Nell'Alta Langa erano potenti e temuti, i Costamagna. Quando passava uno di loro, la gente mormorava e si toglieva il cappello. Poi è arrivata la guerra, che ha portato via troppi uomini e stravolto ogni equilibrio. Adesso i padroni di un tempo devono vendere le loro terre per far quadrare i conti, e rompersi la schiena in quelle rimaste. Virginia, coi suoi diciannove anni e la sua sfacciata vitalità, è la più giovane della famiglia, l'ultima dei Costamagna, e non ha alcuna paura di faticare per costruirsi un futuro diverso. Un giorno, tra i campi spunta uno sconosciuto. È un ex partigiano e ha percorso mille chilometri a piedi, dice, dal nord della Francia, soltanto per restituire un medaglione d'oro ai genitori del compagno d'armi che gliel'ha affidato in punto di morte. Avrebbe potuto venderlo e con quei soldi imbarcarsi per l'America, dimenticare l'orrore, ma ha preferito onorare quel debito morale. Accolto dalla Duchessa, l'anziana donna che tiranneggia sui destini e sugli affari sempre più incerti dei Costamagna, il ragazzo viene messo alla porta: vadano a quel paese lui, il medaglione e anche la memoria di quel nipote traditore che ha combattuto al fianco dei "rossi". E così se ne va con la coda tra le gambe, ma qualche sera più tardi ricompare in una cascina vicina, con una chitarra in mano e una voglia di suonare che fanno eco alla splendida irrequietezza di Virginia. Con una formidabile sensibilità ai moti dell'animo umano, Davide Mosca ha scritto un romanzo di parole precise e vere, di paesaggi sanguigni, di uomini che escono smarriti dalla guerra e di donne che hanno cuore e gambe per inseguire il loro destino.
Arrivata alla fine di questo libro mi sento abbandonata e un pó arrabbiata. Abbandonata perché ho semplicemente adorato la storia, i personaggi, ma soprattutto queste colline. Arrabbiata per la conclusione scelta, soprattutto per come viene stoppata la narrazione.
Dalla prima pagina facciamo conoscenza con i Costamagna, questa famiglia nobile delle Langhe entrata in rovina dopo la seconda guerra mondiale, che cerca di andare avanti come possibile con quel che gli resta. Ma a pensare davvero a tutto alla Pia sono Virginia, detta Ginia, 21 anni, la figlia femmina più giovane rimasta lì mentre la più grande, Lalla, si è sposata e trasferita a Torino, e la mamma, unica a comprenderla davvero per il suo carattere impulsivo, passionale e un pó da maschiaccio, poco prudente, e che adora ballare, con cui ha un rapporto speciale.
“-Non vuoi sapere quello che mi hanno detto? -Non ha importanza e poi i sassi finiscono per fare valanga a forza di farli rotolare. -È che non mi piace essere tirata in mezzo. -Ciascuno è in mezzo agli altri. Chiudere le orecchie significa spesso chiudere il cuore…Invece ascoltare fa bene, anche quando ti dicono cose cattive. Ascoltando gli altri ascoltiamo noi stessi. -Siamo cattivi allora? -Siamo feriti. -Tutti quanti? -Tutti quanti. Ma guarda la vigna, da ogni ferita nasce un tralcio nuovo, che farà un’uva più ricca e gustosa. Raccolsi le ginocchia e le strinsi al petto. -A volte ho paura di rimanere acerba. -Forse che l’uva acerba non si gode il sole della primavera o non si rinfresca alle piogge improvvise di giugno? Forse che non rabbrividisce di piacere alle prime brezze notturne di metà agosto? Goditi l’acerbezza fino all’ultima goccia, e così un giorno ti godrai la maturità.”
È attraverso le parole della ragazza che vediamo tutto, attraverso i suoi occhi e le sue sensazioni, lei che percorre le colline in lungo e in largo ogni giorno, con la sua gerla sulle spalle per consegnare i prodotti che gli vengono richiesti dai vicini. La guerra purtroppo gli è costata, oltre a una ingente parte del patrimonio, anche due vite: il fratello Nuto è morto in guerra e Beppe invece sui boschi intorno casa, come partigiano. Il padre, inizialmente illuso dalla propaganda fascista, non si è più ripreso, sentendosi in colpa di aver mandato a morire i propri figli, ed è diventato l’ombra di se stesso. Insieme a loro vive anche la nonna, chiamata Duchessa, che non ha voluto abbandonare i vecchi fasti e il tenore di vita precedente e perciò appoggia il figlio maschio maggiore rimasto, Sandro, dedito ad alcol, gioco e donne, che sperpera il poco che gli resta indebitandosi in giro.
“Ero stata una sciocca ad aspettarmi giustizia. Chi ero io per pretendere di veder rispettato il mio amore in un mondo che aveva appena finito di farsi a pezzi e che poteva ricominciare da un momento all’altro? Avevo peccato di supponenza, mi ero creduta tanto speciale da meritare una felicità tutta mia.”
Questo libro è la storia di questa particolare famiglia, ma è anche uno spaccato storico di quel che la guerra ha lasciato in Italia, in particolare nelle campagne, con famiglie spezzate, uomini dall’animo dilaniato dai sensi di colpa e traumatizzati per ciò a cui hanno dovuto assistere, debiti ingenti a cui far fronte senza alcun aiuto, spezzandosi la schiena sui campi per poter campare. Parla di come il fascismo sia stato visto spesso da diversi punti di vista, riuscendo ad illudere e irretire gli animi di persone semplici che non ne intuivano la pericolosità, e anche di come dei “neri” convinti restassero nei paesi a far la guerra ai “rossi” che gli capitavano a tiro, con i più futili pretesti. Ma parla anche di come, dopo tutti quegli orrori, ogni paese si sia fatto forza provando a ricreare da subito quelle che erano le usanze, le abitudini di prima, come ad affermare chela guerra non era riuscita ad intaccarle, e un bisogno di normalità.
“La guerra aveva giocato con il tempo e con le persone, certi giorni mi sentivo una bambina, a cui era stata strappata l’infanzia, non l’età dei giochi, che da noi non usava, ma il tempo dell’irresponsabilità, del correre nei prati senza pensare ai neri, ai rossi, agli azzurri.”
Con questo sfondo che impera, assistiamo alla nascita di due storie d’amore entrambe tormentate, anche se per motivi molto diversi: quella di Virginia per Italo, il partigiano che ha conosciuto il fratello Beppe, e quella di Cesare, l’amato fratello, per Lidia, loro vicina e amica dall’infanzia. Qui si intrecciano tutti i complessi motivi derivanti dal passato, dall’amaro per aver perso questo famigerato titolo nobiliare, che continua a dirigere le scelte di qualcuno, ai sensi di colpa per essersi nascosti e non aver avuto il coraggio di combattere mentre i fratelli morivano, agli errori che si faticano ad abbandonare come l’aver scelto il colore sbagliato, che segneranno la fortuna di una delle coppie e la fine tragica per l’altra.
Mi sono chiesta fino alla fine se l’autore intendesse approvare, come dicono alcuni protagonisti, che bisogna avere pazienza per arrivare ad ottenere quel che si vuole, o invece l’atteggiamento opposto, di desiderare tutto subito e non poterne fare a meno. L’epilogo sembrerebbe indicare la prima alternativa ma non sono convinta che sia il messaggio che intendesse mandare.
Il tempo è scandito tutto dalla campagna, dalla vita rurale, in cui ci caliamo interamente leggendo il romanzo, dall’inizio alla fine, con le immagini che Mosca riesce a ricreare sulla carta; con le sue descrizioni di quei superbi paesaggi visti dagli occhi della giovane protagonista, ci sembra proprio di essere lì, di muoverci con lei tra crinali e bricchi e ciabot, di passare da un campo a un bosco, sentendo gli uccellini, l’arsura del sole in estate e la brina scrocchiare sotto i piedi in inverno, di sentire i profumi della terra, come quel “profumo violetto” che ho adorato e che per la prima volta riesce a rendere quella che era una mia immagine in memoria.
Ed è grazie a queste parole che gli si possono perdonare le lacrime per l’addio e soprattutto per avermi spezzato il cuore con il finale, anche se purtroppo atteso.
“Quando infine posó la chitarra gli chiesi che ne pensasse dell’amore. -Dell’amore o dell’amore tra me e te? -Che differenza c’è? -Che il primo non esiste, non esiste senza oggetto. L’amore è sempre per qualcosa o per qualcuno, altrimenti è solo una parola. Non puoi amare gli altri, puoi amare l’altro. Mi capisci? -Allora dimmi che ne pensi del nostro. Si sdraiò con le mani incrociate sotto la testa. -Si può amare davvero una sola volta. Quelli prima sono soltanto anticipazioni, tentativi per approssimazione, e quelli che eventualmente arriveranno dopo saranno solo emulazioni. -Che cos’è un’emulazione? -Un’imitazione, per analogia o per contrario. -Che cos’è un’analogia? -Una somiglianza. -Quindi un solo amore per ciascuno -Se hai amato una volta, hai amato per sempre.”
4,5* Un libro che pare un quadro della Langa. La scrittura di Mosca è davvero come un colpo di pennello sulla tela bianca. Le descrizioni vanno di pari passo con la storia, non annoiano mai bensì ci catapultano nelle stagioni piemontesi, fra i suoi campi e le vigne. Canelli, Santo Stefano Belbo, tutti luoghi che, per chi sa, sono i posti dello scrittore Cesare Pavese. C’è poi un altro riferimento importante che collega la storia di Mosca e la storia della vita di Pavese. Il che, mi ha lasciata un attimo perplessa. (Il resto è spoiler)
Virginia è la nostra protagonista. Gambeinspalla, così la chiamano nelle sue terre per la velocità con cui sfreccia nei sentieri, la sua casa. Ogni giorno si guadagna il pane per la famiglia e il futuro per sè stessa che si dipana sotto ai suoi piedi e con la gerla sulle spalle. Il suo temperamento è il perno della storia: irrequieta, diffidente, tagliente, impetuosa ma anche sensibile e premurosa. È difficile non immaginarsela. Virginia si fa un po’ beffe della sua situazione: la famiglia un tempo era rispettata e ricca ma dopo la guerra tutto è cambiato. Ora si ritrovano a vendere le proprie terre per far quadrare i conti, fare economia su tutto, anche sui propri sentimenti. La famiglia Costamagna si è sgretolata durante la Grande Guerra e Virginia ne è una testimone. Il padre, un tempo nobile e fiero, si accartoccia muto sul suo bastone, la madre osserva impotente, due fratelli sono caduti vittime della guerra, la Duchessa che, ormai anziana, volge il suo sguardo all’antica nobiltà che le ha dato quel nome e tiranneggia nel presente, Sandro - il fratello maggiore - che, anziché mettersi di buona lena per gestire la crisi, riesce a pensare solo a quella che ha nel cuore e si lascia guidare dai vizi e dal fetore del suo stesso fallimento, Virginia e Cesare - i più giovani - si sobbarcano di tutto il peso del passato, lo sguardo teso al futuro che si basa su un pericoloso castello di carte traballante chiamato illusioni della giovinezza. Un giorno, Virginia incontra Italo, un forestiero ex partigiano che viaggia con la sua chitarra, dice di essere venuto dalla Francia ma anche di essere stato il compagno di guerra di Beppe, il fratello caduto. Virginia, cauta e diffidente come un cane che ha saggiato più volte il bastone, si lascia andare all’amore quando ascolta la musica di Italo, e lui rimane incantato dalle danze con cui Virginia gli risponde a tono. Da qui nasce una storia d’amore che, diciamolo, ha dell’ovvio se dico che non è ben voluta da alcuni membri dei Costamagna. Anzi, sarà proprio questa relazione che riscriverà il destino di questa famiglia.
Ad ogni pagina possiamo vedere tutti i colori delle colline nelle stagioni che mutano, il suono dei passi svelti e dei sentimenti di Virginia che vanno su e giù per i sentieri, il sapore dolce-amaro dell’amore di due amanti. È tutto scritto qui, nero su bianco, è la speranza di un futuro migliore e diverso che si scontra contro il proprio lato oscuro: la durezza e le asperità.
”Entrambe piangevamo in silenzio, senza nemmeno sapere il perché, se per la gioia della condivisione, la coscienza del pericolo, o per quell'oscuro senso di colpa per cui la felicità era sempre qualcosa di sconveniente, carpito, estraneo, un dono che toccava per diritto agli altri, agli uomini soprattutto, e a cui avremmo dovuto fare al massimo da guardiane.”
Se dovessi cercare un solo aggettivo per descrivere la scrittura di Davide Mosca, direi “piena”. Piena perché ogni parola è come se ne contenesse altre dieci, ogni descrizione è tratteggiata con pennellate decise e colme, la sua protagonista è così piena di luce e di vita che si fa fatica a non socchiudere gli occhi quando la si incontra.
Eppure, nonostante la bellezza delle parole usate, e le loro combinazioni, “Amare una volta” è un libro fatto di silenzi.
Virginia, detta Ginia, con la madre non ha bisogno di dire le cose, con lei “esistevano pur senza nominarle”. Sul loro rapporto ci sarebbe da scrivere tantissimo, ma mi limito a riportarvi uno dei passaggi che più ho amato:
“Entrambe piangevamo in silenzio, senza nemmeno sapere il perché, se per la gioia della condivisione, la coscienza del pericolo, o per quell’oscuro senso di colpa per cui la felicità era sempre qualcosa di sconveniente, carpito, estraneo, un dono che toccava per diritto agli altri, agli uomini soprattutto, e a cui avremmo dovuto fare al massimo da guardiane”.
Con suo fratello Cesare corre, salta, scruta. Quelle che rivolge alla Duchessa sono parole piene di fiele, quelle che scambia con suo padre sono piccole, scarne e prive di tono. Con la sua migliore amica si intrecciano promesse, che diventano intenti.
Ma il silenzio è anche quello dei morti, quelli “che non muoiono mai”.
Virginia è una ragazza che afferra la vita un passo alla volta, che balla, che scruta, osserva, che non capisce la gente che si arrende, che diventa collina, mulo da soma, uccello, rivolo d’acqua. Nella sua vita le parole non hanno poi così tanta importanza.
“Alla campagna non avevo mai dovuto spiegare niente, mi capiva senza doverle giustificare alcunché”.
Iniziano ad assumere un senso del tutto nuovo quando qualcuno canterà per lei. Uno straniero, un forestiero che le reciterà versi di poesie, che le spiegherà il significato di parole che non conosce, che le racconterà storie lontane per capire il presente.
Italo le mostrerà il linguaggio di un amore diverso da quello che finora aveva conosciuto. Un amore che diventa ciarliero anche nei momenti improbabili, che si fa rumore quando bisogna nascondersi.
Virginia impara, divisa tra chi era e chi potrebbe diventare. I suo passi sanno dove andare, ma, forse per la prima volta, non sanno come raggiungere quel futuro che sembra così meraviglioso eppure così improbabile.
Sceglie di crederci, Virginia, anche se il lettore un po’ meno. Si affida alle parole, Ginia, lei che non ha continuato gli studi, mentre il lettore vorrebbe solo altre pagine piene.
Perché “Amare una volta” finisce, ma volendo è proprio da lì che potrebbe ricominciare. Si fa fatica a lasciare Virginia, si fa fatica a trovare le parole per descrivere lei e quelle che ha scelto Davide Mosca per raccontarcela.
L’invito allora è quello di leggere il romanzo per scoprire tutta la meraviglia che contiene, per lasciarsi andare e per percorrere un viaggio indimenticabile.
Davide Mosca con “Amare una volta” ci porta nelle Langhe, nel 1947, in quel Piemonte di una volta, quello delle strade in mezzo al nulla, al verde, quello in cui i terreni, con i loro frutti, sono casa. Nel suo libro Davide Mosca ci racconta l’amore di una giovane donna che con la sua gerla macina chilometri e chilometri per consegnare i prodotti dell’azienda di famiglia, quella dei Costamagna; un’azienda agricola a rischio, che ha ceduto in più punti, dopo la guerra. "Racconta di quell’amore unico, che sboccia e non te ne accorgi; non lo avevi nemmeno piantato in te quel seme. Improvviso e pericoloso, quel sentimento, darà nuova consapevolezza alla protagonista che, per la prima volta, metterà ogni cosa in discussione. Un giorno uno sconosciuto incrocia la stessa strada di Virginia; dice di essere stato in guerra con suo fratello, di aver riportato qualcosa che gli apparteneva. Italo è un ex partigiano che si presenta dai Costamagna, senza essere creduto, né troppo ascoltato. Eppure quel ragazzo, l’ultimo ad aver visto Beppe vivo, resta in zona, arrabattandosi qua e l�� per un po’ di pane e un giaciglio su cui passare la notte, accompagnato dalla sua chitarra e dai suoi canti sulla libertà. Virginia che ama ballare e Italo che ama suonare e cantare: il destino sembra averli messi sullo stesso cammino. [...]" Per leggere la nostra recensione completa, basta fare clic sul link: https://bookshuntersblog.com/2022/02/...
Un libro in grado di tenermi sveglia fino all'alba è già una rarità. Questo poi, arrivata all'ultima pagina, è riuscito a tenermi sveglia anche dopo, con gli occhi sbarrati e una cosa che sembra una lacrima.
Da tanto non trovavo un libro scritto così bene! Ti fa vivere pensieri e immagini, sembra davvero di correre dietro a Ginia per le Langhe sentendo su di sé tutto ciò che la infiamma. Una gemma!
Amare una volta è un libro molto carino, ma sinceramente nulla di più. Il personaggio di Virginia è interessantissimo ma si perde un po’ tra lunghi episodi raccontati totalmente inutili per la trama e di cui avremmo potuto fare a meno. Credo sia questo il difetto del romanzo che se fosse stato un po’ più breve sarebbe stato ancor più apprezzabile. Nel complesso è comunque un romanzo godibile soprattutto nell’ultima parte che ti tiene incollato al libro e provare qualche emozione.