L’Europa, imbarbarita e senz’anima, ha dimenticato le sue origini e persino il suo nome. Per ritrovarlo, quattro Argonauti occidentali – nomadi incalliti – battono il Mediterraneo su una barca ultracentenaria portatrice di una grande storia. Sulle coste del Libano, prendono a bordo una giovane profuga siriana di nome Europa, che chiede di fuggire con loro verso ovest. Da quel momento, rivive in lei la leggenda della principessa fenicia rapita da Giove-toro, mentre il viaggio attraversa le meraviglie del mare aperto ma anche la deriva di un mondo fuori controllo: naufragi, emigrazioni e turismo di massa, conflitti, pestilenze, incendi e alluvioni. Ingravidata in sogno dal re degli dei, la ragazza si svela come la Grande Madre e, nel vedere per la prima volta la sua nuova terraferma, esprime la propria gioia in modo tale che i compagni, commossi, decidono di dare al continente il nome di lei. La sua epopea li aiuterà a comprendere il senso della loro patria comune: Europa è “il sogno di chi non ce l’ha”, di chi viene da lontano, non di chi la abita. Ma soprattutto Europa è femmina, è una figlia dell’Asia, è una donna benedetta dagli dei, e forse la capostipite di tutti i migrati In un trittico ideale con "Il filo infinito" e con i versi dedicati all’eroina de "La cotogna di Istanbul", Paolo Rumiz riscrive al femminile l’epica del nostro continente, mescolando mito, viaggio, storia e mistero alle tragedie dell’attualità. È un libro scritto di notte, questo, come tiene a precisare il suo autore, e non è un dettaglio: nel buio, attorno al fuoco, sono nati i racconti delle nostre radici. Di queste narrazioni fondanti "Canto per Europa" ha il ritmo e il respiro.
Paolo Rumiz è un giornalista e scrittore italiano. Inviato speciale del "Piccolo di Trieste" e in seguito editorialista di "la Repubblica", segue dal 1986 gli eventi dell'area balcanica e danubiana; durante la dissoluzione della Jugoslavia segue in prima linea il conflitto prima in Croazia e successivamente in Bosnia ed Erzegovina. Nel novembre 2001 è stato inviato ad Islamabad e successivamente a Kabul, per documentare l'attacco statunitense all'Afghanistan.
Paolo Rumiz ha la straordinaria capacità di accompagnare il lettore in ogni viaggio che compie. In "Canto per Europa", accompagna il lettore in un viaggio nel tempo, tra miti e realtà mescolando la poesia e la prosa. Un viaggio che, oltre a essere un canto vero e proprio, sembra più una litania di personaggi, storie e luoghi. Dal Libano alla Grecia passando per l'Italia, insieme alla barca Moya, i quattro argonauti occidentali intraprendono un viaggio lungo, speranzoso e difficile. Lungo il percorso, danno ospitalità a una giovane siriana fuggiasca che ha un bigliettino con la parola "Evropa" che non si sa se sia il suo nome o la meta dove recarsi. Da questo momento, si entra nel mito con Europa, nome o meta che sia, che cerca di capire la sua strada. Un viaggio sulla nostra patria, su una Europa che è "il sogno di chi non ce l'ha", ma anche di chi la cerca senza mai trovarla. Un viaggio ai limiti del mito che affonda le sue radici nella storia sperando di trovare un approdo, quella terra promessa così agognata e sempre più lontana.
La situazione in questo momento: sono seduta alla scrivania per fare il punto su questa lettura in compagnia della mia copia del libro e sorrido un po’ per come l’ho combinata! Post-it, note, orecchie, pagine un po’ accartocciate da quelle gocce d’acqua di mare che avevo sulle dita quando l’ho letto in spiaggia. Perfino dei granelli di sabbia qua e là! C’è chi vuole i libri perfetti e immacolati, ma quella persona non sono io. Per me sono tutti segni di una lettura vissuta intensamente tra ragionamenti, analisi, domande, suggestioni, immagini… tutti elementi che hanno davvero risuonato dentro di me perché, in fondo, mi appartenevano già. Le ho viste davanti agli occhi quando qualcuno ne ha scritto, ma erano già mie. Assurdo. Un libro di cui condivido lo spirito come mi è successo poche altre volte prima d’ora, oltre che, per una straordinaria coincidenza, la lettura giusta nel contesto giusto che ha affrontato gli argomenti giusti nel luogo e nel momento giusti. In breve, questo libro doveva trovarmi – o io trovare lui - ed è sicuramente il migliore del mio 2023, almeno fino a qui.
In realtà non servono grandi analisi perché Rumiz si spiega da solo e molto chiaramente nell’ultima sezione dell’opera. Dopo aver portato avanti una narrazione fondata precisamente sulla centralità e sull’importanza del simbolo, l’autore lo smonta e lo spiega con schiettezza, fuori dai denti. Didascalico? Forse perfino presuntuoso nel sottovalutare il lettore? Forse, ma per una buona causa: il messaggio è troppo urgente, troppo importante e portatore di temi che troppo spesso generano scontri e fraintendimenti. Detto questo, quindi, è giusto non unirsi al chiacchiericcio confuso e lasciar parlare lo stesso autore prima attraverso i suoi simboli e poi con la sua stessa voce.
Giusto qualche punto saliente, allora.
La prima cosa a colpire il lettore è sicuramente la metrica. Eh sì, questo è dichiaratamente un canto fin dal titolo e, pertanto, in versi. Ammetto che a pagina uno ho pensato che Rumiz si sarebbe incartato presto in una sfida letteraria molto difficile, ma a fine pagina mi ero già ricreduta. A parte la resa straordinaria e lo stile assolutamente magistrale dell’autore che intreccia immagini straordinarie una dopo l’altra in una narrazione poetica stupenda, quello che rende vincente questa scelta stravagante è la coerenza del pensiero che c’è dietro, la continuità con i temi trattati e con il messaggio al cuore del racconto. Ci sono dei motivi ben precisi per i quali il verso è l’unica forma possibile per convogliare questa materia nel modo più razionalmente corretto e allo stesso tempo più incisivo dal punto di vista immaginifico.
Si tratta di un racconto profondamente ancorato nei luoghi, nel Mediterraneo, o meglio, in un Mediterraneo tra la realtà e il sogno. Siamo, però, completamente fuori dal tempo, in una narrazione situata nel presente così come nel passato più remoto e sempre rivolta al futuro. Siamo nella dimensione del mito che, situandosi fuori dal tempo, è l’unico punto di osservazione appropriato per una riflessione che voglia guardare i millenni dall’esterno e tirarne le somme. Allontanandoci e ampliando il nostro sguardo (prerogativa europea fin dall’etimologia, da Euri Ops, appunto, “sguardo largo”), vediamo il tempo non come le religioni monoteiste che lo descrivono in modo lineare, ma come il paganesimo precedente, quello del mito, che lo interpreta come una spirale. Siamo alla fine di una spira, la Storia è conclusa e ora deve ripetersi da capo, uscire dalla stagnazione rigenerandosi, ripartendo dal punto d’origine.
Quale Storia? Quella dell’Europa stessa. Abbiamo perso la nostra identità, il nostro epos, la nostra visione, il nostro sogno. Siamo troppo lontani dall’origine e dobbiamo tornarci. Non sappiamo più chi siamo, non ricordiamo più da dove veniamo e questo smarrimento ci porta a contraddire costantemente e nei modi più vergognosi la nostra stessa natura. Il Mediterraneo, “lo sposalizio tra Asia ed Europa” è sempre stato “uno spazio di incontri e di taverne”, di isole e di polifonia linguistica, culturale e religiosa. E allora perché nel presente siamo terrorizzati dalla diversità? Cos’è questa perversione di noi stessi? Perché ci chiudiamo nei nostri confini geografici così come in correnti di pensiero unico opposte ma ugualmente limitanti? Dobbiamo riappropriarci di noi stessi, rinascere. Per farlo, ci serve una madre, una società femmina. Siamo stanchi “di padri barbuti, di alzabandiera, di patrie e di eroi”. Stanchi “di miti machisti”, “di eroi assetati di nemici, gonfi di cartucciere e di inni alla gloria delle armi”. Abbiamo bisogno di una prospettiva diversa. “La nostra diversità è femmina e […] si fonda sul coraggio vero, quello del più debole”, quello di una migrante che arriva dall’Asia, così come accadde all’origine della nostra Storia. Questa è nostra madre. In lei c’è la nostra identità e la nostra origine: in una ragazza che, come tanti altri, non sa davvero dove sta andando, non ci conosce per quello che siamo diventati ma ha ben chiaro il sogno che ha di noi, quello di cui anche noi dobbiamo riappropriarci. In fondo, “questa terra è il miraggio di chi non la possiede, di chi traversa il mare con fatica. Forse è il sogno di chi viene respinto e non di chi l’abita, sazio, da secoli.”
Guardiamo i nostri luoghi, il nostro bellissimo Mediterraneo, luogo di celebrazione della diversità, di profumi, di flora e di fauna, di miti, religioni e lingue. Respiriamolo tra i versi di Rumiz. Ascoltiamone l’eco che il mito senza tempo riporta nel presente dai tempi remoti. Ricordiamo i nostri Kazantzakis, Kavafis e Omero così come altre voci europee come quelle di Coleridge e Conrad che hanno portato attraverso i secoli e la letteratura il suono delle onde. Ripercorriamo la storia dei luoghi abbandonando la superficialità di un turismo che li trasforma in cartoline di loro stessi, privandoli dell’anima. Liberiamoci dell’inutile, delle “dogane” e delle “scartoffie” che non ci rappresentano e ci allontanano da noi stessi. Usciamo da uno stato di isolamento e di alienazione che ci rende infelici e ritroviamoci sulle isole e nelle taverne come abbiamo sempre fatto. Ci siamo lasciati sedurre dal profitto, abbiamo trattato il nostro mare come “la pattumiera della terra” e lo abbiamo popolato di navi da crociera in cui non è neanche necessario vederlo davvero per attraversarlo come se fosse uno spazio vuoto di significato. Abbiamo deliberatamente dato fuoco alle nostre terre, ad alberi millenari per trasformare tutto in “terreno edificabile” come se nient’altro che il profitto avesse importanza. Abbiamo ceduto alla violenza delle mafie e all’abusivismo edilizio che deturpa il nostro paesaggio. Passo dopo passo ci siamo autodistrutti e svuotati sempre di più fino a perdere la nostra essenza più profonda: quella capacità di valorizzare il diverso che ci portava a vedere lo straniero come un dio sotto mentite spoglie e a fare sì che il Partenone non venisse distrutto ma “da tempio diventasse chiesa, poi moschea e poi museo”. Dobbiamo ritrovare noi stessi ad ogni costo. Come? Per prima cosa, apriamo i porti a nostra madre e sforziamoci di essere all’altezza del suo sogno.
Ci sono libri che meritano il loro tempo. Sono libri che non puoi permetterti di affrontare in metropolitana, fra i ritmi sincopati delle fermate che si succedono l’una all’altra, e tu ti perdi ad ascoltare lingue sconosciute e a immaginare le traiettorie che ci hanno portato tutti lì in quel preciso momento, fra Cimiano e Crescenzago.
No, ci sono libri che affronti sul divano, con il silenzio di un pomeriggio domenicale intorno, la luce del sole che bagna le vetrate, il gatto che ronfa e forse sogna di essere inseguito, tanto da muovere le zampette su una tua spalla.
Il cuoricino mi ha detto che Canto per Europa di Paolo Rumiz andava letto così, calcando l’attenzione su ogni parola, su ogni “a capo” della meravigliosa edizione Feltrinelli che lo prova a contenere. E scrivo “ci prova”, perché il Mediterraneo trabocca salato dalle pagine, il vento della città in cui nacque l’Autore soffia fra i capelli, il divano si trasfigura in Moya, scafo di legni vivo. E accanto ti siede Europa (anzi, “Evropa”, il mare sentenziò “così chiamatela”), con le sue caviglie, le sue bianche braccia, il suo viso che sembra mostrare due lati come una moneta. E’ una viaggiatrice come lo sono i moderni Argonauti compagni di viaggio, ma è soprattutto una idea: l’Europa che è “il sogno di chi non ce l’ha”, ma anche Europa che “ripeti e già ne avverti il senso, fatto di guerre, di amori e di naufragi”. E mai delle parole scritte su una pagina mi sono sembrate così attuali.
Ci sono libri che meritano anche un loro spazio. Un giorno io e Mogliericcia ci decideremo a creare uno spazio per i libri che ci hanno autografato, e Canto per Europa di Paolo Rumiz sarà il primo, con il suo fiore che ci sorride e ci dice che tutto andrà nel verso giusto, che basterà annaffiarci.
Probabilmente non ero pronto io per un poema epico del genere, probabilmente Rumiz non riesce mai a coinvolgermi nei suoi racconti per una mancata sintonia, probabilmente non ho capito io il senso di questo testo, ma quando leggi un libro e non vedi l'ora di finirlo per poter abbandonarlo sulla libreria, è evidente che qualcosa non è scattato. Una stella, a malincuore.
Rumiz mi piace sempre, qua propone come suo solito un viaggio ma diversamente da altri suoi libri non si muove in una dimensione giornalistica, storica bensì epica e lo fa con una narrazione poetica che ci porta fuori dal tempo, alle origini di tutto ma proprio per questo intrinsecamente connessa al presente e con il futuro come vero protagonista. Ci parla del mito di Europa, ma anche della storia del continente quindi della nostra e si interroga sull'identità e sulla prospettiva di questa terra e soprattutto di chi ci abita. Una conclusione didascalica perché l'autore ha l'impellente necessità dopo il racconto simbolico di diventare cristallino.
“Canto per Europa” di Paolo Rumiz è un’opera che tocca profondamente l’anima e risveglia il senso di appartenenza a un continente che sembra aver perso la sua identità. Paolo Rumiz, con la sua prosa poetica e avvolgente, ci conduce in un viaggio epico attraverso il Mediterraneo, dove quattro Argonauti moderni cercano di riscoprire le radici dell’Europa. La storia si intreccia con la leggenda della principessa fenicia Europa, rapita da Giove trasformato in toro, e si arricchisce di temi attuali come le migrazioni, i conflitti e il cambiamento climatico. La giovane profuga siriana, che i protagonisti accolgono a bordo della loro barca, diventa il simbolo di un continente in cerca di sé stesso, un continente che deve fare i conti con il suo passato per poter affrontare il futuro. Rumiz riesce a mescolare mito e realtà in modo magistrale, creando un racconto che è al tempo stesso una riflessione profonda e un’avventura emozionante. La figura della giovane Europa, che incarna la speranza e la rinascita, è descritta con una delicatezza e una forza che commuovono il lettore. “Canto per Europa” è una lettura imprescindibile per chiunque voglia comprendere meglio le radici e il destino del nostro continente. Un’opera che lascia il segno e invita a riflettere sul significato profondo della nostra identità europea, un inno alla bellezza e alla complessità dell’Europa, un continente che, nonostante le sue contraddizioni e le sue difficoltà, ha ancora molto da offrire.
Così come è breve, così intensa e assorbente diviene la sua lettura. Metà romanzo epico, metà fiaba, Rumiz ha giocato con continui parallelismi e metafore che fanno il libro nel suo insieme non adatto a tutti.
Anche perché credo che sia uscito un po’ da quello a cui ci aveva abituati, libri dove è riuscito magistralmente a combinare viaggi, esperienze personali, storia, geografia e cultura… Indimenticabili sono “Trans Europa Express” (meraviglioso viaggio nel treno transiberiano) o “Annibale” dove ci racconta le sofferenze di questo grande condottiero, o “Il bene ostinato” che vi presentai l’anno scorso.
Qui troviamo un Rumiz più profondo, più onirico, che, anche se i temi più attuali come le guerre, gli immigranti, lo sfrenato turismo di massa, la frivolezza di un’Europa che sta dimenticando le sue origini, sono presenti in ogni pagina, la storia non scorre come un fiume in piena, al contrario, è un fiume di montagna che non ti permette di allontanare la tua attenzione neanche per una riga.
Una giovane siriana, profuga di guerra, e quattro uomini bisognosi di miti sono i protagonisti fondamentali di una storia dove mito e realtà si fondono per presentarci una Europa tutta al femminile, madre di popoli, terra promessa dei disperati, terra dimenticata e maltrattata da chi ci abita dagli albori dell’umanità.
Ostico quanto basta per rendere necessaria lenta e meditata la sua lettura. Un cantore greco che mi rimanda alle lezioni scolastiche di qualche decennio fa. La sua attualità quotidiana, ahimè, lo anima di volti senza nome e trasforma in cronaca l'epica. In questo modo fra le onde del Mediterraneo si mescolano l'avventura della ciurma di Moya e storie che nessuno conosce. Navigando fino alle spiagge della nostra bella Italia per poi spingersi sino ai "Bastioni di Orione" delle antiche Colonne d'Ercole lo scafo di legno vivo della Barca porta con se vita, morte e rinascita. Come il velista accorto Rumiz sa riconoscere la volta stellata e il volo dell'albatro. Come Virgilio ci accompagna nel lungo viaggio tra i regni dell’inferno e del purgatorio. Quale Beatrice accompagnerà ogni lettore verso il regno dell'empireo? Decidetelo Voi cari amici se leggerete questi versi. Da non perdere, grazie Paolo nocchiero di altri tempi, nel tempo e oltre il tempo.
Europa la ragazza figlia della notte e del sogno fenicio, la barca Moya, Petros il nocchiero, Ulvi maestro d'ascia, Sam nostromo francese, il narratore: sono i protagonisti del Canto di Rumiz. Rilettura del mito di Europa, il toro Giove e il rapimento della bellissima figlia del re di Siria diventa uno spunto per un libro notturno, scritto di notte, in cui si mescolano appunti di viaggio e descrizioni delle isole del mediterraneo che da Rodi a Cipro fino alle isole greche e all'Italia sono dettagli di cielo e mare e profumi intensi. La modernità ogni tanto fa capolino, ora con i turisti volgari e fracassoni ora con le navi da crociera contro cui resistono nel loro circuito di sogni che li legava ogni notte la piccola testarda ciurma della Moya. Eccesso di metafore e immagini ricercate, la poesia a volte richiede asciuttezza. Per un canto eterno alla ricerca della bellezza perduta.
Un poema epico? Un romanzo? Un libro di memorie? Forse tutto questo e forse qualcos'altro, sicuramente tutto il Paolo Rumiz che amiamo. Il proemio è il film "alla Ricerca di Europa" di Rumiz e Scilitani. Da non perdere, anche e soprattutto per chi come me non ha purtroppo avuto la fortuna di conoscere Pietro Tassinari.
In questo libro Rumiz ci accompagna non in un vero viaggio, ma ci porta per mare in un misto tra favola e leggenda. Un poema epico toccante ed intenso con riflessioni puntuali sui drammi dei migranti passati ed anche attuali, sulla disillusione di una Europa Unita ma con punte di appassionante e coinvolgente poesia.
Forse, anzi certamente, un libro che meriterebbe di più. Non un libro per tutti e certamente non per ogni momento: il misto fra narrazione / prosa / poesia richiedono tempo e impegno che forse non mi ero predisposto di concedere. Da rileggere.
Ho avuto un rapporto conflittuale con questo libro. Iniziato nel Masai Mara ad Agosto, interrotto a meta' in Italia, ripreso a NY e terminato oggi perche' la metro L e' chiusa per il Weekend ed ho dovuto aspettare mille navette per tornare a casa. Mi piace pensare che Rumiz lo abbia inteso cosi' per il lettore. Fino alla fine avrei voluto dare due stelle, quasi per ripicca ma non me la sono sentita lette le ultime pagine. Si puo' consigliare ad altri un libro che non ci e' piaciuto? forse si', in rari casi.