Partendo dalla propria esperienza personale e raccontando la partecipazione della divisione alpina Julia alla Seconda guerra mondiale – dalla campagna d’Albania alla ritirata di Russia – l’autore costruisce un’opera narrativa di straordinario valore, che esalta il senso della dignità dell’uomo nonostante la tragedia della guerra. Protagonisti della vicenda non sono singoli individui ma l’azione corale dell’intera divisione, tanto che l’autore stesso preferisce mimetizzarsi dietro il nome inventato di Italo Serri piuttosto che narrare in prima persona. Pubblicato nel 1963, Centomila gavette di ghiaccio ebbe subito uno straordinario successo, ottenendo, l’anno successivo, il prestigioso Premio Bancarella. Giulio Bedeschi (Arzignano 1915-Verona 1990) alpino, medico e scrittore, così amava definirsi. Ufficiale medico della «Julia» visse la tragedia dell’Armir che raccontò in Centomila gavette di ghiaccio, il suo libro più celebre. Nel 1966 pubblica Il peso dello zaino nel quale affronta le vicende dei reduci dopo l’8 settembre 1943. Tra il 1972 e il 1984 scrive due La rivolta di Abele e La mia erba è sul Don. Per Mursia ha raccolto e curato la pubblicazione delle memorie dei soldati italiani sui fronti della Seconda guerra mondiale nella serie «C’ero anch’io» nella Collana «Testimonianze fra cronaca e storia». Tutte le opere di Bedeschi sono edite da Mursia.
VERSIONE KINDLE AGGIORNATA E CORRETTA A MARZO 2021
E’ difficile trovare qualcuno che non abbia mai sentito parlare dell’Anabasi scritta da Senofonte che narra quella terribile ritirata di diecimila guerrieri greci che, al soldo di Ciro, fratello ribelle del re persiano Artaserse, si ritrovarono senza viveri e senza capi e lontanissimi dalla madrepatria che raggiunsero dopo lunghi stenti attraverso territori popolati da genti nemiche, sottoposti alle torture fisiche e psicologiche della fame, del freddo, dell’incalzare dei nemici ma sostenuti dall’inestinguibile nostalgia della patria lontana…ma quanti italiani sanno o si ricordano delle vicissitudini fisiche e morali sopportate dal corpo militare degli alpini della Divisione Julia che nel 1941 andò a supportare le truppe dell’alleato tedesco in Russia e surclassato, nonostante gli eroismi e la stoica resistenza, dall’esercito sovietico, si ritirò verso la patria tra indicibili sofferenze fisiche e morali, sotto temperature glaciali, con pochi armamenti e priva di ogni sussistenza al punto che di un corpo militare di ventimila alpini solo 218 rientrarono in Italia. Questo libro narra superbamente e senza retorica quei fatti, l’eroismo individuale e di gruppo dei soldati italiani, le sofferenze disumane cui andarono incontro, lo stillicidio delle perdite per il freddo e l’inedia e per gli impari combattimenti, ma anche l’inestinguibile volontà di resistere a tutto, di non cedere, di tornare in patria, alle proprie famiglie. Un libro indimenticabile
Quando c'era lui... ...i treni arrivavano in orario, ma sui viaggi all'estero lasciamo perdere! Ho voluto leggere in parallelo "Centomila gavette di ghiaccio" e "Il sergente nella neve", entrambe testimonianze della ritirata di Russia dell'esercito italiano nell'inverno 1942/43. "Ritirata" purtroppo è una parola ottimistica, "ecatombe" sarebbe il termine più adatto, visto il numero esiguo di sopravvissuti a questa Anabasi di ghiaccio e fame. I due autori facevano entrambi parte del Corpo Alpino, Bedeschi era tenente medico nella divisione Julia, Rigoni era sergente maggiore nella divisione Tridentina; una differenza non da poco, in quanto la Julia si trovò ad iniziare la ritirata vera e propria in uno stato di sofferenza già acutissimo, a causa dei continui scontri e le molte marce intese a rintuzzare i primi tentativi di sfondamento russi. La Tridentina aveva potuto limitarsi a difendere la propria linea originale ed aveva iniziato il movimento di ripiegamento in condizioni pressoché intatte; in seguito dovrà però sobbarcarsi il lavoro più gravoso. I libri sarebbero da leggere tutti e due, sono belli, ipnotici, passo dopo passo trascinano in una spirale di follia che per fortuna possiamo solo cercare di immaginare; nessuno è così crudele per meritarsi tanto. Le differenze tra i due testi naturalmente ci sono, "Centomila gavette di ghiaccio" è scritto in maniera quasi aulica; "Il sergente nella neve" No, "Il sergente nella neve" è scritto da un "sergente", tratta le parole con più semplicità. In compenso a lungo andare Bedeschi mi innervosisce, dallo stile l'aulicità si trasferisce anche ai personaggi, che sono perfetti, eroi dall'inizio alla fine quasi come da cliché, un po' diventa incredibile, un po' mi viene da pensare "Ma se in Italia vivevano davvero tutti questi uomini fantastici, come accidenti ha fatto Mussolini a gestire un crudele regime da operetta per vent'anni, senza che nessuno glielo impedisse?!"; però poi il libro finisce e ti lascia dentro tantissimo e vorresti non dimenticare mai certi passaggi e certi dialoghi. Grazie. Torno a Rigoni Stern, ed il sergente si rivela artista e non solo artigiano della parola, qualcuno l'ha definito l'Hemingway del secondo '900 italiano per la poesia nella pulizia di scrittura e mi sento di dire di sì; e poi qui ritrovo gli italiani, i miei compatrioti, quelli veri, quelli che nel disastro non sono tutti santi ed il racconto perde l'alone del leggendario e riprende i colori nitidi della pellicola. Avrei voglia di prendere un fiasco di vino e due bicchieri, prendere sotto braccio il sergente, metterci a un tavolo e scolarcelo.
Intriso di crudo realismo, ardente commozione, inaudito coraggio e sofferenza immane, questo libro ripercorre una tra le pagine di guerra più tragiche ed eroiche della storia mondiale. La narrazione in veste di romanzo nulla toglie al suo suggestivo valore di testimonianza di vicende vissute in prima persona dallo scrittore, ma al contrario contribuisce a creare quella sorta di distacco, utile a scongiurare inopportuni scadimenti nel protagonismo o nell'autocommiserazione. Non c'è retorica, né polemica, né appartenenza ideologica in questo racconto, ma vivida rievocazione di un orrore condiviso da uomini e bestie - come non citare infatti i pacifici generosi muli? - nell'intento di perpetuare il ricordo di tutti coloro, uomini e bestie, che non sono tornati. Le emozioni che si provano nel corso della lettura sono fortissime, talora strazianti, e spaziano dall'ammirazione alla tenerezza alla partecipazione allo sconcerto all'indignazione alla disperazione alla pena. Ma su tutte spicca l'orgoglio: l' orgoglio di appartenere ad una nazione che annovera tra le sue truppe il corpo degli alpini; ossia l'orgoglio, una volta tanto, di essere italiani.
Questo è stato un libro difficile da leggere. Una superficiale ricerca in internet mi aveva preparato al romanzo di guerra, ma non alla dignità degli alpini di Bedeschi. Difficile vedere i nostri come i buoni, sapendo che combattevano per i tedeschi e difficile è stato affrontare le prime pagine, quando la vicenda si svolge ancora in Albania e Grecia. Ma quando poi gli uomini sono mandati in Ucraina, in pieno inverno, la lettura diventa più che mai onerosa. Al di là dell'assurdità della guerra in generale è impossibile non sentirsi coinvolti da questo gruppo di uomini che resiste stoicamente a tutto, che si lascia congelare pezzo per pezzo dall'inverno russo, più letale dell'esercito nemico. Il bianco della neve fa da cornice a una solitudine crescente, infinita, che nelle ultime pagine arriva a toccare cuore e cervello con la stessa crudeltà con cui il gelo rovina la carne. La conta dei morti e dei feriti diventa una mera constatazione. Come alcuni di questi uomini, più che decimati, siano riusciti a tornare a casa è sorprendente. Questo memoriale merita molta più fama di quanta già non ne abbia.
Tentare di spiegare questo libro significa incappare nel tremendo errore di minimizzarlo, renderlo in qualche modo banale. Non lo è assolutamente, per cui non proverò a rencensirlo, né a spiegarlo. Perché certe cose non si spiegano, si vivono. Centomila gavette di ghiaccio è un'esperienza. Reale e tangibile in quanto tratta dalla vera esperienza dell'autore, infatti il romanzo è una rielaborazione del diario di batteria tenuto dallo stesso Bedeschi in Russia. Lui stesso dice di aver omesso nomi reali, ma di aver trasceso il suo vissuto e quello dei suoi compagni di avventura e sventura per restituire una storia che sappia di universale. È la storia del corpo di armata alpino, della divisione Julia, della Tridentina, della Cuneense e di tante altre unite senza nome o i cui nomi sono stati inghiottiti all'oblio. È una storia di sofferenza e patimento, che a tratti trascende la sopportazione umana. È la storia della ritirata sul Don, giorni e giorni di marcia a piedi nella steppa, nel vento e nel gelo, nel terrore, nella neve il cui abbraccio è mortale. È una storia di resistenza sovrumana, di forza, di cameratismo, di orrore e al contempo di speranza. C'è tanta umanità, in queste pagine. Forse c'è il meglio e il peggio dell'essere umano. È una lettura che lascia provati, l'ultima parte si trascina, si legge a fatica, e inevitabilmente ricorda quel lento trascinarsi di questi diecimila uomini, più simili a spettri, provati nel fisico e nella mente, ma ostinati a tornare alla vita. A casa. Dove qualcuno arriverà, ma soltanto per avere un finale che è un pugno nello stomaco, perché dopo tanta devastazione, non c'è dolcezza ad attendere gli alpini.
Inutile dire che ho amato tantissimo questo libro. Sì, mi ha ricordato Il sergente nella neve, e a chi ha letto Rigoni Stern posso dire che se il Giuanin di quel romanzo vi è rimasto nel cuore, altrettanto farà lo Scudrera di Bedeschi e tutti i suoi compagni.
Tengo questa lettura nel cuore e, con essa, l'orgoglio di appartenere a una nazione che ha dato vita a questi uomini incredibili e ai loro atti di valore e coraggio.
Centomila gavette di ghiaccio è un'opera che nasce dall'urgenza di raccontare qualcosa di inconcepibile. Assieme alla volontà di raccontare le atroci sventure vissute assieme ai compagni alpini dell'ARMIR negli anni 1942-1943, Bedeschi afferma anche una fortissima dignità umana, un valore che nemmeno mesi e mesi di lotta contro la fame, i cannoni e il gelo hanno potuto annientare. Centomila gavette di ghiaccio è, infatti, una lapide di carta per tutti coloro che sono morti nella Campagna di Russia o che sono tornati svuotati della loro vitalità e riempiti di ricordi dolorosi. http://athenaenoctua2013.blogspot.it/...
la prosa (a volte) "aulica" mi ha lasciato "perplesso" (a volte) ...e direi lo posiziona all'opposto del documento di rigoni-stern. sempre un gran libro comunque, per molte ragioni ...difficile da "rimuovere"/dimenticare. ... mi ha aiutato a ricostruire alcuni dei racconti di guerra di mio nonno alpino (classe 1914) in guerra in albania, prigioniero in grecia e poi "scampato" alla campagna di russia perchè padre per la quarta volta.
Centomila gavette di ghiaccio è un classico della letteratura di guerra premiato, ma questo risulta alquanto banale e di poco significato rispetto ai contenuti qui presenti, al premio Bancarella del 1963, dopo che questo scritto fu rifiutato per sedici volte da varie case editrici, probabilmente perchè a proporlo sebbene redento probabilmente, era il Badeschi che dopo l'8 settembre 1943 firmò e fece parte della repubblica di Salò; si narra la ritirata della Russia affrontata dalla Divisione Alpini Julia durante la seconda guerra mondiale.
Una storia vera, vissuta in prima persona da Giulio Bedeschi come ufficiale medico, che nel romanzo prende il nome del dottor Italo Serri. L'autore durante l'inverno 1942-1943, ha curato tanti compagni in condizioni disperate senza disporre quasi di nulla, tra ferite purulente, cancrene, sangue. Ha percorso oltre mille chilometri di ritirata a piedi con la neve alta fino alle ginocchia. Accerchiati dai russi, tra ogni sorta di privazioni e assenza totale di riposo, ha assistito al suicidio di chi non ha retto più a quella situazione. La narrazione parte dall’Albania, poi passa alla Grecia, e infine la triste e travolgente storie delle truppe italiane che entrarono in Russia. La ritirata costò, tra il gelo da impazzire (con punte fino a quarantotto gradi sotto zero), i congelamenti, la fame, gli stenti, gli attacchi dell’esercito russo meglio attrezzato e armato, la vita a 114.520 militari su 230.000 che partirono.
C'è da dire che il romanzo è scritto con uno stile che oggi risulta poco leggibile per quanto vetusto e molte volte siamo di fronte quasi ad una propaganda del tutto sbilanciata a favore degli Alpini (per carità nulla a che ridire), ma quasi ne risultano essere indomiti all'inverosimile, quasi dei supereroi senza macchia; sappiamo purtroppo che la guerra è guerra e nessuno ne esce mai innocente, anche se l'eroismo di questi uomini è indubbio sotto ogni aspetto.
Però questo è il racconto di una storia vera, un'odissea per centinaia di migliaia di ragazzi mandati allo sbaraglio. Senza mezzi, mal organizzati, a combattere su di un terreno che non era il loro, le steppe russe non sono propriamente le nostri Alpi. Mesi alla mercè dell’inverno russo e chi riesce a sopravvivere a quell'inferno molto probabilmente tornerà a casa menomato nello spirito o nel corpo.
Uomini e muli rimasti chiusi nella sacca tesa dai Russi durante la ritirata dal fronte, moriranno di stenti, assiderati, uccisi, piegati dal peso di una guerra assurda. Il libro a tratti è molto crudo, tra gli svolazzi di un italiano ricercato, c'è tutta la putredine di quella che è la guerra: amputazioni, ferite laceranti, uomini che mangiano rifiuti, vermi, che uccidono a coltellate i proprio compagni per avere il posto in un isba durante un tormenta di neve, la sporcizia incrostata addosso, i pidocchi, le dita di mani e piedi che si staccano incancrenite dal gelo. Piccoli e grandi atti di eroismo,insieme a tante miserie umane provocate dall’isitinto di sopravvivenza e fatte di meschinità, cinismo, ferocia.
Centomila gavette di ghiaccio, insieme al testo di Mario Rigoni Stern "Il sergente nella neve", rende un doveroso omaggio alle migliaia di nostri caduti, durante quello che fu l'atrocità della seconda guerra mondiale, un libro assolutamente da leggere, perchè barbarie come queste non accadano mai più.
Non piango mai quando termino la lettura di un libro. 400 pagine di testimonianza così vivida, dolorosamente colorata, da ridurmi quasi ad un cencio…ho quasi pianto. Dico “quasi”, perché ho un cuore di ghiaccio, io. Ma il libro è dannatamente bello. A tratti, lo ammetto, soprattutto agli inizi, si insinuava tra i miei pensieri l’idea che Bedeschi osannasse gli alpini per osannare la guerra degli alpini. Mi sbagliavo, per fortuna, e sono giunto alla conclusione che le parole amorose rivolte agli alpini siano le parole di un fiero alpino, di un uomo che faceva parte di un gruppo peculiare, di uomini che possono contare solo sui compagni, compagni di guerra e di sciagure. E allora va bene così. La guerra raccontata da Bedeschi è molto “grafica”. In confronto a quella raccontata da Rigoni, che molto si sofferma sull’asfissiante bianco e sul’infernale gelo di una steppa immensa, Bedeschi affonda la lama, rende gli scontri vivi, violenti, sonori… grafici. E ci aggiunge lo stesso senso di piccolezza cosmica, di disperazione, di confusione “cognitiva”, quella indotta dal gelo. Ci sono punti del racconto dove il solo descrivere le pene degli alpini fa girare la testa. Si fa fatica a credere che l’attaccamento dei sopravvissuti alla vita fosse talmente forte da resistere all’ennesimo sbarramento, all’ennesimo scontro, all’ennesima notte in cammino. “Centomila Gavette di Ghiaccio” è pertanto un manifesto alla grandezza della vita, alla futilità della guerra, a quei sentimenti di umanità, di carità e di attaccamento ai propri cari.
p.s.: verso la fine del libro Bedeschi cade nella trappola del bollettino sovietico n. 630, quello nel quale, a quanto pare, i sovietici lodavano la resistenza degli alpini dichiarando il corpo di spedizione alpino l’unico “imbattuto in terra di Russia”. Un po’ mi è dispiaciuto che l’autore sia caduto nel tranello. Il bollettino è un falso, non è mai stato scritto o diffuso. È un falso storico, si può dire così? Ecco, trovarsi un falso in un libro del genere dispiace un po’. Però tutto sommato il libro non è stato scritto nel 2022 e diversi autori hanno commesso in passato gli stessi errori.
“Erano uomini, parevano bruti” ...assediati da nemici invisibili, subdoli, vili: il gelo, la fame e il sonno, ancora più agguerriti del nemico reale e tangibile; erano uomini, parevano ombre disperse nel vuoto, miserabili carcasse tenute vive da un cuore; erano uomini, parevano lupi braccati, in quella micidiale sacca del Don; possedevano solo centomila gavette vuote di cibo, colme di ghiaccio e l’ultimo, costante tepore dell’amicizia. Erano Alpini. Come Scudrèra, il generoso conducente di muli: rude e dignitoso, forte e semplice, altruista e ironico, tenace e sensibile;
“No le par vere, no le par vere — brontolava un ispido alpinaccio della Julia — In Italia non te podarà contàr 'sta roba, se no i dirà che te conta bàle.”
Pagine intense attraverso le quali si condivide, nel succedersi dei giorni, la sorte degli Alpini della Julia, dall’Albania al Don; si partecipa ai loro entusiasmi e alle loro delusioni, alle sofferenze del corpo e della mente, reali e autentiche; si incontra un raro senso di lealtà e di dovere verso la Patria che forse a qualcuno può suonare oggi retorico ma che io considero con rispetto e ammirazione; e leggo con non poca amarezza la disillusione delle ultime parole.
Leggerlo in una vecchia edizione del ’64 (che ora possiedo:grazie Absolut!), arricchita da foto di album privati a documento e testimonianza, mi ha procurato una emozione in più, impagabile.
Romanzo e foto mi hanno richiamato poi la visione del DVD “Sulle tracce della memoria” che documenta, in maniera sobria ma suggestiva, l’esperienza di Fabio Ognibeni che ha ripercorso a piedi, sulla neve invernale della steppa, i duecento chilometri di ritirata, sulle tracce del padre e di tutti gli Alpini: dei pochi tornati e di tutti gli altri rimasti nel gelo. http://www.ognibeni.it/dvdrussia
Mastica e sputa Da una parte il miele Mastica e sputa Dall'altra la cera (*)
Mastica e sputa: le fatiche, le privazioni quotidiane, le asprezze della battaglia e l’angoscia di un presente estraniante. Mastica e sputa: dall’altra i ricordi più cari, le nostalgie di affetti lontani che nel presente, nelle pause più o meno sofferte, sono assenza struggente.
Mastica e sputa Prima che venga neve Luce luce lontana Più bassa delle stelle Sarà la stessa mano Che ti accende e ti spegne (*)
Mastica e sputa, alla mercé di un “freddo” incalzante: neve gelida che col suo manto insidioso ricopre la terra, o mano fredda di un destino che adiaforo spegne esistenze; che scende da un plumbeo cielo invernale o che giunge orrifico come dall’inferno, ferro e fuoco nemico, di quel nemico che casualmente spegnerà la tua vita o la lascerà accesa, o che strapperà dal tuo corpo, stracciandolo, interi pezzi di te …buona sorte o sfortuna, chiamala come vuoi; fato, ventura o semplice caos che sia.
Luce luce lontana Che si accende e si spegne Quale sarà la mano Che illumina le stelle (*)
“Nella gran pioggia sotto un’unica immane nuvola bassa, opprimente come una coltre stillante sospesa a mezz’aria, l’arco del fronte ribolliva nella battaglia” …prima lontano poi sempre più vicino fin quando, idra insaziabile, ti ammanta, ti ingoia e ti ingloba come parte di se.
Stanotte è venuta l'ombra L’ombra che mi fa il verso Le ho mostrato il coltello E la mia maschera di gelso (*)
E il sonno stracco di una mente logora, strappato a morsi ad una notte inquieta, si satura dell’incubo dell’Ombra perfida, muta ma assordante, immateriale presenza pronta a ghermire e a portarti via. “Nelle ventate e nel tenebrone di un destino impazzito ciascuno teneva accesa la fiammella della sua giovinezza” ,unica arma, unica difesa allo strazio interiore che veste la maschera muta della rassegnazione.
Attraverso il suo alter ego letterario Italo Serri, l’autore racconta l’odissea degli Alpini sul fronte russo, ripercorrendo la sua esperienza di sottotenente medico impegnato prima nella campagna di Grecia e poi, appunto, sul fronte russo durante il Secondo conflitto mondiale, inquadrato nelle file della Divisione Julia. Raffinato narratore, padrone della difficile arte di saper tradurre con parole efficaci ed evocative le situazioni e le immagini impresse nella sua memoria, l’autore stabilisce da subito uno stretto feeling con il lettore, trasportandolo in luoghi inusitati e lontani che sembrano materializzarsi sotto ai suoi occhi, tra uomini e persone che palpitano di vita reale seppur trascorsa e passata, in situazioni vissute come se osservate dal vivo, in presa diretta. Pregevole l’indulgere a piccole digressioni scritte con grande maestria e di cui la narrazione si riempie con appagante resa letteraria.
Erroneo considerare questo romanzo, quindi, come un mero racconto di guerra: più che un racconto, per resa descrittiva e per efficacia evocativa, è un’illustrazione di Storia, minuziosa, dettagliata; e più che rievocazione storica è un’epopea di uomini: storia di uomini in guerra soggiogati da sofferenze indicibili, storia di amicizie e fratellanze che la guerra cementa: “poiché la sofferenza quando è tanto lunga e diversa e inaudita da non poter essere più né detta né compresa diviene amore che lega, un tragico amore nel cuore degli uomini che fanno la guerra”; storia di eroi inconsapevoli sospesi tra paura e dovere, normalità ed eccezione, entusiasmo e disperazione, onore e umiliazione. Storia di giovani vite costrette a bruciare in una manciata di mesi i loro migliori anni e la loro intera esistenza, annientate come sono state nel corpo, ovvero nello spirito: che si spensero di stenti indicibili o d’un colpo di fucile o, se destinate a fare ritorno, che sopravvissero mutate per sempre.
È un’esperienza di lettura che regala molto di più di quello che l’argomento o il titolo possano far presagire!
(*) un De André magnanimo e pietoso perdonerà la violenza perpetrata, in modo del tutto arbitrario, al testo di una sua canzone (Ho Visto Nina Volare) nell’adattarlo al commento di un’opera letteraria di certo avulsa nella sua sostanza dal testo stesso. Leggere e ascoltare musica a volte genera inopinate alchimie mentali. Emotive, soggettive, contingenti.
Bedeschi ha un tono di scrittura che mi è piuttosto nuovo. Esordisce dapprima lirico e accorato nel raccontare la strada verso l’inferno di questi soldati, ma allo stesso tempo appare asciutto e pragmatico. Ricerca l’umanità ma anche la dignità, sia nei contenuti che nella forma, e si butta a capofitto nell’esperienza di guerra, proiettando il lettore in un inferno ghiacciato e agghiacciante. La scelta di un protagonista arruolato tra gli ufficiali, con competenze mediche, permette il punto di osservazione allo stesso tempo immerso nella realtà bellica, ma anche raffreddato da un certo esserne all’esterno, da osservatore con occhio diverso e “scienziato”.
La brutalità dell’esperienza ne emerge senza sconti; diverse pagine si leggono con difficoltà, quasi tenendo le pagine con brivido e tensione, per la minuzia di orrende descrizioni anatomiche di ferite e mutilazioni. L’autore non scende a compromessi, come a dire: questa è la guerra e, se la volete leggere, vi tocca fare l’esperienza del racconto reale. In questo senso merita infiniti ringraziamenti, per il coraggio e il modo asciutto e spietato in cui va a toccare il dramma fisico - ed emotivo - di eroi qualsiasi. Non sfugge mai il contrasto fra l’umanità di questa fetta virile di italiani, in contrasto alle gerarchie militari e politiche. Il valore si misura continuamente sul coraggio e spirito di sacrificio, invece che sui gradi militari, mentre gli ordini dei superiori cancellano e mutilano giovani vite senza riguardo, con cinismo.
Fino a qui ho fatto un resoconto delle mie impressioni per il primo terzo del libro, la parte di racconto che - grosso modo - abbraccia la campagna di Grecia.
Terminata questa sezione, però, tra la fine della sezione greca e il prepararsi della campagna di Russia, mi disturba trovare troppo patriottismo e una visione manipolatoria, ormai ampiamente smentita, dei soldati italiani: insistitamente presentati come brava gente, amati dai popoli che vanno a invadere, più ancora dei soldati greci stessi. Sembra cambiare anche il linguaggio della scrittura che, da più asciutto e virile, diventa lirico e dannunziano, con eccessi retorici superflui e a volte irritanti. È qui che ho deciso di informarmi sull’autore, che non conoscevo, scoprendo con grande dispiacere i trascorsi fascisti e repubblichini. Non posso nascondere che questo abbia modificato ampiamente il mio approccio alla lettura, rendendomi più attento e diffidente.
Per fortuna la deriva patriottico-colonialista si spegne, quasi completamente, nella parte di racconto ambientata in Ucraina e in Russia. Permangono solo due caratteristiche che trovo fastidiose, ampiamente permeanti tutto il libro: in primo luogo l’assenza quasi completa di caratterizzazione dei protagonisti, al di fuori della sfera militare. L’occhio del narratore è tutto puntato al valore e al coraggio, e non crea un contesto valido e tridimensionale anche della vita civile dei personaggi, se non in alcune righe distratte. Tutt’al più i soldati sono simpatici o generosi, o generosamente simpatici, ma non hanno contesto. Per riassumere in un motto semplice, il libro è 100% guerra e patria, personificata nello specifico nell’eroismo degli alpini.
In secondo luogo, e questo mi ha infastidito di più, il resoconto è scandalosamente elegiaco; si è deciso che gli alpini sono eroi, e su questo si insiste fino allo sfinimento. Non c’è spazio per nulla di meschino o umilmente umano, niente che non rappresenti una medaglia al valor militare di questi ragazzi che fanno ogni cosa in maniera esemplare; ogni azione pare dettata dal coraggio, dalla abnegazione, dallo spirito di sacrificio individuale, dall’amore per i commilitoni e per il corpo d’armata. Ora, nessuno vuole discutere il valore di chi ha combattuto la campagna di Russia e gli infiniti sacrifici sopportati, ma il resoconto appare poco rispettoso degli stessi Alpini, nel volerli dipingere come una sorta di razza superiore che mai si scoraggia e mai presenta un momento di umanità meno che eroica.
Se, quindi, dovessi raccontare velocemente questo libro a un amico per suggerire se leggerlo o meno, proporrei di leggerlo comunque, per documentarsi su avvenimenti che normalmente conosciamo solo a grandi linee. Presenta un indubbio valore nella cronaca storica (non ho la competenza necessaria per valutare se accurata) e nella narrazione di molte vicende militari, narrate direttamente della trincea. Dal punto di vista letterario perde di interesse dopo i primi capitoli, diventa molto retorico e sciupa la parola “amore” in contesti inadatti; mi rimane il dubbio sulla veridicità storica di tutti gli avvenimenti raccontati, vista appunto l’ampia esaltazione del corpo degli Alpini.
“Centomila gavette di ghiaccio” è il racconto, estremamente dettagliato, delle vicende dell’ARMIR (Armata Italiana in Russia), il corpo d’armata italiano che nella Seconda Guerra Mondiale fu inviato sul fronte orientale per affiancare le truppe dell’Asse nell’invasione della Russia. Questo capitolo fondamentale della storia della Seconda Guerra mondiale si risolse in una sconfitta totale delle truppe italo-tedesche, seguita da una terribile ritirata che si risolse in una immane ecatombe. Dei circa 120.000 soldati italiani, prevalentemente alpini, schierati sul fronte del medio Don che furono circondati dagli eserciti sovietici, riuscirono a salvarsi e ritornare in patria solo circa 10.000 soldati. Dopo una marcia a piedi di circa 1200 km nella neve, con temperature di -30/-40, senza mezzi e cibo e con scarsissimi armamenti, senza direttive e dovendo continuamente sfuggire agli attacchi dei russi.
Bedeschi narra questa stori da attraverso le vicende della 26-ima batteria della Divisione Alpina Julia, quella tra le divisioni alpine che aveva dovuto sopportare il peso maggiore dei combattimenti in prima linea sul fronte del Don e che dovette affrontare la ritirata nelle condizioni più dure. Il principale protagonista della storia è il sottoufficiale medico Serri, la cui storia viene raccontata dal momento del suo battesimo del fuoco, nella campagna d’Albania, al ritorno in patria e la partenza per il fronte russo aggregato alla Julia, fino alla terribile ritirata ed al ritorno in Italia, con un amarissimo epilogo (che non voglio svelare).
Nel leggere le pagine di Bedeschi viene spontaneo fare un confronto con il “Sergente nella neve” di Mario Rigoni Stern. Anche Rigoni era un alpino e parla delle stesse vicende storiche, anche se lui faceva parte della divisione Tridentina che non era stata in prima linea sul Don. Le differenze tra i due romanzi sono enormi. Bedeschi ha scritto un romanzo molto ponderoso, quasi pignolo nella sua precisa ricostruzione, e lo ha fatto in un linguaggio aulico, quasi pomposo. Nel totale fallimento della campagna di Russia gli alpini della Julia, in particolare i militi della sua batteria, vengono descritti come uomini perfetti, quasi degli eroi mitologici. Rigoni, invece, usa un linguaggio molto più semplice e più umano e descrive dei personaggi in chiaroscuro, con i loro atti di coraggio e le loro debolezze . Ne consegue che il “sergente” risulta molto più credibile e molto più umano.
Da molto desideravo,e allo stesso momento temevo, leggere questo libro; come tanti spinta dal fatto che il mio nonno era stato mandato in Russia,e comunemente a chi era tornato,poco e nulla voleva raccontare di quel periodo,tanto era ancora vivo il doloroso ricordo. Ed è il dolore che emerge distintamente da queste pagine:pagine dense di una scrittura ricercata ma non all'eccesso,frasi musicali e tragiche,che gli conferiscono quasi l'aura di un racconto epico,con protagonisti dai caratteri distinti -come non citare il "bestione" dal cuore d'oro Scudrèra,il pacato e malinconico Reitani,il coraggioso medico Serri- per poi rendersi conto che no,non c'è nulla di epico e sfolgorante,se non la voglia di vivere e il coraggio di questi uomini. L'incedere della narrazione è inarrestabile,serrato,denso di sofferenza come i patimenti vissuti da questi soldati che,ridotti ormai all'ombra spettrale di esseri viventi,si trascinano per infiniti chilometri di gelo,al limite ultimo della sopportazione fisica e mentale,decimati,corrosi, cadaveri che camminano spinti dall'inerzia e da fievoli barlumi di speranza,in una lunga,mortale marcia ( esattamente a questa lunga marcia pensavo leggendo l'omonimo romanzo di Stephen King,con la sola differenza che purtroppo questa marcia infernale è avvenuta per davvero,e se possibile nemmeno il Re del brivido è arrivato a immaginare un simile orrore). Ma,se possibile,il colpo più duro lo riservano le righe finali,impietose,crudeli: a quelle anime già straziate,riemerse per miracolo dall'Ade,non viene concessa nemmeno la dignità di un' accoglienza nel suolo patrio.Devono restare nascosti,assieme alla vergogna della disfatta,simulacri macilenti e cenciosi di una follia insensata definita col nome di guerra,e i lapidari insulti a loro rivolti feriscono quasi di più della loro crudele sorte. Indipendentemente dal proprio pensiero a riguardo,penso che questo libro vada ascoltato,come avrei ascoltato il mio nonno,non per dare un senso,non per giudicare;ma per ricordare,sempre.
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Uno di quei volumi che avrebbe meritato molto più successo e molta più diffusione di quelle che ha ricevuto, anche solo per il valore memorialistico che porta con sé. Le vicende che hanno circondato il Corpo d'Armata Alpino durante la seconda guerra modiale sono affascinanti, tragiche come poche altre esperienze di guerra e grandiose. Prima in Albania e poi in Russia, quello che hanno dovuto affrontare gli alpini - qui raccontato grazie all'esperienza di prima mano dell'autore, ufficiale medico della divisione Julia - mi ha toccato profiondamente. In parte minore per la forza e la perseveranza degli alpini, duri e incrollabili come le montagne da cui provenivano, votati a uno stile di guerra aspro da picchi montani. Ma sopratutto perché, a differenza magari di quello che hanno vissito i paracaditisti della Folgore a El Alamein, gli alpini non hanno avuto una battaglia campale o un glorioso finale tragico, nessuna parata al ritorno. Si sono invece trovati per ben due volte ed essere impiegati malamente, spudoratamente sacrificati, in scenari male programmati e peggio eseguiti, votati a resistere per presidiare fronti che sapevano avrebbero abbandonato, solo per dare il tempo a tutti gli altri di portare a termine le loro rovinose ritirare. E cosa fanno gli alpini? Loro resistono. E muoiono. Muoiono coi loro muli, testardi come i loro muli, saldi nelle loro posizioni. E quando finalmente tocca a loro ritirarsi, lo fanno non smettendo mai di lottare in una marcia epica che stringe il cuore. Come ammetterà anche il comando russo dopo lo sfondamento totale del fronte sul Don e la vittoria a Stalingrado, inseguendo le truppe dell'Asse in ritirata rovinosa, solo il Corpo Alpino tra tutti gli eserciti che hanno messo piede in Russia, potrà dire di averla abbandonata imbattuto.
Dopo decenni ad ammuffire in libreria, nella settimana della memoria ho finalmente deciso di leggere questo libro, che ha fatto anche lui un bel pò di strada. Non tanta quanto gli alpini in fuga dalla Russia, ma parecchia: è la primissima edizione del libro (uscito nel 1964), 5a ristampa del 1969. Le sue pagine sono giallognole, puzzano anche un pochino, la copertina è sparita anni fa, ha subito tre traslochi ma è ancora qui a raccontare la sua fortissima e dolorosissima storia.
Una storia senza tutta la retorica militare e politica, ma intrisa unicamente del supplizio e del martirio a cui vennero condannati più di 200.000 italiani, coetanei dei nostri nonni. Come il mio, che se ne tornò da quell'inferno bianco con un foro in uno stinco e solo gli alluci dei piedi. E che non ha mai raccontato niente di quello che aveva vissuto, e lo posso capire dopo aver letto il libro. Libro che mi ha raccontato un pò la storia al suo posto.
La storia dicevo, cruda, dolorosa, dettagliata da far male, che in certi momenti vorresti corresse più veloce o che saltasse dei passaggi, ma lei no, ti mette li a fianco della colonna in marcia, per farti capire in modo perfetto le sventure che questi uomini patirono, spediti a combattere una guerra inutile e impossibile senza attrezzatura, senza l'abbigliamento adatto, senza supporto logistico, mandati da politicanti che blateravano di ardimento nel comodo delle loro poltrone romane, e che alla fine si riveleranno dei miserabili conigli.
100.000 persone condannate a morte tra i ghiacci dell'Ucraina in inverno, morte ma ancora qui presenti per ricordarci quanto inutile e inumana sia la guerra.
Romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi che, celato sotto lo pseudonimo di Italo Serri, ci racconta un pezzo di storia della seconda guerra mondiale prima sul fronte albanese-greco, poi in Russia e della successiva ritirata, avvenuta in seguito alla disfatta subita dall’esercito italiano. Il libro esprime la guerra nella sua più assoluta e veritiera atrocità; pagine fatte di marcie terribili, lunghi digiuni, temperature che arrivano a meno quaranta gradi, tormente, piedi congelati con le dita che si staccano, morti.....centomila morti!!! Libro molto crudo così com'è cruda la realtà, un sacrificio di vite umane nel nome del nulla, di soldati che diventano fantasmi prima ancora di morire. Tutta questa sofferenza viene vissuta con esemplare dignità dagli alpini della divisione Julia che, nell'inverno del 1942/1943, dimostrarono al mondo un fervore, una forza interiore, un'amicizia a cui ci si affeziona pagina su pagina soprattutto con la consapevolezza di leggere che queste persone sono realmente esistite.
Coinvolgente racconto della tragedia della spedizione italiana in Russia, in particolare della divisione alpina Julia, mandata a combattere senza molti mezzi sul Don, pianura adatta all'uso di mezzi blindati e non ad un esercito munito di muli da utilizzare solo in montagna (come il loro addestramento e attrezzatura prevedeva). Dall'altro lato il coraggio e l'abnegazione degli alpini, che riuscirono, anche se a ranghi falcidiati, a percorrere circa 1200 chilometri a temperature di circa -40°, senza viveri, indumenti adatti e munizioni. Non ci sono riflessioni politiche sul perché di tutto ciò, ma è un canto epico che si propone un intento celebrativo di quegli uomini (e probabilmente Bedeschi non si pose neanche quegli interrogativi, vista la sua storia personale successiva all'armistizio).
Mio nonno, che a una guerra mondiale era sopravvissuto, lo teneva in bella vista nella sua libreria, forse a mo' di monito. Da bambino mi incuriosì il titolo ma non ebbi mai il coraggio di leggerlo. Ora, con la sua necessaria retorica e la sua potenza evocativa, si legge con sgomento. Pensando all'infinito accumularsi di ostacoli a una ritirata frettolosa e male organizzata. Uomini sovrumani, verrebbe da dire. Soprattutto però colmi di una dignità e di un senso dell'amicizia che oggi è davvero rara avis. Per un libro così poco politico, restano le righe finali che evocano la tragedia tutta italiana del ventennio e dell'incapacità di gestire una realtà oscena che deve, appunto, restare fuori dal campo visivo.
È difficile scrivere una recensione per un libro come questo.
Da un lato, è uno splendido e traumatico resoconto di gente che ha vissuto sofferenze indicibili, raccontato con una prosa forse un po’ troppo elegante, ma non per questo meno bella. È impossibile non sentirsi in mezzo ai protagonisti, a -40 gradi nella steppa, e non soffrire con loro.
D’altro canto, una volta che si scopre che Bedeschi tornato dalla Russia è diventato volontariamente repubblichino, si cominciano a comprendere meglio alcune problematiche del libro.
Non una parola viene spesa dall’autore sul fatto che, in Grecia e in Russia, gli italiani fossero stati mandati come invasori, senza alcuno scopo se non quello di dare gloria al regime. Anzi, la popolazione greca e russa sembra sorprendentemente amare e aiutare incondizionatamente gli italiani.
In Grecia, dopo la capitolazione, i soldati italiani vengono amati e rispettati dalle donne e persino dai soldati greci smobilitati e tornati a casa, al punto che lacrime vengono versate alla partenza degli alpini.
In Russia, la popolazione ucraina accoglie gli italiani ad una sosta ferroviaria con musica e balli, e si assiste ad una scena grottesca in cui gli anziani del villaggio prostituiscono allegramente una delle loro ragazze in cambio di cibo (non scherzo). Nelle isbe, i russi sono sempre pronti ad aiutare gli italiani, anche nelle situazioni più drammatiche.
Io sono sicuro che di occasioni di fraternizzazione col nemico ce ne siano state tante, ma da questo libro si evince che gli italiani siano solo brava gente, che però guarda caso sta invadendo un paese straniero.
Qualche velata critica alle scelte del governo e dei capi militari italiani viene fatta, ma molto sporadicamente. Mentre al contrario tutto è condito di patriottismo e di valore militare.
Ciò mi porta a pensare che, probabilmente, non sempre Bedeschi sia stato sincero e abbia voluto supportare una narrativa specifica. Le mie 4 stelle rimangono però perché il libro è scritto magistralmente, e credo che nel complesso la narrazione degli eventi sia fedele ai fatti, soprattutto se si confronta questo libro con Il Sergente nella Neve di Rigoni Stern, uno scrittore che al contrario suo dopo l’8 settembre si è rifiutato di collaborare col fascismo e per questo è stato internato in un campo di concentramento.
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Un bellissimo libro sulle vicende del corpo d'armata alpino durante la seconda guerra mondiale: inizialmente sul fronte greco e successivamente su quello russo. Ho trovato particolarmente coinvolgente e commovente la parte sulla ritirata dal Don, con la descrizione di tutte le sofferenze affrontate dagli alpini: avendo letto precedentemente "il sergente nella neve" di Rigoni Stern ho ritrovato le stesse situazioni, le stesse descrizioni di lotta e sopravvivenza che mi avevano colpito molto. Mi è piaciuto tantissimo infine il personaggio di Scudrera.
Credo che nessuno di noi si possa rendere appieno conto di cosa sia stata la ritirata delle truppe alpine dalla Russia, se ne sente parlare ma leggere queste pagine porta una consapevolezza necessaria ma durissima. Una delle ultime pagine cita "guardando l'Italia già in noi si faceva forte la necessità di dimenticare" ma per noi c'è il dovere di ricordare e connuoverci guardando i monumenti ai caduti, in ricordo dell'inutilità della guerra e del sacrificio della meglio gioventù.
Andava letto, senza dubbio, e senza dubbio è terribile, disumano, raccapricciante ciò che racconta, perché è successo veramente. Detto questo, a me non è piaciuta la scrittura di Bedeschi: troppa retorica, tempi dei verbi a caso, uno stile che a me sembra invecchiato male. Insomma memorabile il contenuto, non così - secondo la mia modesta opinione - la forma.
In un libro indimenticabile, un protagonista di quegli eventi racconta il dramma della ritirata delle truppe alpine dalla Russia durante la Seconda guerra mondiale. Profondo e appassionante, ricchissimo di umanità.
Un libro riletto in queste settimane con una nuova consapevolezza (e cultura) vent'anni dopo una prima lettura. Tremendo nella sua crudezza, commuovente e struggente. Ci fosserio state dieci stelle, le avrebbe prese tutte. Un libro straordinario
Libro che ti fa riflettere sulla guerra...la storia dei nostri alpini nella guerra russa...sembra impossibile tutto quello che hanno passato e riuscire a sopravvivere...