai suoi intenti, alla sua interpretazione. Sempre inquadrato in una luce inquietante, impregnata di sfiducia già prima della sua prima comparsa per via della barbara "ristrutturazione" dell'eremo di Zafer, a tratti il protagonista sembra comprenderlo, avvicinarsi a lui, giocarci sullo stesso piano, a tratti invece se ne allontana bruscamente, pur senza arrivare a condividere per converso - sarebbe impossibile farlo con convinzione - le posizioni degli altri personaggi. Se nessuno si salva, non lo faranno neanche i protagonisti: la grigia sospensione del finale è un velo che nasconde una verità immaginabile (dal lettore, dai personaggi) eppure mai certa.
...forse arrivando in Paradiso scoprirà che anche il buon Dio non è più quello vero? Sulla base dei fatti storici, Sciascia costruisce il suo giallo. Sulle vicende esposte, il protagonista propone una soluzione. Sui “tre” delitti (lo confesso, sono affetto da una piccola ma tenace nevrosi da trinità), il lettore può formulare le proprie tesi. Perché da un’unica realtà ognuno può concepire una propria soluzione; non esiste dunque una sola verità; così come tutti possono diventare ugualmente sospettabili. Con la solita lucidità e la congeniale ironia, Sciascia delinea personaggi e fatti di questo “giallo” atipico. Celandosi dietro al protagonista-indagatore, l’Autore congettura e relaziona in prima persona; si presenta come un “pittore in cerca di solitudine e libertà” e si rivela fine uomo di cultura; ma rimane senza nome, come per astrarsi dai fatti contingenti, impersonando l’oggettività e la ragione. Osserva, decompone e restituisce un quadro inquietante e contorto, rappresentato da diversi punti di vista, sfaccettato come per un gioco di specchi.
(Pablo Picasso, La femme à la collerette bleue, 1941)
Ma, al di là del giallo, con questo breve romanzo Sciascia denuncia, con tratto sferzante e irrisorio, la fitta trama di inganni e tradimenti, di ipocrisie e connivenze dell’ambiente politico e della Chiesa: da esso emerge l’effettiva impossibilità di sbrogliare la matassa per trovare il filo delle responsabilità nelle corruzioni del potere: ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare classe dirigente: e che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d’oro.
(Sembravano ghirigori… serpeggianti. Era come in un disegno di Steinberg)
Sciascia vi ritrae i suoi tempi, gli anni Settanta, ma appare altrettanto sconcertante leggervi situazioni ancora oggi attuali. E quel casermone di cemento orridamente bucato da finestre strette e oblunghe, con le sue ambigue e inquietanti figure, al confine del mondo, al confine dell’inferno, deludente realtà di un immaginato claustrale “Eremo”, diventa espressione sinistra della dantesca bolgia dei ladri. Diabolica e grottesca, sopra tutte, la raffigurazione di don Gaetano, dagli occhi senza sguardo, dietro a quegli occhiali a “pince-nez” che suscitano, remoto, imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione, qualcosa che ha a che fare con la verità e con la paura di scoprirla. Era un caso che li avesse del modello di quelli del diavolo? (Si allude al dipinto “Sant’Antonio e il diavolo con gli occhiali” di Rutilio Manetti - Siena, Chiesa di Sant’Agostino, una cui copia si trovava nell’ “Eremo Zafer 3”, teatro del romanzo. Proprio quella immagine era stata suggerita dallo stesso Sciascia all’Editore Einaudi, come copertina della prima edizione del 1974).
Mi piace Sciascia, tuttavia non conoscevo né questo libro, né il film che ne è stato tratto. Se anche ogni personaggio o vicenda sono inventati, il livello di probabilità che qualcosa di simile sia accaduto o accadrà nel nostro bel paese è altissimo. Una congrega di italiani "importanti", cioè il solito branco di politici e prelati, si raduna in un eremo tramutato in albergo per fare esercizi spirituali. Giusto per capirci: almeno 5 di loro fanno arrrivare lì le amanti prima delle valigie. La voce narrante, un pittore che passava di lì per caso e che decide di fermarsi per guardare questo compendio di umanità al lavoro, si trova coinvolto in un'omicidio. La recita del santo rosario diventa pretesto per liberarsi di un partecipante, ma nessuno sa nulla, nessuno ha visto nulla. Il prelato che tira le fila dell'evento è una persona assai colta che si erge ad Azzeccagarbugli: non userà il latinorum, ma filosofi e poeti del passato diventano materia per voli pindarici che alludono a tutto e non dicono niente. La polizia viene coinvolta, con scarsi risultati. La posizione dei partecipanti al convegno, d'altronde, non lascia possibilità di manovre. Chi ha la forza di mettersi a cercare tra le brutture della classe dirigente? C'è un passaggio che suona più o meno "se indagassi, verrei promosso e spostato". Purtroppo non ho segnato la pagina con la citazione esatta, ma credo di aver veicolato il concetto. Usando una frase fatta, direi poi che il finale è aperto. In realtà anche qui si rispecchia la cronaca che vediamo tutti i giorni al telegiornale: un fatto, un polverone, l'oblio.
Uno Sciascia diverso da quello de “Il giorno della civetta” e “Una storia semplice” e più vicino a quello de “Il contesto”, con questo thriller metafisico in cui i colpevoli sono uno, nessuno e centomila.
Ci troviamo, insieme al protagonista (pittore affermato ma afflitto da ennui), presso il fantomatico eremo di Zafer; che di eremo, in realtà, possiede ben poco. Vi è stato infatti costruito sopra un albergo (“mostruosa costruzione”) che, in particolari periodi dell’anno, è meta di non meglio specificati esercizi spirituali per eminenti personalità del mondo politico, imprenditoriale, religioso. Ad orchestrare il tutto è don Gaetano. Ecco, la sua figura è forse la più fascinosa dell’intero romanzo. Enigmatico, coltissimo, con atteggiamento quasi da diavolo “loico” (e gli occhiali sono gli stessi del quadro che si trova nella cripta!), miniera di citazioni e arguzie, ma al contempo cinico come un uomo di Chiesa non dovrebbe essere. E il nostro pittore ne rimane affascinato, tanto che decide di restare nell’albergo. L’arrivo dei galantuomini, poco dopo, dà il “la” a tutta una catena di concause che culmina con svariate morti. La polizia è chiamata ad indagare.
E qui si giunge a un punto di svolta. Sciascia concentra tutta l’attenzione sui traffici tra gli esponenti di questa classe dirigente nella quale si può riconoscere quella contemporanea (a lui e a noi): corrotta, avida di potere e denaro, ma al contempo pavida e timorosa d’essere scoperta. E anche sulle indagini viene steso un velo d’incertezza da parte del procuratore, invischiato nelle trame d’una ragnatela così estesa che, a quanto pare, è meglio non svegliare i ragni che la tessono. Pare pensarla così anche don Gaetano, il quale dimostra di avere nell’animo due personalità, che tendono, però, innanzitutto al suo benessere personale.
Chi è, dunque, l’assassino? Uno di loro? Don Gaetano? La servitù? Non ci è dato saperlo. Quello che più preme allo scrittore siciliano è far comprendere al lettore quale sconfinata serie di trame si va costruendo da secoli sotto il suo naso, senza distinzione tra poteri temporale e spirituale. La natura degli uomini è cosa comune, e pochi sono coloro che se ne discostano. Se Bellodi nel Giorno della civetta vuole rompersi la testa per stanare Cosa nostra, il nostro povero pittore ha ben poco in mano, trovandosi di fronte a contesti ben più inafferrabili che lo porterebbero, forse, come Rogas ne Il contesto, alla morte.
Insomma, un romanzo su ciò di cui è difficile parlare, su ciò che si sa che c’è, ma al contempo non si può afferrare. Che ci pone interrogativi, destinati spesso a rimanere insoluti. Sciascia, però, ci prova in ogni modo, ad ammonire chi legge, con uno stile elegantissimo, una conoscenza dell’animo umano e dei suoi traffici che risulta profondissima e una trama serrata, senza pause. Neppure nelle pagine più riflessive, quelle delle dissertazioni sulla Chiesa moderna, sulla pittura religiosa o su giudici e inquisiti, la palpebra del lettore cala, e anzi vien voglia di legger tutto in una sola seduta. Il “todo modo” di Ignazio di Loyola non è più reso in funzione di un approssimarsi a Dio, ma in una prospettiva tutta profana, di avidità, ambiguità, insabbiamento della verità.
Il mio quarto Sciascia ormai, che mi spinge ad allungare la serie il prima possibile.
“Soltanto le cose che si pagano sono vere, che si pagano a prezzo di intelligenza e di dolore...”
L’hotel Zafer è stato costruito su un eremo. Un posto “al confine del mondo, al confine dell’inferno”, dice il pittore, protagonista e io narrante di questa storia. A costruirlo è stato don Gaetano, uno strano prete che conduce annualmente settimane di esercizi spirituali a cui partecipa il gotha della classe politica e imprenditoriale, uomini accomunati da uno specifico riferimento: “…rappresentavano il mondo cristiano e cattolico nel governo della cosa pubblica e comunque nelle cose volte al pubblico bene”. Il pittore resta a osservare, incuriosito da quello spettacolo di ministri, alti funzionari pubblici, cardinali e vescovi, politici più o meno noti - alcuni dei quali hanno provveduto a far arrivare l’amante (ben cinque ne conta) - e soprattutto stuzzicato dalla cultura profonda, dai modi, dall’intelligenza in qualche modo luciferina di don Gaetano con cui ingaggia schermaglie continue. “Durante la messa non facevano che parlarsi all'orecchio, i vicini; salutarsi con cenni e con sorrisi, i lontani. Si sentivano in vacanza: ma una vacanza che permetteva di riannodare fruttuose relazioni, ordire trame di potere e di ricchezza, rovesciare alleanze e restituire tradimenti…”
Tutto sembra procedere in modo fin troppo scontato: gli esercizi spirituali, interrotti a orari prefissati da pasti luculliani, sono solo la facciata dietro cui si svolgono trattative, si concordano strategie, non senza un certo grado di rozzezza. Fino a quando una sera, nel corso della comunitaria, grottesca recita di preghiere, si ode uno sparo. Davanti agli occhi di tutti l’onorevole Michelozzi cade riverso al suolo. Non sarà l’unico ospite illustre a trovare la morte nel corso del ritiro…
————————————— “Caro Leonardo, ho letto ieri Todo modo, todo modo, todo modo, dapprima un po' insofferente per questi preti e queste messe e questa teologia, poi appassionandomici subito dal delitto in poi, sia per il giallo, sia per la versione infernale dell'Italia democristiana che è quanto di più forte sia stato scritto in materia. Ecco, è proprio il romanzo che ci voleva per dire cosa è stata ed è l'Italia democristiana, e nessuno è stato capace di scriverlo prima di te…” (Lettera di Italo Calvino a Leonardo Sciascia del 5 ottobre 1974. Da Italo Calvino, Leonardo Sciascia. L’illuminismo mio e tuo. Carteggio 1953 - 1985. Mondadori ed.)
Calvino, che al momento della lettura del testo si trova a Parigi, resta così colpito e coinvolto dal gioco intellettuale innescato da Todo Modo da correre in libreria per leggere le corrispondenze tra i passi citati - e quelli taciuti - ne I Pensieri di Pascal, testo che don Gaetano dona nel finale della novella al pittore.
Pubblicato nel 1974, attuale in modo inquietante, Todo modo fotografa con feroce sarcasmo il castello di poteri, intrallazzi, ipocrisie del partito di governo dell’epoca, la Democrazia Cristiana. “Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria labile ragnatela. Anche se di fili d'oro”. Ne svela il linguaggio, fatto di allusioni, reticenze, strutturato sui non detti, sulle verità note ma taciute, per convenienza, connivenza, in una costante reinterpretazione di comodo del detto evangelico “chi è senza peccato scagli la prima pietra”: “…Nell'insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d'ore: della inappetenza di qualcuno e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiar tanto, c'è un limite al mangiare; e così via. Mi resi conto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione.”
Un castello abitato da fantasmi, individui che si ritrovano a gestire il potere privi di qualunque spessore culturale e umano, - poco più che ombre nel racconto di Sciascia - che crollerà agli inizi degli anni Novanta, sotto il peso delle inchieste di Tangentopoli/Mani pulite che porranno fine ad un intero sistema partitico e politico, quello a cui ci riferiamo oggi con la dicitura Prima Repubblica.
Al contempo, come da cifra stilistica propria dello scrittore nativo di Racalmuto, la storia - che assume in modo tenue le tinte del giallo - diviene occasione per declinare un pensiero che si fa filosofia e che si esplicita nei dialoghi in punta di fioretto tra l’io narrante e don Gaetano, entrambi riflessi dell’animo dell’autore, nessuno in grado di rappresentarlo compiutamente (come da lezione pirandelliana), lenti deformanti tra due fiamme, quella dell’amato Illuminismo e quella del dichiarato Nichilismo perfettamente coesistenti nella narrazione sciasciana. “… Riaprì gli occhi, s'inclinò verso di me sulla scrivania. « È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico incommensurabile all'uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare... "Il faut cultiver notre jardin"... Impossibile: c'è stato un grande e definitivo esproprio. E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro anzi non si fa, riaprendoli con chiavi false, grimaldelli e, mi consenta un doppio senso banale ma pertinente, piedi di porco. Tutti. Tranne Candide». «Ma si può leggere». Fece un gesto di noncuranza. «Lo legga». E vivacemente « Deve leggerlo, anzi: per rendersi conto che è solo e che non ha scampo». E dolcemente «Ma perché vuole reprimere in sé tutto ciò che la porta verso di noi? Perché vuol contraddirsi? ». «Perché lei mi contraddice, perché mi contraddice il suo Dio. Non sono un mostro incomprensibile». Mi alzai. Per una volta, volevo essere io a lasciarlo. «Buonanotte» dissi. Non mi rispose…”
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Αυτό το άβολο συναίσθημα του να κλείνεις ένα βιβλίο και να αναρωτιέσαι τι ακριβώς διάβασες είναι αυτό που νιώθω τώρα!Οκ ρε παιδί μου θες να περάσεις μηνύματα ότι αυτοί που βρίσκονται σε θέσεις εξουσίας είναι διεφθαρμένοι και ότι το προσωπείο τους σε ξεγελά και ότι κάνουν τις πιο αισχρές πράξεις και μπλα μπλα μπλα.Ναι οκ και η κουτσή Μαρία το ξέρει αυτό.Μάλλον το κύριο μήνυμα εγώ δε το'πιασα δεν εξηγείται διαφορετικά μιας και όταν τελείωσε το βιβλίο λέω δε μπορεί κάτι δε πάει καλά.Που είναι η λύση του μυστηρίου?Δε χρειάζεται να αναφέρω τίποτα για την υπόθεση την λέει όλη η περίληψη.Όσο για τους φόνους?Εγώ δεν έμαθα τίποτα στο τέλος.Συμπέρασμα:ή εγώ είμαι τέρμα μπούφος ή αυτό που διάβασα ήταν κοτσάνα...
Brevissimo romanzo dalla trama fitta e avvincente, “Todo modo" di Leonardo Sciascia ci racconta una storia ambientata nell’Italia degli anni ’70, dal contesto politico e religioso molto intricato. Sono gli anni delle lotte sociali, ma anche quelli del regno incontrastato di un grande partito cattolico di massa: la Democrazia Cristiana; un partito che mantenne sempre un profondo legame con la Chiesa Cattolica, aiutando quest’ultima a infiltrarsi pesantemente nella politica italiana e nell’ossatura istituzionale del paese.
I fatti narrati ruotano attorno ad un misterioso convento, dove si tengono periodicamente incontri segreti tra politici e membri della Chiesa, che cercano in ogni modo di influenzare il destino dell’Italia. Don Gaetano, un sacerdote, si ritrova coinvolto nelle dinamiche oscure di questo convento, ed è indubbiamente il personaggio più interessante di tutto il romanzo. Gli altri personaggi, come il Prefetto, il Vescovo e il Sindaco, sono altrettanto complessi e rappresentano, a mio avviso in maniera perfetta, le varie sfaccettature del potere, con i suoi tentacoli, i suoi interessi e la sua velata manipolazione.
I dialoghi intensi contribuiscono inoltre a creare una tensione costante, e l'autore è particolarmente bravo a guidare il lettore attraverso questo intricato labirinto di intrighi. La storia si sviluppa in modo molto fluido, ed è costellata da colpi di scena; la prosa di Sciascia poi è come sempre piacevolissima, e permette al lettore di mantenere alta l’attenzione e l’interesse per tutto il libro, fino a raggiungere un finale sorprendente.
μικρό πολύ περιεκτικό.με μεγάλη δόση χιούμορ .αφορά αυτούς που κυβερνούν και κρύβουν τις απάτες τους πάω από την εκκλησία και τους δήθεν συλλόγους για πνευματισμο...πολύ ενδιαφέρον
Yalnızca bedeli ödenen şeyler gerçektir, bedeli zekâ ve acıyla ödenen şeyler. Leonardo Sciascia Her Türlü Dinlenmek icin gittiğiniz bir otelde aklınıza hayalinize gelmeyecek olaylar başınıza gelirse ne yaparsınız. ? Iste roman karakterimiz ressamın başına bu tür seyler geliyor. Birkac gun dinlenmeye gittiği otelde din alıştırmaları dersleri veren bir rahiple tanışır. Ateist ressam icin bu tanışma oldukça ilginçtir. Kimler katılmaz ki bu din alıştırmaları derslerine. Kardinallerden psikoposlara, senatörlere kadar güçlü kişiler. Sakin dingin bir şekilde ilerleyen dersler art arda işlenen cinayetlerle gizemli bir hale dönüşür. Romanin bu noktası okuyucuyu Umberto Eco' nun Gülün Adı romanını anımsatır. Basit bir kurgudan cok ötesi bir metin Her Türlü. Özellikle rahip Don Gaetano ve ressam arasında geçen kilise, tanrı Voltaire, Pascal ve resim sanatı üzerine yaptıkları konusmalarin muhteşem olduğunu söylebilirim. Ressam kilise nedir diye sorduğunda rahibin Medusa 'nın Salı'dır cevabı oldukça düşündürücü. Théodore Géricault tarafından çizilen Medusa'nin Salı isimli yağlıboya tabloda çaresiz hüzünlü yolcular betimlenmiştir. Rahip Don Gaetano kilise insanlara çaresizlik aşılar mi demek istemiştir. Yazar bunu düşündürür. Rahip Gaetano karakteri Voltaire Pascal sevmesiyle de alışkın olduğumuz rahiplerin dışında bir karakterdir. Dogmaların icinde sorgulayan bir adamdır o. Ressamın rahibi gözlüklerinden şeytani ışıkları görmesi kötülük miti olan Pan'dan Mephistopheles 'e kadar gelen bir sürecin uzantisidir. Şeytan da sorguladığı icin düşmüş melek degil midir. ?Iste bu atmosferde Sciascia bize Italya'nin karanlık yüzünü gösterir. Katolik kilisesi ve yozlaşmış toplum iç içe geçmiştir. Bize ikiyüzlü ahlak anlayışının portresini de sunar. Metin düşündürücü ve guzel. İlginiz varsa okuyunuz. Keyifli okumalar
Sciascia è un autore che amo particolarmente e che conosco, per una volta posso dirlo, grazie alla scuola. Nel lontano novanta... mi recai ad Agrigento per il Premio Pirandello, concorrendo con una tesi intitolata "Sicilianismo e Sicilitudine", dove partendo dall'opera del grande scrittore siciliano analizzavo le differenze tra lui e gli scrittori precedenti che si erano cimentati nello scrivere di mafia (pochi ad onor del vero). Un modesto lavoro che ebbe infatti poca fortuna. Ma mi permise, per una volta, un approccio critico ed analitico ad un autore più che quello da semplice e disimpegnato lettore (che ad averci tempo andrebbe applicato più frequentemente).
Questa volta l'obiettivo della disamina sciasciana non è la mafia, bensì l'altra grossa cupola di stampo italiano: la Chiesa (o la chiesa?). Non nel suo insieme di istituzioni, ma nell'accrocchio di potere ed interessi. Anche qua abbiamo un "vecchio saggio" che sembra tirare le fila delle vicende: Don Gaetano (e questa volta il titolo è dovuto all'abito talare). Ed un protagonista, un pittore di cui non ci viene rivelato il nome, compassato ed arguto. Sembrerebbe quasi una riedizione della coppia formata dal capitano Bellodi e Don Mariano Arena. La contrapposizione delle due figure permette di mettere a fuoco i vizi, le debolezze e le compiacenze del resto dei personaggi, figure stereotipate ma funzionali alla bisogna (Grazie! Grazie! Grazie! Almeno qualcuno che non scrive telenovelas c'è!).
Se prima della lettura di Todo Modo era mia ferma convinzione che Sciascia fosse un profondo conoscitore della cosa siciliana, ora sono convinto che questa conoscenza possa essere estesa a tutta la penisola italica. Lo squarcio che infatti ci offre, in questo romanzo breve, è declinabile ovunque e non solo in terra di Sicilia. E' la rappresentazione di quel provincialismo trattino clientelismo trattino familismo amorale che tanto tornava nei suoi articoli di giornale (insieme alla "linea della Palma" che saliva verso Roma e che oggi sarà arrivata a Trento). Ciò che ancor più sorprende, al di là dell'attualità del presente libro (che invece deprime), è quanto Sciascia preferisca sempre la lucida analisi della realtà agli strali invettivi (e ce ne sarebbero da fare). Come detto prima questo magister elegantiarum si affida sempre a riflessioni sottili per mezzo dei suoi protagonisti che disvelano le mistificazioni (o l'ipocrisia) della nostra società. Peccato che più volte queste processi di demistificazione siano stati esattamente ribaltati. Ad esempio, basti pensare al famoso monologo di Don Mariano Arena, ne Il giorno della civetta, sugli uomini, mezzuomini e quaquaraquà. Tale discorso sottolineava l'arbitrarietà (e la prepotenza) di chi tendeva a porsi al di sopra degli altri. Morale della favola: viene ripreso a piè sospinto dal balordo di turno (si va dal politico all'allenatore di calcio) che lo interpreta alla lettera, come se la divisione in categorie di Don Mariano dell'umana progenie corrispondesse a realtà. Il che ci dice anche quanto fosse di occhio lungo Sciascia e quanti di noi abbiano dentro più un Don Mariano che un capitano Bellodi. Anche qua, ça va sans dire: a scindere la figura dell'antagonista dal protagonista, scotomizzando quest'ultimo, si rischia di trovare una logica legittima nella teorizzazione dell'abuso che tale non è. E lo sottolinea ancor di più il finale (non ve lo anticipo tranquilli!) meno ottimista ma meno rassegnato.
Pensare che questo testo e' stato scritto nel 1974 ha dell'incredibile. L'ambiente sembra sia stato disegnato dopo qualche anno da Manara nelle Avventure di Giuseppe Bergman. E quel monastero esiste davvero, in Sicilia. O quantomeno uno che gli assomiglia moltissimo: ci sono arrivato per caso, e l'ho fotografato, parecchi anni fa. S. è una persona che faremmo parlare per ore, con quella cadenza sicula e netta, fatta di sottintesi e saggezza. Una bolla fuori dal mondo, questo testo, raccontato con intelligenza e cultura.
Sinceramente, questo romanzo non l'ho capito: l'ambientazione è anche interessante, ma poi la trama si impantana tra dialoghi pretenziosi e complicati riferimenti culturali per poi finire bruscamente con un finale che lascia tutto sospeso. Una grande delusione.
Un romanzo denso, affascinante, complesso, che si presta a molteplici livelli di lettura. Quello della denuncia (arguta, spietata, della classe dirigente della Prima Repubblica), quello della disamina (del ruolo della Chiesa e della sua ingerenza nello stato italiano; l’oscura e ambigua commistione di clero e politica), quello della disputa filosofica (tra il laico e razionale protagonista-narratore, alter ego dello scrittore, e il “prete cattivo” don Gaetano), quello della riflessione (sulla giustizia e la ricerca della verità), quello del giallo (ma è un giallo fuori canone, dai risvolti quasi surreali). Ricchissimo di riferimenti letterari e citazioni artistiche, ciascuno dei quali, nel contesto in cui è presentato, racchiude un mondo carico di significati da scoprire, esplorare. Ad incorniciare il tutto, una scrittura notevole, in cui non una singola parola appare fuori posto.
Romanzo giallo atipico e affascinante, in cui Sciascia intreccia il mistero con una profonda riflessione morale e politica. È sicuramente un libro da rileggere: solo così si può apprezzare pienamente e cogliere le tante sfumature, sopratutto dei dialoghi. È un’opera complessa ma estremamente intrigante, capace di offrire spunti di riflessione sorprendentemente attuali.