Il tema del patrimonio culturale come strumento privilegiato dell’egemonia culturale occidentale è emerso, prepotentemente, grazie al movimento Black Lives Matter e al rinnovato fenomeno di contestazione e rimozione di monumenti controversi dallo spazio pubblico. I movimenti decoloniali alla base di queste proteste sostengono una critica radicale del pensiero occidentale, motore delle forme di colonialismo sulle quali è tuttora incardinato il mondo contemporaneo. In Italia tali movimenti non sono mai diventati oggetto di una discussione allargata, tanto meno nell’ambito del patrimonio culturale. È un ritardo che ha impedito finora la rielaborazione critica dell’eredità culturale del nostro passato coloniale. Decolonizzare il patrimonio significa comprendere quanto di quel passato continua a operare nel nostro presente e assieme sperimentare un uso del nostro patrimonio più democratico e consapevole. Introduzione di Vezio De Lucia.
Un’interessantissima introduzione al tema della decolonizzazione del patrimonio. Fornisce spunti di riflessione su argomenti di rilevanza contemporanea come la repatriation (che, essendomi fermata a studiare la questione dal solo punto di vista museologico, avevo affrontato, ora mi accorgo, in modo molto superficiale: quando si parla di restituzioni, a contrapporsi sono da una parte la creazione di ‘musei universali’ occidentali che ritengono ormai archiviate le conseguenze dell’appropriazione illecita di quei materiali, dall’altra un vastissimo fenomeno per cui basta fornire un dato incredibile, e cioè che circa il 90% del patrimonio africano si trova al momento fuori dal suo continente di origine), l’urban fallism (per cui sono citati diversi gruppi di attivisti, tra cui il collettivo Decolonize Our Museums, che afferma che ‘vandalizzare i monumenti dei suprematisti è la più alta forma di arte pubblica’) o della problematica esposizione nei musei di materiali la cui acquisizione è legata al passato coloniale (mentre esiste una legislazione internazionale sulle restituzioni di opere sottratte per conflitti bellici, non ne esistono per quelle legate a saccheggi coloniali; sarebbe perlomeno necessario affrontare in modo esplicito, all’interno del museo, le problematiche dell’acquisizione di questi materiali), ma soprattutto fa definitivamente luce sulla natura intrinsecamente politica del patrimonio (un esempio: quando si rivalutano architettura e patrimonio fascista sulla base delle loro sole qualità estetiche, questa nostra presunta neutralità si lega in realtà al revisionismo sulla storiografia del fascismo, perché “una posizione a-politica su questi siti è tutt’altro che neutrale”). Queste storie di violenza si rinnovano “tutte le volte che si aprono le porte dei musei che ospitano oggetti di provenienza coloniale”.
Propagandistico sin dalla scelta dei termini e dall'impostazione dei discorsi. Tutto ciò che all'autrice non convince viene bollato con termini delegittimizzanti (presunto, supposto, teorico etc.) mentre la c.h.s. viene presentata come unica e fattuale visione del mondo. Credo ciò possa essere anche derivato da quella che pare essere un assenza di un comitato scientifico nella collana antipatrimonio, diretta dalla stessa autrice e finanziata dal codirettore tramite cultura generale. Sostanzialmente mi ha dato l'impressione di un testo che se la suoni e se la canti come preferisce e anche se su molti argomenti è effettivamente illuminante (stiamo comunque parlando di un'espertasicuramente più preparata di me sull'argomento e questo voglio specificarlo) su molti altri mi sembra che glissi in modo da favorire l'aspetto a Lei più conveniente.