«Ogni volta in cui le donne vengono ammazzate la reazione unanime è sempre quella di un composto, sommesso, quasi imbarazzato: “poverina”». Quando leggiamo la notizia di un femminicidio stiamo in realtà leggendo un’altra storia: quella di chi quel gesto l’ha compiuto, quasi mai di chi l’ha subito. Come se la vittima non fosse al centro della vicenda, e non potesse – neppure da morta – ricevere l’attenzione che le spetta. Un modello di narrazione che assolve retoricamente il carnefice, che giustifica la violenza già a partire dal titolo dell’articolo, che sceglie alcune parole e ne omette altre. La voce incendiaria di Carlotta Vagnoli spazza via in un solo colpo le formule con cui il giornalismo nostrano tende a occultare i meccanismi della società patriarcale, indicando uno dopo l'altro gli anelli di questa catena. E riesce a mostrarci come fare per spezzarla.
Carlotta Vagnoli, fiorentina classe 1987, comincia a scrivere come sex columnist per GQ e Playboy nel 2015. Autrice, attivista, content creator, utilizza le piattaforme social come veicolo per fare divulgazione sui temi riguardanti il linguaggio, la violenza di genere, gli stereotipi. Dal 2017 tiene lezioni nelle scuole medie e superiori d’Italia per avvicinare studenti e studentesse al tema del consenso e fare prevenzione contro la violenza di genere.
Un saggio schietto, che va al cuore di un problema insito nella comunicazione odierna: il racconto sbagliato dei femminicidi.
Partendo dalla cronaca recente, viene analizzata la funzione educativa (mancata) dei giornalisti, mentre si decostruisce con un ragionamento in cui è difficile trovare falle la struttura culturale che porta al racconto sbagliato, quando non controproducente, dei femminicidi.
Si parte dalle fiabe, per poi introdurre la figura del cosiddetto GGG, grande gigante gentile, disceso tra di noi direttamente dal mondo delle fiabe con principi azzurri e principesse passive, a cui è capitata la sfortuna, "maledetta sfortuna" - aggiungerei, di trovarsi in preda a un momentaneo offuscamento, una maledizione del destino, gelosia (la amava troppo), ecc. - che lo ha portato a uccidere una donna
La deresponsabilizzazione dei killer, che va a braccetto con il victim blaming, genera un'interpretazione dei fatti completamente erronea e inutile. Invece di cercare la vera causa dei femminicidi (=la cultura patriarcale in cui viviamo), e di scardinarla, la maggioranza dei giornalisti oggi contribuisce alla perpetuazione in eterno di modelli sessisti di raccontare crimini sessisti.
Modelli narrativi che distolgono l'attenzione dal principale, unico motivo del femminicidio: una donna uccisa da un uomo in quanto/perché donna.
Come uscirne, quindi, da questo circolo vizioso? La saggista indica 10 semplici regole che ogni giornalista dovrebbe seguire quando racconta di un femminicidio.
Un saggio breve e conciso per affrontare in modo diretto come i media italiani trattino tutt'ora i femminicidi. Sicuramente, per chi legge da un po' di femminismo, non è esattamente un libro che insegni qualcosa di nuovo, ma per porre delle basi di analisi lo riterrei più che sufficiente. Tra l'altro, ammetto che questa autrice non mi dispiace, quindi approfondirò sicuramente in altri modi.
"poverina un cazzo!" scrittura inefficace e analisi superficiale quando l'idea di fondo di analizzare come i media parlano dei femminicidi era interessante, peccato!
Ero indecisa fra 3 e 4 stelline, probabilmente il voto adeguato sarebbe stato 3,5. Il tema è fondamentale, l'autrice tocca molti punti incredibilmente importanti, rimanendo però un po' troppo sulla superficie. Secondo me, ovviamente. Punti chiave come la necessità di assumere il punto di vista della vittima, e non quello del carnefice, nel racconto della violenza di genere, credo che avrebbero meritato un approfondimento dato che nella società attuale sono tutto meno che di immediata comprensione. Se lo fossero l'urgenza di scritti come questo sarebbe decisamente minore. Dato che, come ripete giustamente l'autrice, il problema è culturale, "fare cultura" soffermandosi a spiegare bene concetti così importanti penso che sarebbe davvero utile. Ad ogni modo, lo ritengo certamente una lettura da consigliare, anche se non come primo approccio al tema.
Non vedo l’ora che finisca la moda del raccontare inutili aneddoti personali come se a) aggiungessero, anziché sottrarre, qualcosa alla narrazione generale, quale che sia, e b) non facessero risultare l’autore/autrice immancabilmente più antipatico/a. A titolo di esempio, solo dalle prime pagine: - Proprio come incipit, una prosopopea sull’abilità dell’autrice di reggere gli elementi più cupi delle favole senza fare una piega; - “certe abitudini non cambiano mai, e leggere i giornali al mattino distesa a letto o seduta al tavolino di marmo dove faccio colazione è una di quelle che reputo intramontabili”; - Poco dopo, a riprova che non sono io a fissarmi su punti secondari, ma è l’autrice stessa a insistere che tali punti siano considerati importanti: “e vi prego di immaginarmi sempre lí, al mio tavolino di marmo, mentre leggo i giornali bevendo il caffè”; - Imbarazzante intermezzo in cui l’autrice incolpa Belle di quattro sue relazioni problematiche. E ancora e ancora… per citare l’autrice stessa, già dalla prima volta esplodi in un: “chissenefrega, per Dio, dammi tregua”. Ma non è solo questo: il libro dà molto per scontato (a partire dai fatti di cronaca stessa, che non tutti potrebbero conoscere o ricordare, per non parlare di particolari articoli usciti su quei fatti, che peraltro sono rievocati ma non riportati), allude a una ricerca lunga e esaustiva che senza dubbio c’è stata ma non traspare (i casi e gli esempi citati sono pochi, e senza citazioni dirette o riferimenti statistici, per cui la generalizzazione delle conclusioni appare poco convincente. “Ricordo articoli che…” non basta), e azzarda spiegazioni/soluzioni socio-filosofiche banali, imbarazzanti (“siamo tutti e tutte carnefici e vittime”). Qualche osservazione interessante qua e là, spesso poi derivativa, tutto qui. Peccato perché il tema è fondamentale e l’intenzione lodevole.
Un testo breve, che si legge velocemente e che non si può far altro che condividere. Gli argomenti trattati sono potenzialmente tanti e qui si rimane molto in superficie, tuttavia gli spunti di riflessione sono molti e il testo è ben scritto. Avrei apprezzato una bibliografia più dettagliata per approfondire, nell'insieme è un ottimo punto di partenza per cominciare a "masticare" l'argomento.
Seguo Carlotta Vagnoli come attivista e scrittrice su Instagram e ammiro molto il suo lavoro di divulgazione sulla violenza di genere da anni, in tanti eventi e interventi anche da prima che se ne parlasse frequentemente sui social. Questo è un pamphlet sintetico e diretto come vuole il formato, e anche se erano cose che già sapevo, ho apprezzato riascoltarlo letto con parole professionali, in un periodo particolarmente teso dell’opinione pubblica, in cui siamo molto concentrati su un femminicidio avvenuto pochi giorni prima del 25 novembre e, quindi, la manifestazione nella giornata nazionale è stata ancora più sentita, i social si sono riempiti di moniti di rabbia e di lutto che rifletteva quello di tutta una comunità di donne.
Carlotta Vagnoli ci ricorda come si parla e come NON si parla di violenza di genere sui media, e quando fa riferimento ad articoli negli ultimi anni noto tristemente che anche quelli delle ultime settimane, giorni addirittura -vista la frequenza con cui le donne vengono ammazzate dai partner- non sono cambiati: in Italia ancora non si è capaci di raccontare queste tragedie come un problema culturale, senza romanticizzare o scovare l’eccezione narrata con un tono favolistico.
Molto belle infatti le riflessioni sull’eredità delle fiabe, che ci ricordano come siano uno schema narrativo importantissimo nella tradizione del racconto:
“Hansel e Gretel sono brutali quanto Cappuccetto Rosso, così come la Bella addormentata ha i caratteri truci della tragedia. Persino Pinocchio, a dirla tutta, ha un fine punitivo più che rieducativo. Questa continuità è garantita dalla stereotipizzazione del male. I motivi ricorrenti e i profili psicologici dei personaggi delle favole tradizionali, traslando di storia in storia, dopo un po’ diventano elementi riconoscibili. I cattivi si tramutano puntualmente in maschere teatrali, personaggi da commedia riproposti all’infinito che sebbene agiscano in storie differenti, sembrano avere tutti le stesse radici”
E a cosa porta la giustificazione del delitto dell’uomo, chiamato ancora troppo spesso “delitto passionale” e non “uccisione di donne perché donne”, senza riflessione sul ruolo sociale e politico, con solo la voglia di proteggere la categoria maschile privilegiata mentre gli uomini stramazzano nel vittimismo del “non tutti sono così”. Invece, sono esattamente tutti così, coperti da maschere del “mostro”, “gigante buono”, eccezioni a cui ci si aggrappa per evitare il vero problema:
“Queste maschere noi ce le siamo ritrovate nella vita quotidiana, senza essere più in grado di distinguere in maniera analitica il mondo delle favole da quello reale. I mostri sono stati portati nella quotidianità, anche se di mostruoso non c’è alcuna traccia”
L’unico motivo per cui dò 4 stelle è che manca purtroppo una riflessione sul differente trattamento per gli uomini non italiani, o magari italiani ma non bianchi di etnia, con i quali questo paese ha ancora un problema perché quando sono loro a violentare/uccidere le donne i trattamenti sugli articoli sono molto più duri, c’è un tono di shock che copre il razzismo fin troppo abituato. Perché gli stranieri sono già visti come “invasori”, “che prendono le nostre donne” (pensiero schifosamente sessista comunque), “quelli selvaggi da cui te l’aspetti”, mentre sugli italiani bianchi, con lavoro o media accademica perfetta, di buona famiglia secondo la tradizione, si è sempre più indulgenti. Come se loro, bianchi e buoni, non potessero mai, e invece a volte sono pure la maggioranza🤡
Ovviamente Vagnoli è bianca e le riflessioni così sono ancora più valide se fatte da donne POC, ma era almeno da accennare, c’erano decisamente fonti da cui informarsi al momento in cui l’ha scritto….
A parte ciò, delle pillole femministe su uno specifico argomento narrato senza superficialità, con riferimenti alla narratività originali e importanti 🙏🏻❤️
Saggio schietto e diretto; Carlotta Vagnoli è una comunicatrice molto efficace e la sua rabbia è tangibile, comprensibile, sacrosanta. Ma manca spessore all'opera: ci sono un paio di citazioni messe lì tanto per, con cui però l'autice non si confronta, anzi che usarle come base per un dialogo più efficace.
Manca inoltre la dimensione razzismo. Non penso che si possa davvero fare una critica obiettiva di "Come si raccontano i femminicidi in Italia" senza neanche menzionare di sfuggita il fatto che questo "come" vari di parecchio a seconda che l'accusato sia un italiano (bianco) piuttosto che un italiano ("di origini marocchine / tunisine / rumene") (cosa che il TG ci tiene sempre a farci sapere) piuttosto che "un immigrato" (e allora SI che abbiamo a che fare con "un problema sistemico", ci tiene a dirci il Salvini di turno.)
Ripeto: Carlotta Vagnoli sa scrivere. Ho letto il saggio tutto di un fiato perchè non volevo fermarmi (tranne quando ho dovuto fare una passeggiata in mezzo, per sbollire) ma come analisi rimane un po' superficiale.
Una serie di riflessioni sul tema del femminicidio e della sua narrazione mediatica. Breve, dolorosa, necessaria. Niente di nuovo forse, ma raccontato bene e fonte di spunti interessanti, proprio per il modo in cui il tema viene affrontato.
Un saggio breve ma intenso ma che in poche pagine riesce a parlare perfettamente del tema che si propone. Schietto, a tratti crudele, questo saggio non si perde in fronzoli e va dritto al punto, al cuore del problema: l'incapacità dei media di parlare di femm1nic1dio nel modo giusto. In un modo o nell'altro si finisce sempre con il fare victim shaming, a ignorare la donna del caso e a parlare del suo assass1n0 cercando, in modo subdolo, di difenderlo, di dargli maggiore umanità. Ma è giusto fare una cosa del genere? Carlotta Vagnoli ci porta degli esempi concreti e ci dice come NON trattare questo tema. Veramente illuminante.
Ottima introduzione, breve ma efficace, sulla rappresentazione mediatica della violenza sulle donne. Non condivido le critiche al libro che lo vogliono superficiale: sono le stesse mosse all'opera precedente, Maledetta sfortuna. Non è che un saggio debba per forza esaurire un argomento per poterlo affrontare, può anche offrire spunti e stimoli per leggere altro. Non penso che saperne abbastanza sull'argomento significhi tacciare di lavoro poco accurato chi invece si è sbattuto per raggiungere un grande pubblico che dell'argomento ha sempre letto sui giornali in maniera distorta. Trovo che Carlotta sia molto competente sull'argomento e usi la popolarità che ha raggiunto sui social grazie all'efficacia dei suoi contenuti per fare in modo che non si rimanga in quattro femministe al circolo a parlare del modo corretto di raccontare il femminicidio. Ne vogliamo ancora, ne abbiamo bisogno.
3.5 stelle. Non dice niente di sbagliato, ma nemmeno niente di nuovo. L'idea non è male, ma l'esecuzione è molto superficiale e, vista la lunghezza davvero esigua, mi sarebbe piaciuto vedere questo tema approfondito un po' di più e meglio, senza fermarsi alla citazione di articoli che hanno parlato in modo sbagliato del femminicidio.
Audiolibro. In un’epoca in cui la comunicazione è il cuore di ogni cosa, trattare il tema del femminicidio è tutt’altro che scontato. Vagnoli fa una disamina lucida delle brutture dei media che si cimentano nel raccontare una violenza di genere. Perché le cose possono essere cambiate anche attraverso l’educazione nel trattare una tematica.
“Ci sono le donne, tutte quante, all’interno della rete della società patriarcale che le vuole in ginocchio, preferibilmente silenziose e sicuramente di proprietà maschile. Ogni donna che ho citato è morta per la stessa semplice ragione: perché donna.”
Lettura interessante (circa una trentina di pagine) che invita ad approfondire l’argomento. Probabilmente la prima pubblicazione che affronta il tema della narrazione del femminicidio (e annessa pornografia del dolore). Nonostante il bisogno di parlarne e leggerne di più, è ovviamente un eBook molto ridotto.
Primo libro del 2022. Dopo aver letto 'Maledetta Sfortuna' della stessa autrice, questo breve ma intenso saggio va ad approfondire un aspetto fondamentale della violenza di genere: le narrazioni sbagliate e tossiche dei femminicidi. La scrittura schietta e senza fronzoli di Vagnoli ti colpisce come un pugno allo stomaco, mettendo nero su bianco una rabbia legittima, anzi, necessaria: "Ogni volta in cui le donne vengono ammazzate o allontanate la reazione unanime è sempre quella di un composto, sommesso, quasi imbarazzato: «poverina».
Poverina un cazzo. Dammi rabbia, [...] Rabbia dovremmo provare."
Poche pagine ma ricche di spunti, che fanno aprire gli occhi e forniscono gli strumenti per riconoscere le narrazioni tossiche che nutrono il patriarcato. Strumenti necessari perché "La cultura si riforma cambiando il modo in cui noi parliamo, scriviamo, comunichiamo".
Purtroppo non mi è piaciuto molto perché non entra in profondità nell'argomento, sicuramente per il numero limitato di pagine. Tocca argomenti interessanti ma senza entrare in profondità ed è la sua pecca.
Un libricino concentrato. Utile per ricordarsi, sempre, di come il femminicidio viene trattato dai vari media. Un buono spunto di riflessione. Brava Vagnoli!
Un saggio breve ma conciso che va ad approfondire un aspetto fondamentale della violenza di genere: la narrazione sbagliata e tossica dei femminicidi ad opera di un giornalismo che utilizza metodi narrativi imbarazzanti, che richiamano il mondo delle favole, finendo così per colpevolizzare la vittima (“se l’è cercata”) e deresponsabilizzare l’assassino (“mostro”, “colto da un raptus”). Questa narrazione finisce per allontanarci dal vero problema e matrice alla base di ogni femminicidio: la cultura patriarcale e sessista che caratterizza la nostra società.
Nonostante si tratti indubbiamente di un testo scritto bene e in modo chiaro, leggendolo mi sono chiesta cosa - di fatto - aggiunga al discorso già presente in merito sui social di Vagnoli o rispetto al precedente libro “Maledetta sfortuna”. Vengono inoltre tralasciate diverse tematiche centrali, quali la disabilità, il sex work, il razzismo ecc.
Quella sul modo in cui si parla di femminicidio è un’analisi necessaria. Complice la brevità del testo però rimane, purtroppo, ad un livello superficiale.
Interessante il parallelismo tra la struttura delle favole (e come le cose peggiori possano essere raccontare in modo da renderle accettabili/poco o per nulla spaventose) e la narrazione mediatica dei femminicidi.
Avrei voluto che l’autrice andasse più a fondo nella questione.
Questo breve saggio può essere consigliato a chi vuole approcciarsi per la primissima volta all’argomento per farsi un’idea.
« [..] soltanto crescendo avrei compreso quanto gli schemi dell’universo favolistico vengano spesso importati nella realtà per poter giustificare i comportamenti umani che ci rifiutiamo di imputare ai nostri simili.»
«Mischiando questo ideale romantico completamente tossico alla stereotipizzazione di genere (che vuole il sesso maschile come parte attiva che non deve chiedere mai), è stata legittimata qualsiasi mostruosità. E, insieme, è stata legittimata presso il genere femminile una pericolosa romanticizzazione della violenza, rendendo sempre piú difficile da parte delle donne riconoscere i comportamenti abusanti, pensando appunto che tutto sia lecito, che non esista un confine tra l’abuso e il non abuso.»
«Perpetrare questa narrazione fantasiosa quanto stupida del sentimento romantico anche nel giornalismo di genere innesca un paradosso: le donne muoiono per possesso e cultura patriarcale, non per troppo amore. Non esiste il «troppo amore» e qualcuno ce lo dovrà pur insegnare, prima che altre centinaia di donne muoiano per questa colossale bugia.»
« [..] la pornografia del dolore non conosce dignità e passa sopra a tutti i corpi femminili. Perfino a quelli delle madri, perfino a quelli delle donne uccise dai mariti. Perfino a quelli di noi sopravvissute che leggiamo con un nodo alla gola questo scempio. »
«Imbastendo la lieta novella di una relazione che di amoroso ha ben poco si arriva a far pensare che da qualche parte – annidato nel passato della coppia – ci sia stato un gesto, un brusco e repentino tradimento, una risposta malevola che abbia potuto scatenare la furia, facendo accendere lo scontro e portando al femminicidio. E questo retropensiero è quanto di piú tossico e problematico si possa perpetrare nel giornalismo contemporaneo. Perché lascia intendere che la colpa possa essere, tra le donne e gli uomini, le vittime e i loro carnefici, ugualmente divisa.»
«Non ci sono abiti, mariti, amanti, nemici che tengano. Non ci sono liti, regali, fiori. Non ci sono troppo alcol, troppo amore o troppo sesso. Ci sono le donne, tutte quante, all’interno della rete della società patriarcale che le vuole in ginocchio, preferibilmente silenziose e sicuramente di proprietà maschile.»
«Ogni donna uccisa dal compagno viene uccisa in un femminicidio, non in un semplice omicidio. Non si tratta di un termine come un altro. Dare un nome a un fenomeno ci insegna a riconoscerlo e comprenderlo. Allora perché non vogliamo, dalle pagine dei giornali, dagli schermi delle nostre vetuste televisioni, dalle voci dei nostri speaker in radio, dagli Lcd dei nostri device, iniziare a dare la giusta responsabilità a un fenomeno cosí globale da essere diventato una fottuta rete?»
«E allora noi possiamo fare soltanto una cosa per tagliarla, questa rete: prenderne atto e fare tutto il possibile per raccontarla nella maniera piú giusta possibile, traslandola nel mondo reale, senza sotterfugi, con la giusta concentrazione.»
«Crescendo impari in fretta che sovvertire questo ruolo porta delle conseguenze, e anche se senti raccontare ovunque di un amore perfetto e idealizzato cerchi di camminare alla luce dei lampioni o di evitare di fare rumore con i tacchi, per non dare nell’occhio. I primi approcci al sesso, alla collettività maschile, ai commenti sessisti per strada ti fanno capire che di gentile e stilnovista nel mondo c’è ben poco.»
«(E arriveremo, oh se arriveremo: non ci sentite? Siamo già qui, fuori dalla vostra porta).»
«Abbiamo costruito una rete di sicurezza perché nessuno ci ascoltava quando urlavamo che ci stavano ammazzando. Abbiamo fatto rete per non rimanere sole quando una intera società si dimenticava di noi. E stiamo facendo rete per esigere che a quelle che non ce l’hanno fatta venga restituito almeno un nome, un volto e una dignità sui media che le strumentalizzano per fare pornografia del dolore nel disperato tentativo di continuare a nascondere qualcosa che abbiamo chiamato cultura dello stupro. Che ci voleva silenziose, delicate oppure morte.»
«[..] dite il loro nome. Chiamate le donne uccise per nome e cognome. Mettetelo nero su bianco, come prima cosa, già nei titoli. Imparate i loro nomi e rendeteli vivi sulla carta, o fatelo con la voce nei servizi televisivi: una donna che è stata cancellata venga riscritta, almeno da morta, nella sua storia. »
«La pornografia del dolore è un trigger per tutte le persone sopravvissute a violenza che si trovano a dover leggere quella dettagliatissima sfilza di particolari ininfluenti alla narrazione.»
«Se vogliamo davvero iniziare a trattare con decoro e precisione la violenza di genere, iniziamo a fare a meno della morbosità del racconto dei corpi e del sangue.»
«La cultura si riforma cambiando il modo in cui noi parliamo, scriviamo, comunichiamo. E non comprendere quanto questo possa diventare salvifico o, se ignorato, potenzialmente mortale, è una leggerezza che non ci possiamo piú permettere.»
«Immedesimarsi nel carnefice lo si può fare solo se come uomo mi viene fatto comprendere che con il femminicida di turno ho davvero tantissimi punti di contatto: sono cresciuto nello stesso modo, ho avuto le stesse idee di possesso e controllo piú di una volta in vita mia, mi sono sentito profondamente umiliato nella mia figura di maschio quando una donna mi ha rifiutato. Facendo questo, allora, oltre a spingere verso una immedesimazione creerò paura e presa di coscienza. E, sul finale, una rabbia produttiva.»
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