«Perché trovo sempre un lavoro?, mi dicevo, Perché non mi lasciano andare alla deriva in pace? Diventare un barbone. Una delle possibilità che contemplavo. Che contemplo tuttora. Poi non ho coraggio. Mi viene in mente mio padre, il poliziotto Arturo, e la sua divisa, sempre impeccabile; e mio nonno, la dignità con cui indossava il suo vestito da festa. Assurdità che sempre mi ritornano. L’origine è un vestito che uno non smette mai».
Il lavoro come condanna e perdizione, il lavoro come cellula primordiale dell’organismo umano, il lavoro che marchia anima e corpo di un’intera vita.
Con una scrittura originale come un classico pezzo di jazz, che ne ha fatto uno degli autori italiani piú importanti della sua generazione, in questo romanzo autobiografico Vitaliano Trevisan racconta il lavoro nel luogo in cui è una religione, il Nordest, dagli anni Settanta fino agli anni Zero. E attraverso questa lente scandaglia non solo le mutazioni del nostro Paese, ma la sua stessa vita: il fallimento dell’amore, i meccanismi di potere nascosti in qualunque relazione, la storia della propria e di ogni famiglia, che è sempre «una storia di soldi».
In questo splendido romanzo autobiografico, Vitaliano Trevisan racconta gli anni Settanta schiacciati tra politica ed eroina, cui sembra essere sopravvissuto quasi per caso, la storia di un matrimonio e della sua fine, le contraddizioni del mondo della cultura – dove per ironia della sorte la frase più ripetuta è «non ci sono soldi», la stessa che gli propinava il padre – e la sofferenza psichica, il percorso pieno di deragliamenti di un ragazzo destinato a fare lo scrittore.
Dove tutto ebbe inizio, l’inedito che compare in fondo al libro, viene pubblicato per espresso volere dell’autore. Sono pagine scabre, di lancinante verità.
Vitaliano Trevisan (1960–2022) è stato uno scrittore, attore, drammaturgo, regista teatrale, librettista, sceneggiatore e saggista italiano. Dopo una giovinezza trascorsa come impiegato nel settore edilizio e dell'arredamento, si dedica a lavori più manuali fino ad approdare alla letteratura. Dopo alcune prove letterarie di buona levatura, raggiunge il successo nazionale e la notorietà nel 2002 con il romanzo I quindicimila passi, apprezzato dalla critica, che racchiude i pensieri di un uomo, Thomas, dalle mille fobie e dai meccanici comportamenti ossessivo-compulsivi. È morto suicida il 7 gennaio 2022 nella sua casa di Crespadoro all'età di 61 anni.
C’è di peggio nella vita che morire, scrive Trevisan. E dopo aver concluso questa splendida lettura, aggiungerei, credo a braccetto con lui, che lavorare è tra quel che di peggio possa accadere nella vita. Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi: ma liberi da che? Non certo dall’essere sfruttati, umiliati, calpestati. Forse, liberi di morire. Si lavora per mangiare, “because I need the money”, come risponde l’io narrante al prof d’inglese, dal saggio nome di Mr Chess, che chiede ai suoi studenti proprio la domanda clou, Why do you work? Realizzazione di se stessi “e altre cazzate del genere” sono le risposte sprecate. Quando invece, la risposta giusta è semplice e a portata di mano di tutti: perché ho bisogno dei soldi che mi servono per campare. Certo che se chi ci ha tenuto tanto a metterci al mondo avesse provveduto a risolvere questo aspetto basilare, non avrebbe fatto che metà del suo dovere. Invece, sappiamo bene come va perlopiù a finire… …le relative riflessioni sull’inutilità del lavoro, o meglio sulla sua utilità solo in quanto mezzo per riempire, e così facendo distrarre da se stessi e dal proprio vuoto, una maggioranza di vuoti esistenziali che, proprio perché vuoti, sembrano avere una spasmodica necessità di rendere se stessi reali attraverso il lavoro.
Disonestà!, parola, pesante, secca, che divide nettamente, difficile da usare in un Paese come il nostro, così gelatinoso e appiccicaticcio, specie in materia di legalità, che la parola , anche la più affilata, resta inevitabilmente invischiata e non divide nulla. E d’altronde già secoli prima Machiavelli, era tagliente e per nulla tenero con il costume nazionale, che è quello della corruzione. Trevisan non dimentica di citarlo. Sì, certo, Works è un viaggio spietato nel mondo del lavoro, in particolare di quello del Nordest. Ma a parte che quel nordest a me sembra tutto il Paese – Machiavelli docet – e mi sembra si parli del lavoro in genere, come entità ontologica, attraverso i vari esempi che sono stati gli svariati lavori svolti da Trevisan, a parte tutto questo, il fuoco di queste (quasi) settecento meravigliose pagine è nell’aspetto esistenziale e nell’elemento suicidio ancor più in particolare.
Da “I quindicimila passi”: Il pensiero del suicidio lo devo sempre lasciare un passo indietro. Sempre almeno un passo dietro di me, pensavo, altrimenti sono finito. Mi sono salvato dall’idea del suicidio e in definitiva del suicidio vero e proprio, solo grazie a questo continuo camminare, solo spostandomi in continuazione seguendo le rotte più disparate, non diritto, non in cerchi concentrici, non a spirale, solo un continuo vagare, un continuo camminare, un continuo arrancare, nel continuo tentativo, devo dire coronato dal successo, di tenere sempre dietro il suicidio e il pensiero del suicidio, sempre e continuamente il suicidio almeno un passo indietro. Alternandosi tra apparentemente scherzosi rimandi al Cioran che scriveva “Non disperatevi, potete uccidervi quando volete” e al clima preparatorio della sua nota finale – Trevisan si è ucciso con un overdose di psicofarmaci nel gennaio del 2022, all’età di 61 anni – ed era probabilmente durato molto più di quanto si aspettasse nel corso della sua esistenza – nota finale che recitava “Sono stanco e non ne posso più… ma nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla”, il suicidio – come anche altrove in altre opere – è un’ombra e una presenza che segue e accompagna il percorso, che percorso non fu, di Trevisan, un passo indietro, talvolta affianco. E solo la scrittura, forse, può rendere innocua questa presenza. La scrittura alla quale Trevisan si dedicò con caparbietà e feroce lucidità, anche dopo dieci ore di faticoso lavoro manuale.
Memoir che racconta la vita di Trevisan attraverso lavori e incontri e riflessioni, dal manovale al tagliatore di lamiere, dal geometra al cameriere al gelataio in Germania, dal portiere di notte al muratore, dall’apprendista designer allo spacciatore di droga, fino ad approdare allo scrittore. Amore dalla prima pagina. Ce ne sono quasi settecento e ne avrei volute settemila. E le avrei volute tutte senza editing, come sono queste, “chiuse” da Trevisan, senza interventi altrui, così come qui si afferma: O la nostra scrittura è cosa solo ed esclusivamente nostra, oppure è altro. Se è altro, non vale la pena. Un senso di vicinanza, perfino fratellanza, una lingua e un’anima che mi sembra di conoscere e frequentare da sempre. Meraviglioso regalo di chi sa suggerirmi grandi libri, libri belli.
Probabilmente scoppiai a piangere. All’epoca mi succedeva spesso, mano a mano che mi rendevo conto in cui, contro la mia volontà, mi ritrovavo a vivere. Un mondo che non mi piaceva affatto, che non mi era mai piaciuto, nemmeno da bambino, e più crescevo meno mi piaceva.
” Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate”
Più di seicento pagine di malessere e disagio. Una lista che pare interminabile di lavori e mansioni in cui VT cerca forme di sopravvivenza.
In un mondo dove moltissimi si definiscono nel ruolo lavorativo tanto da identificarsi con l’azienda di cui non sono che burattini, lui sa che qualunque lavoro gli si presenti non troverà mai la sua dimensione.
Ma il mondo non è fatto per chi sente il bisogno di scrivere. Scrivere solo raramente e solo dopo anni può contribuire a mettere qualcosa in tavola. La provincia veneta esce dai suoi confini perché le storie che Trevisan ci racconta non sono favole ma l’ordinaria quotidianità di tutta una nazione.
Lavori pericolosi senza adeguati strumenti di sicurezza, sopraffazioni, interpretazioni personali dei contratti nazionali, straordinari non pagati ma pretesi… Tutto parte da una bicicletta che il Vitaliano ragazzino desiderava. Il padre dice “Certo” e lo accompagna in una fabbrica di gabbie per uccelli. Così inizia un complicato e lungo percorso nel mondo del lavoro..
Una variegata geografia umana accompagna mansioni e dettagli tecnici e perfino attività che non hanno nulla di legale (spaccio) ma quel che resta è un sapore amaro. La delusione del non-essere, del non trovare il proprio posto.
Pagine di rabbia, di paure, di frustrazioni accatastate giorno dopo giorno. La convinzione di voler scrivere ma al tempo stesso non scrivere nulla per anni.
Poi, come spesso succede, le cose accadono e basta. Inizia a scrivere e da una cosa nasce l’altra: il cinema e il teatro ma qualcosa dentro stride e spinge in altre direzioni.
Vitaliano Trevisan è morto suicida il 7 gennaio 2022..
” E mi diede da pensare tutta quell’ansia di realizzazione di se stessi attraverso il lavoro. Se è per questo mi dà da pensare in generale. Realizzare se stessi. Realizzare me stesso! E poi, una volta che mi sono realizzato, che dovrei fare, appendermi a una parete?, mettermi in esposizione su uno scaffale, o peggio su un piedistallo, o peggio ancora affittarmi un tanto all’ora per accomodarmi in qualche stupido salotto in compagnia di altri realizzati ed esporre le mie stupide opinioni su qualsiasi cosa?, oppure, e sarebbe il migliore dei casi, scagliarmi addosso un martello e chiedermi perché non parlo? — di passaggio: si è mai suicidato nessuno con un martello?”
Leggevo le prime pagine di questo romanzo-biografia di natura torrenziale (nel senso della pioggia, non dei corsi d'acqua che, come si sa, quando sono a carattere torrentizio hanno portate assai irregolari. Qui per stare in tema idrogeologico sarebbe più corretto pensare ai fiumi. Ai grandi fiumi. Natura fluviale).
Insomma, leggevo le prima pagine di questo romanzo e mi dicevo, interessante però quanto è scritto male. Sembra un meccanismo arrugginito. Che periodi lunghi e arruffati. Un pò grezzo eh.
Poi in realtà, senza nemmeno sforzarsi molto, capisci il senso di quel periodare, che è poi più prosaicamente uno stream of consciousness in salsa veneta, anarcoide, instabile, frammentata. E senza impegnarti molto entri in un meccanismo narrativo che deve essere grezzo, dato quello che racconta, che deve essere arruffato e frammentato, per lo stesso motivo, e che non è per niente arrugginito.
Anzi, direi che per lucidità è sostanzialmente superbo. Qui l'autore mette in scena la sua vita (una vita tremendamente incasinata, non facile né felice, molto proletaria) senza filtri né infingimenti. Una vita, anzi una prima vita (giacchè riguarda i primi 40 anni dell'autore, quelli trascorsi a fare i lavori più disparati in attesa di sfondare come scrittore), che ruota intorno a tre cose.
Il lavoro, prima e sopra di tutto, nonostante tutto, quel tanto da sopravvivere. La scrittura. La depressione (o la forte instabilità emotiva dell'autore, chiamatela come volete).
Tanti crolli, qualche risalita, sincerità assoluta, tantissime riflessioni buttate qua e là, perle ai porci, su quel che è l'Italia (e il Veneto, e il Triveneto anche, in particolare), su quel che è il lavoro in questo paese che su quello si dovrebbe fondare (e che oggi più che mai fa semplicemente e banalmente schifo). Quei decenni (i Settanta, gli Ottanta e i Novanta) descritti nel loro epicentro più profondo, nell'epicentro italiano più profondo e vero che è la periferia e la piccola città (le grandi città sono solo dormitori, batterie d'allevamento, fingimenti, sempre più copie carbone delle altre grandi città sparse in giro per il pianeta). Il degrado, l'individualismo, l'ipocrisia che salgono nel tempo. Montano e montano e montano (e il berlusconismo a dargli la stura finale, e definitiva).
E l'autore che sprofonda, fragile e insicuro ma acuto osservatore del suo tempo. Galleggia, malamente. L'unica spinta idrostatica è il sopravvivere. I soldi. E la scrittura.
Non so dire se provo simpatia per Trevisan. Io e lui siamo quasi agli antipodi: come mentalità, vissuto, obbiettivi. Non deve essere un uomo facile. Eppure, amo la sua brutale sincerità, l'assoluta trasparenza, il rigore logico. L'andare con la propria testa fino in fondo. Alla fine sono contento che questo tecnico-umanista (solo qui, mi rivedo in lui) così atipico, quest'uomo profondamente infelice e fragile e diversamente saggio ce l'abbia fatta.
C'è un'altra cosa che non so: se l'autore volesse dare al titolo del libro il duplice significato che gli ho dato io.
Works, plurale inglese del sostantivo "lavoro". Quindi, lavori. E in effetti penso che poche persone in Italia abbiano cambiato tanti lavori tanto diversi quanto Trevisan. E works, terza persona singolare del verbo work. Lui/lei/esso lavora, quindi. Sempre. Nonostante tutto. Sopra a tutto. Bisogna pur vivere. Vale per l'autore e per tutti noi (per fortuna, bisogna dire. Il lavoro, un lavoro stabile soprattutto, è la base e le fondamenta di tutto il resto).
Se ho indovinato, scelta impeccabile. Di scelte sbagliate Trevisan in vita sua ne ha fatte un sacco, e ce le elenca tutte qui. Questa l'ha indovinata. Anche insistere a scrivere è stata una buona scelta. Uno dei pochi romanzi italiani recenti che dice veramente qualcosa, che ha un valore intellettuale prima che narrativo, che fa riflettere continuamente. Su noi stessi, prima di tutto dato che si tratta di una lunghissima, faticosa, elaborata, complicata seduta per analizzare prima di tutto sé stesso. E per sé stesso intendo Vitaliano Trevisan, che l'analisi feroce sul proprio io e sul proprio essere l'ha meritoriamente fatta fino in fondo.
Era difficile fare meglio. Complimenti, e consigliato caldamente.
(1) Sarà che conosco parecchi dei posti di cui parla Trevisan: la periferia-dormitorio di Vicenza, Cavazzale, il Parco Querini, Corso Palladio… (2) Sarà che ho amato i suoi primi libri (Un mondo meraviglioso, I quindicimila passi), ridimensionandone solo un po’ il valore dopo aver letto Bernhard, e che avevo bisogno di ritrovarmi tra le sue pagine. (3) Sarà che mi è sembrato di leggere le lotte di Knausgard se Knausgard fosse vissuto nel veneto operaio, campagnolo e democristiano degli anni Ottanta e Novanta. (4) Sarà che con l’autofiction ultimamente ci vado a nozze proprio, che mi leggerei chili di pagine di (auto)biografie romanzate, evidente segno del mio invecchiamento precoce.
Sarà, ma fatico ad individuare, in questo momento, in Italia, qualcuno la cui scrittura abbia la stessa forza. Tra gli autori che ho letto, ovvio. Qualcuno che sapesse rendere così letterari, spietati e profondi gli ultimi trent’anni a nord est.
Tra le letture fondamentali dei miei trent’anni. [82/100]
Pensando alla mia storia lavorativa nel suo complesso, potrei ben dire che di altro non si sia trattato se non di una lunga successione di false partenze, di strade imboccate senza sapere bene perché, e tutte presto o tardi lasciate. Ciò nonostante, almeno da un certo punto in poi, una sorta di progressione, più che una vera e propria carriera, cominciò a configurarsi. Non una parabola. Nemmeno un arco. Niente linee curve nella mia vita, ma una spezzata, i cui segmenti si tengono a quel titolo di studio che non avrei mai voluto conseguire, e che, prima di spezzarsi definitivamente, arriva a coprire un periodo di quasi quindici anni. Prima solo frammenti incoerenti, che non si fanno mettere in fila. Come perlustrare un terreno abbandonato della grandezza di circa un paio d’anni.
Non sapevo proprio che fare di me. Sapevo solo che dovevo lavorare, come tutti - almeno relativamente alla mia classe sociale –, ma non volevo assolutamente fare il geometra. Avrei voluto scrivere, ma non sapevo come iniziare, e il mio ambiente, familiare e non, non offriva alcun appiglio, e meno che mai un qualche incoraggiamento. Già il fatto di dedicare molta parte del mio tempo alla lettura, era visto come una specie di mania, una sorta di tollerabile eccentricità, che rimaneva comunque una sostanziale perdita di tempo. Perciò no, allora non scrivevo, non tenevo un diario, né trascrivevo su un quaderno le frasi che più mi colpivano, lette o sentite in giro, come ero solito fare da adolescente. Niente scrittura, nemmeno una riga. Non sulla pagina almeno. Però, contro ogni evidenza, ero certo che sarei diventato uno scrittore, e che nel frattempo, data questa certezza, tutto avrei potuto fare meno riprendere a studiare, o fare un lavoro d’ufficio, specie se come geometra. Si fottesse il titolo di studio. Meglio fare l’operaio. Come se fare l’operaio fosse semplice, cosa che non è.
È vero: in quest'ultimo periodo siamo sommersi da autobiografie e romanzi autobiografici d'ogni tipo; ma è necessario fare dei distinguo, poiché c'è sempre chi sa ritagliarsi un suo spazio in mezzo a tutto questo mare magnum d'uscite, chi è capace di adattare tale filone alla sua poetica traendone un'opera d'arte. Inutile dire che, grazie a Works, Vitaliano Trevisan si trova in questo gruppo non troppo nutrito.
Nelle oltre seicento pagine di questo originale memoir, l'autore racconta la propria vita lavorativa («la prima vita», direbbe lui) dai quindici anni fino ai quaranta circa, momento nel quale sopraggiungerà «la seconda vita», ossia quella artistica, che lo vedrà nelle vesti di romanziere, drammaturgo, sceneggiatore, regista teatrale e attore, nonché figura tra le più interessanti dell'odierno panorama culturale nostrano.
Prima cameriere per comprarsi una bicicletta, in seguito geometra per sfruttare il diploma e per cercare un valore aggiunto alla mera sopravvivenza: fare del proprio mestiere un interesse, una passione, e magari farlo pure al meglio. E da qui arriveranno le prime piccole grandi conquiste, poi le cadute e le risalite; le scelte più o meno oculate, un matrimonio fallito, l'esaurimento. Tutto questo, con la sola costante della letteratura, dello «scrivere»: uno spettro crescente che influenza le scelte professionali, come la ricerca di un lavoro manuale (lattoniere, manovale, gelataio in Germania, magazziniere e altro ancora, fino al portiere di notte) per consentire alla mente di essere sgombra da pensieri. Ma, come spesso accade, non sarà tutto così semplice.
Quella di Trevisan è una narrazione fluviale, ricca di incisi e dai lunghi periodi, allo stesso tempo accessibile e scorrevole; una scrittura quasi aliena alla contemporaneità ma fin troppo aderente all'oggi; una voce che non conosce conformismi e che non risparmia neanche se stessa, che colpisce e affonda il nostro Paese e la regione del Nord-Est, nei quali grandi eccellenze convivono con altrettante illegalità, in un continuo rincorrersi di contraddizioni, ingiustizie e storture tipico del mondo occidentale e - verrebbe da dire - della natura umana.
(recensione uscita sul Mucchio di luglio-agosto 2016)
Ciao Vit, da quando ti ho conosciuto qualcosa si è mosso. Guardavo "Primo amore" e mi chiedevo chi fosse quell'uomo con quegli occhi tanto profondi da non sembrare nemmeno suoi. Credo che dal vivo non avrei mai avuto la forza di sostenere il tuo sguardo, solo guardarli in foto fa lacrimare i miei. Così, senza un vero motivo. Forse gli occhi parlano una lingua che sanno solo loro.
In Works ti sei aperto, hai raccontato dei tuoi mille lavori. Leggere del tuo periodo da geometra mi stava quasi stancando. Ho fatto geometri anche io, sai? Sapevo dall'inizio che non era il lavoro per me ma insomma avevo bisogno di un piano B. Ti leggevo e capivo ogni cosa e continuavo a dirmi "per fortuna Kim che hai lasciato perdere". Poi i tuoi numerosi lavori da operaio, perché solo il lavoro manuale ti permetteva di scrivere, almeno così ti raccontavi. A volte mi sono chiesta se continuare a occupare le giornate con lavori estenuanti non fosse soltanto un modo per fuggire alla tua solitudine, quella solitudine terribilmente rumorosa (semicit). E intanto però scrivevi, perché semplicemente avevi una voce da tirare fuori, senza mai definirti scrittore, quello no, proprio tu che ne avevi tutto il diritto.
Devi essere stata una persona terribilmente difficile. Ne sono certa. E poi alla fine eri stanco. Ti capisco, spesso lo sono anche io. E non è colpa di qualcuno o qualcosa. A volte fa semplicemente parte di noi.
Hai scelto di morire quando volevi tu, ci hai spezzato il cuore ma va bene così. Io continuerò a leggerti e rileggerti, mi fa sentire come se stessimo chiacchierando al bar. Cerca di non essere troppo burbero con me, per favore.
Un memoir lucido e disincantato, un lungo monologo con cui Trevisan, ripercorrendo i (numerosi) lavori della sua vita, ci offre uno spaccato del mondo del lavoro nel Nord-est italiano, dagli anni '70 fino ai primi anni 2000.
La sua scrittura è esatta, la realtà è descritta con precisione implacabile, con ironia feroce, con dolente disincanto. Senza fare sconti, nemmeno a sé stesso.
Insomma, io non so cosa dire. Sono un vecchio borbottone, per cui non capisco bene questo genere che va di moda oggi - addirittura autofiction, ho letto da qualche parte, che poi sarebbe la versione in inglese letterario e maccheronico dell'amico che conta balle - e che annovera tra i migliori esponenti l'Albinati e il Trevisan. Sono più o meno romanzi come gli altri, ma basati su una storia vera, come le fiction di Canale 5. Works è la storia della vita lavorativa del Trevisan, prima che il Trevisan diventasse scrittore. E qui si potrebbero dire cose già dette e già sentite, tipo impietoso ritratto del Veneto in cui i capannoni etc. etc., poi continuate voi a piacere che io degli impietosi ritratti mi sono rotto le scatole. Niente di diverso, ma più egocentrico e sicuramente scritto meglio, dal Maino di Cartongesso. Però, siccome è autofiction, quasi tutti i personaggi del romanzo (romanzo?) non hanno nome, ma solo soprannome o iniziali. Non so voi, ma le iniziali per designare un personaggio, a me fanno lo stesso effetto del tizio di spalle e con la voce camuffata dei casi umani che compaiono in tv. Oppure, peggio, sembrano quegli stralci di questura che tanto fanno eccitare i lettori del Fatto Quotidiano: il P. rivelava che il M. gli proponeva di fare mercimonio all'uopo suddetto, pur resosi conto della fattispecie in oggetto, proprosta dal F... Che noia: io apprezzo gli scrittori che pescano dalla vita vissuta, meglio se loro (Bukowski, Céline, McCourt, per dirne tre di scarsi), ma che abbiano la pazienza e il garbo di raccontarmela bene, la loro vita vissuta, romanzandola quel tanto che me la renda digeribile e non mi lasci l'impressione di leggere il diaro segreto di Vitaliano. Però mi è piaciuto, e mi ha fatto passare quel poco di voglia di lavorare che ho. Di più, mi ha infastidito, di quel fastidio insofferente e rabbioso che ho contro l'andare a lavorare ogni mattina. E, ovviamente, muoio di invidia: Trevisan se l'è lasciato alle spalle, il mondo del lavoro, e io invece mi godo le meritate ferie prima di riprendere a timbrare il cartellino, più svogliato che mai. E per lasciarci, una chicca, ché anche nelle migliori famiglie le chicche abbondano. A un certo, punto, preso da non so quale reprimenda, il Trevisan dice: Ma che cos’è l’Italia, pensai alzandomi e incamminandomi verso il Pantheon, se non un conglomerato di luoghi comuni. Prenderli a martellate, è uno dei miei compiti. Bravo, Vitaliano, magari comincia con questo, scritto proprio proprio da te: un febbraio di quel freddo umido che è molto peggio del freddo e basta. Io quando divento scrittore dedicherò un paragrafetto al freddo che ti entra nelle ossa, che è molto peggio del freddo e basta.
Prima di tutto, tanto di cappello: fino ai quarant'anni quest'uomo, Vitaliano Trevisan, ha fatto mille lavori, perlopiù umili, mentre poi è passato a un'importante attività di scrittore, attore, sceneggiatore, regista teatrale, ecc. In questo “Works” ripercorre quella che, nella prima parte della vita, definisce la sua “fallimentare carriera lavorativa”, corresponsabile di fallimenti pure esistenziali essendo che “il lavoro, se anche non è la vita, trasformando nel tempo l'individuo, sia fisicamente che spiritualmente, la influenza comunque in modo determinante”; quindi, partendo dalle tante esperienze professionali vissute, più in generale Trevisan racconta il mondo del lavoro, nel suo Veneto e in questo nostro Paese, tuttora “corrotto sopra tutti gli altri” (Machiavelli). “Works” è un gran libro, nel quale l'autore, con notevole arguzia e ammirevole stile narrativo (con echi di Bernhard), sa incollarti a tutte le 651 pagine, senza cali di tensione: tanto di cappello, allora, anche per questo specifico lavoro letterario.
In questo ricco mémoire, Trevisan racconta oltre vent’anni di esperienze lavorative nel nord est d’Italia, un territorio in cui all’espansione economica non sembra aver fatto da contrappunto la crescita culturale e civile dei suoi abitanti. Il risultato è che i benefici economici, sono generati non dalla qualità del lavoro e della produzione, ma da una tollerata e diffusa illegalità: padroni che per arricchirsi, ma forse anche per restare sul “mercato”, trascurano le regole, regole il cui rispetto non sembra tuttavia interessare neppure impiegati e operai, che pure sono poi quelli che pagano le conseguenze di questa trascuratezza sia in termini di distribuzione ineguale dei benefici, sia in termini di sicurezza. Il tema del ricco e ipocrita nord est è piuttosto sfruttato, ma mi è piaciuto il modo in cui Trevisan lo ha affrontato, sia per lo stile ricco di divagazioni, di note, di citazione, sia per il tono schietto e diretto dell’autore. Trevisan è condannato al lavoro, che gli è necessario per vivere. Eppure, sconta la sua condanna con onestà e non riesce a fare a meno di migliorare il processo lavorativo. Il lavoro è una religione in cui afferma di non credere, a differenza di quelli che ha intorno, eppure è il solo che ne mette in pratica quelli che dovrebbero essere i veri precetti. Ho certamente anche alcune riserve sul libro, che ho trovato ripetitivo nelle dinamiche; inoltre, non sempre ho apprezzato il modo in cui l'autore ha presentato sé stesso. Ma l'interesse complessivo del libro mi ha fatto accettare anche questi aspetti meno piacevoli per me.
Un'autobiografia in cui Trevisan che ci racconta dal di dentro, anche aggiungendo qualche piacevole dettaglio tecnico, i cento mestieri che si sono intersecati con la sua tardiva, ma sempre coltivata nell'intimo, aspirazione a diventare scrittore. "Scrittore che non scrive, ma comunque scrittore". Addetto alla costruzione di barche in vetroresina, muratore, facchino, tirocinante geometra, venditore di mobili, impiegato in uno studio tecnico edilizio, stradino, impiegato in una cooperativa disabili, lattoniere, marito (per breve tempo) di una imprenditrice nel settore dell'oro (Si era nella seconda metà degli anni Novanta, e la parola «imprenditore», spinta, promossa, direi quasi inoculata, attraverso un’ossessiva campagna di marketing, da una nuova e potentissima ditta politica, stava entrando ormai nel linguaggio comune), casalingo, gelatiere in Germania, magazziniere, giostraio, portiere di notte. Ecco alcune delle attività, da sommare ad un periodo in mobilità e, in una occasione anche... ladro!. Perché per vivere bisogna fare davvero di tutto. Un ritmo incalzante e una scrittura aspra che mette a nudo quanto è difficile lavorare sotto padrone e quante ingiustizie e prevaricazioni bisogna sopportare, e quanto bisogna subire e lottare. Ma Trevisan tira avanti con tenacia, anche se talvolta la sua psiche tentenna, perché ha la scrittura nel cuore, quella scrittura che "ogni tanto mi prende la mano, la narrativa mi diventa teatro, e oltretutto monologo, forma pericolosa per me stesso e per gli altri, che mi inquieta perché mi ricorda il mio personale incessante monologo, e sì: bella è soltanto la lotta, ma il monologo è lotta di se stessi con se stessi, e per uno che ne uccidi, dieci tuoi rinascono, e così finisce che uno si distrae e prende un’altra strada, proprio come è appena successo. Cinquecento pagine che ho bevuto a grandi sorsi e mi sono volate via in un attimo e che, però, mi hanno segnato nel profondo. Forse perché ho vissuto in altri tempi, ben diversi, quando il posto fisso era la norma: "adottato" da un bonario datore di lavoro a 23 anni, rimasi fino alla pensione. E se da un lato mi un po' mi sento in colpa, paragonandomi a Trevisan, dall'altro penso che lui ha vissuto molto più di me. Questo è un libro che difficilmente dimenticherò. Potevo permettermi il lusso di ascoltarlo, di osservarlo con più attenzione, questo padrone postmoderno di cui avrei fatto volentieri una lampada da terra. Non so esattamente perché, ma era così che lo vedevo, come una lampada da terra con una vena anni Settanta. Forse il riporto, che immaginavo incernierato: aprendolo, la lampada alogena posizionata nel cranio del Raggio si sarebbe accesa automaticamente; o forse il suo soprannome, che per un po’, all’inizio, quando ancora non ne conoscevo l’origine, aveva intrigato i miei pensieri. Il Raggio mi faceva pensare a qualcosa di luminoso, di sottile, di leggero, tutti attributi con cui quell’uomo tozzo e pesante non aveva nulla a che fare. Scoprii più avanti che il soprannome non era che la contrazione di «ragioniere», ovvero il suo titolo di studio, e che per molti anni, prima di diventare socio di minoranza, quella di ragioniere addetto all'amministrazione [...]< /I>
Una premessa: per apprezzare completamente questo splendido libro occorrono due pre-condizioni. La prima (e la più importante): avere conosciuto il lavoro inteso come fatica fisica e non solo mentale. Essere stati costretti a devolvere le proprie energie in compiti banali e animaleschi e ad obbedire a superiori ignoranti e leccaculo, il tutto per sopravvivere dal punto di vista economico. La seconda: essere possibilmente di sesso maschile. Lo sguardo di Trevisan è decisamente e senza indugi (mi verrebbe da dire finalmente!) quella di un uomo, ragion per cui una lettrice probabilmente riterrà certi passaggi troppo marcatamente "maschilisti". Impossibile capire la profondità della visione di Trevisan se non si è stati costretti dalla vita a certe esperienze, si rischia di scambiare l'angoscia esistenziale in cui sono immerse queste pagine per un odio cieco (che sarebbe a volte pienamente giustificato) e liquidare questo splendido libro come una tirata pseudo-Céliniana contro l'inciviltà del lavoro. Leggetelo, fatevi forza, superate le prime cinquanta pagine e poi lasciatevi trasportare dalla corrente, vi immergerete nel mondo dolente e spietato di Trevisan, a mio parere uno dei più grandi scrittori in circolazione.
Autore e libro che non conoscevo, scoperto grazie a una segnalazione casuale su internet, trovato su una bancarella - e non mi aspettavo un tomo di queste dimensioni - e immediatamente apprezzato moltissimo.
E’ una storia autobiografica. Il protagonista-autore-io narrante racconta la propria vita sotto il peculiare punto di vista dell’attività lavorativa, cosa che, come si sa, nel nordest informa pressappoco la quasi totalità dell’orizzonte esistenziale. Quando lui aveva più o meno quattordici anni, e voleva una bicicletta, il padre, invece di comprargliela, lo portò in una fabbrica di stampaggio: lavora l’estate e guadagna i soldi così poi la bicicletta te la compri da solo, disse.... Doveva essere un’azione pedagogica compiuta con le migliori intenzioni, ma valse piuttosto come la prima dose di eroina che lo spacciatore ti regala sapendo che poi dopo non ne potrai più fare a meno. Così lui si trovò catapultato nel mondo del lavoro. Continuò faticosamente con gli studi, prese il diploma da geometra (sempre lavorando a latere), e poi, obbedendo non si sa più se alla propria volontà o a quella dell’ambiente che lo circondava, cominciò ad inanellare lavori dei più disparati, geometra, designer, operaio, gelataio, impiegato quadro in fabbriche di arredo, lattoniere, muratore… e anche spacciatore e ladruncolo. Perché tutto è lavoro nella misura in cui comporta rischi, fatica e produce reddito; che sia legale o illegale non fa differenza (soprattutto poi quando molto del lavoro che dovrebbe essere legale finisce per essere illegale: nero come se piovesse, evasione fiscale, norme ecologiche e di sicurezza bellamente ignorate…) E’ curioso, e significativo, evidentemente, dove ti porti e a cosa ti costringa un certo tipo di ambiente; dato che l’autore-protagonista non è mai convinto di nulla di quello che fa, ma lo fa sempre al massimo, al punto che, in un certo momento, se volesse diventare manager avrebbe tutte le strade aperte (anche i cacciatori di teste hanno messo gli occhi su di lui) e poi sistematicamente butta tutto all’aria per fare non si sa bene cosa (o meglio lui lo sa: lo scrittore. Cose che peraltro gli è anche riuscita, evidentemente). Un atteggiamento possibile in un contesto in cui di lavoro ce n’è sempre, in cui basta aprire il giornale e il giorno dopo sei già assunto (spesso in nero) purché non fai troppe questioni sui diritti e ti adatti a lavorare nei modi e negli orari decisi dal padrone e non dal contratto collettivo di lavoro.
Lo scenario che ne esce è veramente terrificante. Fin dalle prime pagine mi è stato ben chiaro il paragone con “Gomorra” di Saviano: gli scenari di illegalità, sfruttamento, omertà, connivenza delle istituzioni, lavoro abusato, clan familiari e la sostanziale percezione che uscirne per chi ci è nato sia impossibile mi sono sembrati uguali. Va bene che circola meno piombo, ma tutto il resto è pressoché identico. Trevisan è uno scrittore, non un giornalista, per cui non mette nomi (anche se penso che molti si saranno riconosciuti e magari vorrebbero anche fargliela pagare, ma dubito lui abbia una scorta), non avanza critiche sociali ma si limita a porre sé stesso come soggetto-oggetto di tutta la vicenda. Dei vari personaggi che incontra, se li vuole demolire ci riesce benissimo; ma al contrario non ha problemi a manifestare la simpatie e l’umanità di molti tra essi, compresi colleghi e “padroni”. Vale però sempre il patto che puoi andartene, o puoi essere mandato via, in qualsiasi momento; fa parte delle regole del gioco.
(Però a volte i padroni sono delle vere e proprie bestie, al limite della schizofrenia. Uno di loro, quando lui faceva l’operaio, gli disse di raffreddare l’utensile in un certo modo, immergendolo in un secchio pieno d’acqua. Lui lo fece, e il tipo si infuriò moltissimo per questo, come se l’ordine non l’avesse dato lui. Un altro divenne una belva, va a capire perché, per il fatto che lui aveva redatto la lettera di dimissioni sulla carta intestata della ditta. L’autore peraltro mostra un certo compiacimento quando un operaio montanaro e alcolizzato massacra di botte il suo titolare per un motivo inconsistente; la cosa gli richiama alla memoria, debitamente corretto, il famoso presunto proverbio cinese: quando vai in azienda picchia il padrone. Tu non sai perché, ma lui si).
E poi ci sono le dinamiche personali e familiari… Ho personalmente esempi diretti di come in certe famiglie venete (trasferitesi altrove, dato che non vivo lì) certe ottiche utilitaristiche prevalgano sulle dinamiche personali e affettive, in maniera spesso anche molto, molto pesante. Qui il protagonista, dopo un matrimonio andato male (curiose le sue scelte sentimentali, di cui in questo libro si parla abbastanza poco dato che il focus è un altro: una direttrice del personale, una ricchissima imprenditrice dell’oreficeria…) si trova praticamente sfrattato dalla sua stessa casa da parte di madre e sorella, nonostante il testamento del padre abbia disposto diversamente. E dato che a nessuno piace un figlio che fa causa alla madre e che quindi l’esito di un contenzioso legale sarebbe incerto, è costretto ad andarsene. A parte ogni altra considerazione, il libro è scritto benissimo. La scrittura si articola in periodi lunghissimi, quasi flussi di coscienza, ma sempre perfettamente lineari e facili da seguire. Riesce a renderti comprensibili, e per certi versi affascinanti, questioni tecniche da “addetti ai lavori” tipo l’angolazione dei profili degli arredi. o i materiali e le leghe di costruzione. I salti avanti e indietro lungo la freccia del tempo sono chiari e sempre grandemente coerenti. A piè di pagina ci sono poi molte note, secondo lo stile di Wallace (forse lui deve molto a Wallace, ma non posso dirlo dato che lo conosco poco; certo è molto ispirato dalla letteratura angloamericana; peccato - ma è un peccato perdonabile - che detesti Lolita…)
In effetti, andando avanti nella lettura il libro non è più solo un racconto del folle mondo produttivo del Nordest, spesso con qualche accento umoristico, ma comincia poco per volta a emergere la drammaticità che sottosta alla narrazione. Trevisan non nasconde di essere una persona molto problematica, la cui vita è segnata da cicliche crisi depressive, picchi di entusiasmo e abbandoni (spesso controproducenti), ed è anche questo che in qualche modo determina la sua continua ricerca e trasformazione lavorativa. Curiosamente, da un certo momento in poi cominciano a innestarsi nella sua vita anche significativi successi letterari (non si racconta peraltro molto su questo, dato che non è il focus del romanzo), che però non lo portano a uscire da questa spirale di lavori presi e mollati (peraltro, spesso, con rimpianto dei suoi datori di lavoro). Memorabile comunque il confronto con il regista e attore X (riconoscibilissimo come Toni Servillo, conferma venuta anche dopo un rapido controllo incrociato su Wikipedia), che ha portato in scena una sua pièce teatrale stravolgendola nel senso e nella forma, qui riportata come premessa all’esperienza lavorativa all’origine della pièce, la fabbrica di cuscinetti a sfere.
Insomma: Trevisan è un grande scrittore, sicuramente, assieme a Galiano e a Genovesi, il migliore italiano che abbia letto in questi ultimi anni. Voglio provare a leggere altro di suo.
Rilettura
Quasi per caso, mi sono trovato a rileggere questo libro. La seconda lettura è stata ben diversa dalla prima; innanzi tutto pesa come un macigno la consapevolezza che Trevisan sia morto suicida, e quindi questo porta ad interpretare in maniera ben diversa molte delle cose in esso contenute. Inoltre, questa seconda edizione contiene anche un ultimo capitolo, quasi un epilogo, che ancora di più sembra concentrare l’attenzione sulla brutta fine dell’autore.
In effetti, ci sono molte cose della prima lettura a cui non avevo dato particolare peso: il carattere generalmente depressivo dell’autore-personaggio-protagonista; l’abuso di sostanze, praticamente tutte tranne l’eroina e l’alcool; l’assunzione, convinta e accettata, di psicofarmaci. Un mix piuttosto esplosivo che difficilmente può non avere conseguenze pesanti, e nel caso in questione è stata evidentemente una sorta di bomba ad orologeria, nonché probabilmente ha avuto una responsabilità non modesta sulle sue scelte esistenziali (a partire dal non riuscire a trovare una stabilità, prendere e lasciare lavori di qualsivoglia genere, sostenere ora che voleva lavori che gli lasciassero il tempo e la lucidità di scrivere, ora che quello dello scrivere è stato un alibi, ora che voleva lavori manuali, ora che era stato un errore lasciare lavori di concetto nei quali sembrava andare anche abbastanza bene per fare lavori manuali, e via così). L’altro aspetto, quello di non riuscire a venire a patti con la realtà, essere un personaggio difficilissimo da trattare anche e soprattutto per i suoi interlocutori “culturali”, come i registi Servillo e Garrone, o i redattori delle case editrici, lo avevo già compreso nella prima lettura.
L’ultimo capitolo di questa nuova edizione uscito, a quanto pare, postumo ma comunque per volontà dello stesso autore, racconto di una passeggiata notturna per il suo paese natale per sfuggire a una crisi di insonnia e alle angosce correlate, sembra riannodare i fili lasciati in sospeso nelle pagine precedenti. Si parla ancora di lavoro, del Nordest politico e passato direttamente dalla mentalità contadina a quella industriale senza niente in mezzo (cosa che è stata, evidentemente, la sua rovina), di sfruttamento del suolo, di relazioni personali e politiche che sottostanno a tutto (l’etica poco etica della raccomandazione per qualsiasi cosa - e meno male che dovrebbero essere prassi soprattutto meridionali e soprattutto legate al pubblico impiego…), del fatto che comunque essere diventati scrittori non significa aver raggiunto stabilità e tranquillità economica, e poi, molto, del pensiero suicida che ormai abita stabilmente nella sua testa, lo ha sempre fatto, come un’uscita di sicurezza per salvarsi da una vita e un mondo troppo assurdi.
Così finisce la storia. Certo è che sono molti, troppi i pezzi che mancano nel racconto dell’autore, soprattutto le “altre campane”, nonché qualche notizia in più sulla vita sentimentale (in qualche modo e in qualche punto mi è sembrato che nella sua vita non fossero nemmeno mancate esperienze omosessuali). Cercando informazioni, ho scoperto un suo articolo in cui raccontava di un ASO (accertamento sanitario obbligatorio, parente stretto del famigerato TSO) a cui è stato sottoposto a forza; ma non ne spiegava, volontariamente, i motivi. Forse Trevisan meriterebbe un biografo come è stato Claudio Giunta per Tommaso Labranca, altra figura che ha parecchie analogie con quella del nostro, che ne raccontasse la vita andando a cercare nelle parti oscure della narrazione. Qualcuno potrebbe dire: magari sono anche cavoli suoi… Rispondo: non necessariamente. Se ti esponi, se ti racconti, se scegli di essere uno scrittore fondamentalmente autobiografico, allora diventano anche cavoli di chi ti legge. Sorry.
Lungo racconto autobiografico centrato sul tema del lavoro, avendo Trevisan cambiato mille volte mestiere prima di diventare scrittore e drammaturgo, e avendo quindi molto da dire in merito. Racconto acuto e brillante, lucido, ironico e amaro fino alla disperazione. La forma ricorda Viaggio al termine della notte, Il male oscuro e i libri di Thomas Bernhard, dal quale l’autore è stato per sua stessa ammissione influenzato. A Trevisan mancano, rispetto ai suddetti, cultura e equilibrio; la sua scrittura, e soprattutto la sua composizione, è grezza; in compenso, aveva una vivida intelligenza. Insieme alla sua vita, mette in scena come nessun altro ha fatto una ricostruzione esatta e spietata del mondo del lavoro nel Nordest, famigerato mondo dei capannoni, delle fabbrichette, delle fabbricone, delle truffe piramidali, delle tangenziali intasate di traffico e prostitute, degli operai immigrati e mai in regola, eccetera. Perché dico che gli mancano cultura e equilibrio? Perché non ha mai accettato un editing, mentre a detta di tutti questo libro ha bisogno di un'aggiustata e una limata: gli mancava l’umiltà di riconoscersi qualche limite, di fidarsi degli altri. Disturba quella velatura di orgoglio, di arroganza, di presunzione che affiora di tanto in tanto (io sono diverso, io sono solo, io sono migliore degli altri). Disturba la ricorrente sfumatura di misoginia (la parola femmine proprio mi ferisce l’orecchio, e non solo). E il vezzo di usare termini inglesi. E la confusione tra i personaggi, che a volte hanno un nome, a volte le iniziali, a volte un soprannome. Ma se lo si legge ora, quando sappiamo come è andata a finire, tutto si perdona, perché è chiaramente l’autoritratto di un uomo in crisi profonda. Insomma, Works non è perfetto ma merita, ed erano anni che non leggevo un libro italiano così autentico, intenso, sincero, coinvolgente.
In questo romanzo (che l’autore in una nota definisce “memoir”) Trevisan ripercorre le sue numerose esperienze lavorative dal 1975 ai primi anni Duemila. Lo fa senza risparmiarsi (non mancano i riferimenti ai suoi disturbi mentali e a lavori non convenzionali, come lo spaccio di droga e il furto) e senza risparmiare al lettore tecnicismi e sottigliezze (il tutto condito da una buona dose di venetismi, bestemmie incluse). Risultato: un ritratto personale ed uno spaccato del mondo del lavoro nella provincia veneta densi e indimenticabili. La chiusa è spettacolare: “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione”.
Piacevole scoperta di un italiano, non solo come scrittore, ma come persona. Libro molto interessante, persona molto interessante, argomenti molto interessanti. Fino a due settimane fa un perfetto sconosciuto, mi sono immerso e ricoperto delle frasi spiraloidi di T. di evidente ricordo bernhardiano, e ho imparato un sacco di cose, e mi sono divertito e sorpreso. Peccato sia così breve - le 650 pagine non si sentono. Sarei andato avanti tranquillamente anche per i lavori di questi ultimi anni. Poiché non pare possibile mi consolerò ripescando i titoli degli anni scorsi.
avevo bisogno di questo libro. è un libro enorme. non c'è tutto, ma c'è tutto quello che poteva esserci. un pezzo di vita ma pur sempre non la vita. accanto, in opposizione e da tutt'altra parte, in tutt'altro tempo, di "La chiave a stella".
"Nessuna meraviglia, va spesso così nella vita, e un proletario, nel momento in cui dà retta a un borghese, dovrebbe sempre tenere ben presente che il punto di non ritorno di quest'ultimo è sempre molto più in là del suo."
Ho scelto di leggere questo libro - che mi ha fatto compagnia, vera compagnia, per qualche mese visto che, guarda un po', il lavoro mi toglie la voglia anche di leggere - perché cercavo un libro contemporaneo che parlasse di lavoro. E' una delle tematiche che più cerco perché per me il lavoro è una delle invenzioni più alienanti che l'uomo potesse concepire. Quindi mi interessano i meccanismi, gli sguardi altrui, le dinamiche, un confronto con le mie idee. Di solito il lavoro è uno sfondo, qua invece è centrale. Monumentale. E oltre ad aver soddisfatto il mio bisogno di analisi (e di condivisione), ho scoperto una personalità, una voce estremamente interessante e così vicina anche se lontana. Vicina per la sofferenza di base, per la ricerca di un riscatto nella scrittura, che poi a quanto pare non esiste neanche quando si arriva, per il vivere sempre al di sotto delle proprie capacità. Ne parlavo pochi giorni fa di quanto il fallimento fosse parte di me e in diverse riflessioni di Trevisan mi ci sono rivista. Lontano anche perché è un uomo di venti anni più grande di me, morto suicida, che ha avuto una carriera travagliata, ha avuto tanti inizi di carriera diversi da quelli che ho sperimentato io, un uomo che conosce la disperazione e che forse per questo ha una forza anarchica che attrae. Qua vediamo l'aspetto lavorativo della sua vita e qualche piccola incursione nel resto del privato, ma sentiamo le sue opinioni e soprattutto il suo sguardo sull'Italia. Impietoso perché come altro potrebbe essere? Si rivede la provincia del Nord, precisa, capannoni e brutti fabbricati, aree verdi disumanizzate, una società sempre più di individui soli, di meschinità e sempre ancora sfruttamenti. Perché quello non è cambiato. Ci siamo riempiti di oggetti ma sempre sfruttati siamo. Sempre una galera è quella di andare a lavorare, e mandare giù colleghi rampanti, capi incompetenti ma socialmente abili, fatiche e un senso di vuoto che si divora la tua vita. A volte penso a quanto anelo il fine settimana. Conto i giorni, mi sveglio felice il venerdì perché è finalmente passata la settimana e quanto è alienante sprecare così la vita? Non vedere l'ora che il tempo passi, invece di viverselo appieno? Ho lasciato un lavoro culturale che amavo fare ma di cui detestavo tutto il contorno, il protagonismo, le paghe da schifo, il bisogno di essere in un certo modo per poter lavorare, il bisogno di doversi costantemente vendere. Non dovrebbe essere il contrario, essere pura sostanza? Che la scrittura e quel che ci gravita intorno sia un'industria e risponda alle solite leggi del mercato mi sembra un'altra invenzione perversa, come quella del lavoro. Comunque, il libro è davvero un memoir interessante, lucido, intenso, che straconsiglio a tutti. Recupererò le sue altre opere.
Premetto: grazie a questo libro, ho scoperto che - sul piano del gusto - ho difficoltà a leggere testi che parlano in maniera così precisa di lavoro. Quindi, sin dalle prime pagine, il testo mi risultava poco scorrevole per via della noia che mi provocava. Ciononostante, anche se in maniera lentissima, ho deciso di finirlo.
Il testo è un portare alle estreme conseguenze le riflessioni sul realismo di Roland Barthes: è reale ciò che non ha niente a che fare con il senso della trama. Un gesto viene evocato per se stesso, senza che questi abbia un particolare significato o che preannunci elementi futuri. L'intero romanzo si fonda sull'idea che ogni descrizione, ogni gesto, ogni pensiero non abbia una valenza totale, ma che si limiti a mostrare se stesso. E' un romanzo privo di senso, se non quello dell'accumulo del tempo, del passare degli anni, di una cronologia scientifica che non ha nulla di umano.
Il romanzo è la storia di tutti i lavori fatti dallo scrittore prima di diventare uno scrittore riconosciuto dal panorama critico ed editoriale italiano. Sono accumuli di descrizioni, dove il lavoro viene mostrato nella sua fisicità e materialità. Il lavoro per Trevisan ha un solo scopo: continuare ad andare avanti. Il lavoro è sopravvivenza. In quelle poche pagine in cui T. sembra ragionare sulla possibilità che il lavoro possa essere un modo per affermare se stessi, subito mostra la sua bassa determinazione nel perseguire tale pensiero. Il romanzo è la lunga storia di un annichilimento dei propri desideri in favore della pura sopravvivenza, vissuta come una sorta di peso tragico da portare senza sosta. La vita descritta da T. è una fatica di Sisifo che sembra avere importanza solo perché è. E basta.
I personaggi che incontra sono maschere, stereotipi veneti, conferme della norma. 650 pagine e dell'autore scopriamo poco, perché ciò che resta di queste esperienze è solo la descrizione presente nel libro. L'autore produce solo parole ed è tutto ciò che resta di anni e anni di lavoro, che non cambiano l'autore che fin dall'inizio propone una visione del mondo depressa, senza nessun tipo di aspirazione. Questo romanzo è una lunga depressione: un modo per privare ogni descrizione da qualsiasi "pressione" vitale per ridurlo a mero segno linguistico.
E' l'oggetto più letterario mai letto in assoluto. E' pura parola, una parola così semplice che non si preoccupa neanche di prefigurare un senso. Non c'è simbolismo, non c'è metafora, non c'è nessun artificio retorico. La scrittura mostra, come se volesse sostituirsi alla realtà o semplicemente essere ricordo di essa, ma senza l'aspirazione a un senso.
La lettura è particolarmente angosciante se si tiene conto che è stata scritta come un'autobiografia. Una vita che si scrive, senza però avere alcun senso. Non è rappresentazione di un tempo, non è rappresentazione di una cultura, non è rappresentazione di un essere umano. E' puro gesto che rappresenta solo se stesso.
Un romanzo del nulla senza alcuna punta di cinismo. Il tentativo di dire il nulla per 650 pagine, in una gara di resistenza che ha del religioso. Bisogna avere fede in questo romanzo per credere che sia qualcosa, ma l'unica cosa che c'è è la sua carta. Leggerlo sull'e-book deve essere un'esperienza straniante.
Ne ammiro l'operazione intellettuale e la bravura tecnica. Ma è una rinuncia a qualsivoglia piacere di lettura, una negazione dell'esistenza del lettore in quanto essere desiderante. Un racconto sulla normalità più normale senza alcun approfondimento sulla normalità: non c'è ri-conoscenza, ri-elaborazione. Solo osservazione, senza approfondimento. Contemplazione della norma in quello che non è neanche un elogio della norma.
Works è l'autobiografia dello scrittore Vitaliano Trevisan, raccontata attraverso il filtro dell'esperienza lavorativa del protagonista. Benché il fulcro del libro sia il lavoro, la sua ricerca e le alternative disponibili anche oltre i confini della legalità, Trevisan si abbandona a continue digressioni e note al margine sui temi più vari; così come assai eterogenee sono le esperienze lavorative narrate: si va dal furto di indumenti alla recitazione teatrale. È pur vero, però, che nonostante il libro sia a nostro avviso più un’autobiografia tout court che una narrazione su un tema specifico, guardare alla vita attraverso la lente di ciò che viene fatto in cambio della sopravvivenza materiale risulta, in Works, un efficace espediente narrativo. Il bene e il male vengono declinati secondo questa necessità di base — non tanto generalmente umana, ma piuttosto post-industriale — di trovare un’occupazione che si traduca in denaro. Col lettore ormai dalla parte dell’io narrante, a tifare per la sua sopravvivenza e partecipe dell’ingiustizia di un lavoro spesso svilente, mal pagato e rischioso, tutto assume un aspetto nuovo; anche lo spaccio di stupefacenti è perdonabile, e anzi necessario a eludere quello che altrimenti è un labirinto senza sbocchi.
La scrittura è solo apparentemente semplice. A una lettura più attenta viene svelato l’artificio che genera una maglia di contrattempi; momenti di distensione seguiti da improvvise rapide che trascinano il lettore verso una totale adesione al racconto. Con punti ricorrenti di consuetudine ("Il mio architetto, in virtú delle sue caratteristiche fisiche"), e accenni al linguaggio cinematografico ("fottuta cartella"), non raggiunge mai le vette della prosa del ‘900. Ma ripaga nella struttura e nel ritmo percussorio che rimanda al punk industriale; con un parallelo musicale, noi crediamo, più felice dell'altro che viene spesso accostato a Trevisan: riferendosi al jazz.
Col suo contenuto di verità, che non fa sconti a nessuno — tantomeno allo stesso autore —, Works costringe ad abbandonare la rive serene e infeconde di certe narrazioni oppiacee e rassicuranti (oggi diffusissime) per addentrarsi nelle acque dell’instabilità mentale, di una coscienza sempre sul filo di un ripensamento o di un eccesso improvviso; il calcolo e l'istinto sono una cosa sola: in un dualismo in cui è impossibile predire, di volta in volta, quale finirà per prevalere. Trevisan opera un trasferimento di coscienza: il lettore, finalmente, vede attraverso i suoi occhi e ne assume l’emotività; pure i disturbi. Questa è, a nostro avviso, la forza più grande del testo, e non la ricerca che Trevisan affermava di perseguire, cercando di sbarazzarsi della trama e dei personaggi. La narrazione, anche se episodica, è cronologica; il protagonista ben connotato, e dal libro facilmente se ne potrebbe trarre una serie TV, senza stravolgere o inventare alcunché.
Works racconta un mondo che appare in procinto di scomparire per sempre, ed è pertanto, ancor più, un libro decisivo: forse una delle ultime occasioni di dipingere quello che è stato, in contrapposizione a ciò che sarà a causa della automazione del lavoro. Dopotutto, la necessità di svolgere una qualche occupazione lavorativa è, tanto in Works che nella vita reale, non solo alienazione e fatica, ma anche incontro e scoperta. Così Trevisan, seppure involontariamente, ci lascia con una domanda fondamentale: quale sarà la condizione umana svuotata dall’obbligo del lavoro?
Works di Vitaliano Trevisan mi ha accompagnato per lunghi mesi, dal gelo fuori stagione dei mesi primaverili di marzo e aprile fino a questo caldo da fine dei tempi e del mondo. E mi ha accompagnato durante il mio primo “vero” lavoro, e per questo forse lo assocerò sempre alla giusta rabbia — che è quella strapiantata, immobile, irresolubile di una generazione ben lontana anagraficamente, moralmente, culturalmente da quella cui è appartenuto Trevisan, che forse però ci ha anticipato ed è stato radicalmente e disperatamente quello che noi in potenza dovremmo essere, ma siamo tanto più invischiati, tanto più mescolati con una realtà ancora più intransigente. Non è un libro facile, vendibile, perché Trevisan non confeziona facili pacchetti di ideologia né accetta censure, preferisce ragionare, scontrarsi con i suoi pregiudizi e preconcetti — ed è miracoloso leggere le sue grandi e piccole lotte a lavoro, e nella vita quotidiana, per venire a patti con un mostro, con quel mostro, quella sfida principale che spesso è sempre si ripresenta a portare il conto, quel mostro che è la depressione e quel senso di inadeguatezza costante, come se non esistesse un posto al mondo in cui può esistere un essere umano che non avrebbe dovuto nascere. Tutto il resto è un muoversi nell’ombra, alla ricerca di una vita senza troppi compromessi, o troppi impedimenti, una ricerca di esperienze ed euforie, talvolta motivandole con l’esigenza della scrittura, che richiede il cibo per nutrirsi e crescere. Si tratta della prima opera di Trevisan che io abbia mai letto, e quindi non posso parlare per opere precedenti, ma questo è un libro di grande ambizione, interesse, importanza. Ci siamo arrivati dopo la sua morte, e forse di questo Trevisan ne avrebbe sorriso, o forse avrebbe usato una delle bestemmie raccolte diligentemente nel suo repertorio e archivio, ma almeno ci siamo arrivati. Abbiamo il sogno, la fantasia, o forse l’incubo, dello scrittore genio incompreso che lascia nel suo cassetto i libri che nessuna casa editrice ha voluto pubblicargli, qui diversamente - forse non un genio, ma uno scrittore di talento e di sostanza, uno scrittore che val bene la pena di leggere, analizzare, ricordare, e lo dico con trasporto e convinzione, sicura che difficilmente lèggerò un altro libro scritto in Italia negli ultimi 22 anni così bene - lo scrittore è anche riuscito a pubblicare, e raggiungere una certa notorietà, però limitata dalle esigenze di mercato e dalle spinte e promozioni delle case editrici. Dopo la sua morte, alla mia università è stato organizzato un incontro di un seminario sul romanzo contemporaneo dedicato proprio a Trevisan, e in special modo a Works. Avevo cominciato a leggere il romanzo da un po’ più di due settimane e già ne avevo letto circa la metà, sorpresa, quasi sconvolta che qualcuno del genere in Italia potesse essere pubblicato, e come fosse energico e pieno di vitalità il lessico e lo stile di quest’autore. Leggendolo, pensavo spesso alla frase di Philip Dick — “io sono vivo, voi siete morti”. Perché in una foresta di carta morta, Trevisan invece sembra essere un germoglio appena nato, e comunque uno dei pochi esseri viventi rimasti.
Credo che Trevisan avesse bisogno di scrivere questo libro più di quanto noi ne avessimo di leggerlo. A tratti interessante, tenero e condivisibile. A tratti… no. In conclusione, se avessi voluto ripercorrere un curriculum noioso avrei riletto il mio.
3 stelle me le do da solo per aver finito un libro che alle prime 10 pagine mi stava già sulle palle.
A voler farla breve Works trova una sintesi perfetta tra i contenuti di Linkedin con la prosa lagnosa del primo facebook.
Ma sono anche contento di aver letto Works, che da vicentino ho potuto apprezzare per i luoghi, i comuni e i luoghi comuni. Tantissimi luoghi comuni. Così frequenti che pare di tornare a casa e passeggiare per il centro e guardare le vetrine vuote e sbarrate di negozi che sono chiusi tanto quanto è morto Trevisan.
Il libro ha sicuramente il merito di frugare impietosamente nell'inconscio del Nordest e metterne a nudo le nevrosi. Per chiunque non abbia respirato la fetida aria padana e non gli sia stato inoculato il culto cancerogeno del lavoro, Works è sicuramente un libro rivelatore: soprattutto nello scandire la sua litania di padroni disonesti, incompetenti ma soprattutto petulanti.
Se nel finale l'autore mostra come il lavoro culturale sia vittima delle stesse dinamiche di sfruttamento, non elabora al di là della lagna ed è un peccato perché era una tangente utile a ricondurre al contesto italiano, il discorso sul lavoro nel Nordest. Per questo mi è parso che al libro manchi una conclusione critica. Una volta tratteggiato questo quadro disperante, si delinea quasi un profilo etnografico di cui mi sarebbe piaciuto leggere un epilogo ragionato. Come metodo, l'autobiografia aiuta a evitare il problema di dover tirare le fila del bollettino quarantennale delle lagnanze lavorative.
Per un vicentino -o magari solo per me- anche le frasi a effetto e le tangenti più filosofeggianti suonano familiari, già sentite, magari in qualche osteria; e allora qui sorge il dubbio: è Trevisan che da astemio non le ha mai sentite o sono io che ho frequentato solo bar di lettori di Trevisan?
Forse il valore dell'opera sta nel riportare una storia universale e che i luoghi comuni servano a riconoscersi quel tanto che basta per aggiungere la propria di riflessione critica. O politica.
L'effetto è che alla fine a Trevisan gli si perdona questa inconcludenza perché questa è la sua vita e così lui la vuole raccontare. Ma volendo continuare la metafora dell'osteria, vengono in mente quei cartelli affissi dagli osti più scorbutici che recitano "so responsabile de queo che digo, non de queo che te capissi ti". Che alla fine è una strategia per ascoltarsi parlare (per 500 pagine) senza farsi contraddire.
Works è un libro straordinario - nel senso proprio di fuori dall'ordinario, unico e irripetibile. Come straordinario è il suo autore che, impietosamente e con dovizia di particolari, svela la sua vita lavorativa, e non (sebbene il "non" sia una parte minore), in un libro fiume (700 pagine, più o meno), narrando i molteplici e variegati impieghi e mestieri che ha svolto per circa trent'anni: scritto con la linearità che può metterci un uomo tormentato, spesso esacerbato e sotto l'effetto di droghe, disilluso e barcollante ma sempre diritto. Purtroppo, come andò a finire è cosa nota...e saperlo è un altro elemento che induce curiosità ad ogni pagina.
"Disperazione, è per questo che scrivo".
Nell'accostarsi a una lettura, utile è, se non indispensabile, conoscere un poco la biografia dell' autore per entrare meglio nel suo libro. Non è, invece, corretto giudicare il libro in base a ciò che ci è noto sul suo autore. Nel caso di Works, ciò è impossibile, poiché il libro È l'autore, profondamente compenetrati l'uno nell'altro. Senza finzione, senza pietà, senza pudore. Con un briciolo di scorrettezza verso il mondo circostante messo a nudo - svelato - con spudorata trasparenza - nomi e precisi riferimenti inclusi. Tanto da sentire la necessità di concludere così: "Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione ".
L'autore, che ha un nomignolo per ogni personaggio incontrato (l'Eccentrico, il Naso Marrone, l'Imbrattatore, gli Oppositori...), che nomignolo meriterebbe? L'Inquieto, il Misantropo, il Colabrodo, il Logorroico, l'Arrogante...c'è solo l'imbarazzo della scelta, è talmente poliedrico che qualunque aggettivazione può essere appropriata. E chissà - così lui (utilizzando un suo tipico vezzo) "...rifiutandomi altresì in modo netto e senza possibilità di trattativa a ogni sia pur velata forma di cosiddetto editing" - se il suo testo fosse passato al vaglio di un editor: tolte quelle due o trecento pagine di logorroiche elucubrazioni e un altro centinaio di noiosissime note, quale piatto e inutile testo ci sarebbe arrivato. Invece così, un meritatissimo five stars ⭐️⭐️⭐️⭐️⭐️
Parto de libro, como la Conciencia de Zeno, Trevisan escribe para desahogarse sin esperanzas de curarse. En 700 páginas el lector instaura una especie de amistad con el autor, yo personalmente me acostumbré a escuchar Trevisan como con Svevo. Un libro pesado, difícil de terminar sabiendo cómo termina el mismo autor. Junto al tono satírico que de vez en cuando te saca una sonrisa, de por sí el libro es una confesión frustrada de un hombre anulado por una vida hecha de trabajo gris y promesas lejanas. En parte sobre el modelo de Tan poca vida, con una diferencia de capacidad de reflexión y escritura muy superior.
Ho letto le prime centinaia di pagine di questo volume in un pomeriggio. Le ultime mi sono costate settimane di fatica. Eppure Works credo sia un libro dolorosamente necessario. È il libro sull’unica autobiografia che racconta ciò che davvero occupa il 90% del nostro tempo di vita, e sinceramente ferisce sapere che Trevisan ha esaurito quel tempo. È un libro che dà fastidio, irrita in modo profondo, e non riuscirebbe a lasciare indifferenti. I lavoratore, o meglio l’uomo, che si incontra tra queste pagine si mette totalmente a nudo, senza nascondere nemmeno la propria arroganza, la sua percezione d’essere superiore o anche solo differente, cosa che alla fine riesce a mettere davvero in discussione, perchè questo è soprattutto un libro di contraddizioni. Attraverso il racconto di un assurdo (diremmo, solo perchè non convenzionale) percorso professionale, questo libro ci permette infayti di attraversare la profonda complessità, le variazioni intime perchè, si lavori pure per guadagnarsi da vivere (come sostiene l’autore), ma dentro il lavoro si vive e questa vita è suscettibile di cambiamenti, per via della differente prospettiva, anagrafica e non solo. Forse questo libro avrebbe potuto essere di 400 o 300 pagine, ma Trevisan doveva metterci proprio tutte le sue parole, la sua eredità più importante, per non lasciare fuori nemmeno una delle sue amate dettagliate descrizioni.
Tre stelle per il libro originale, mezza da sola per la prolusione finale “dove tutto ebbe inizio” gioiello inserito in questa edizione ampliata, un illuminante presagio diagnostico del meccanismo di funzionamento della società. IL resto del libro non mi ha stupefatto, essenzialmente per lo stile dell’autore, votato ad una sorta di free jazz della prosa che allunga i periodi a dismisura, infarcendoli con decine di nota scritte con un carattere così piccolo che il mio occhio anziano ha fatto spesso fatica a decifrare, per trasmettere un narrato colloquiale, insomma una sorta di Foster Wallace del Brenta che però a tratti mi è sembrato asfissiante e ridondante. E’ un libro sul male oscuro del capitalismo di provincia che vede nel vicentino una delle sue massime espressioni ed il Nostro è il vero martire di un mondo fatto di imprenditori senza scrupoli che lastricano la via crucis di Trevisan per permettergli di assurgere alla sua vera vocazione che è quella di scrivere. L’idea è originalissima: autobiografarsi secondo la cronologia lavorativa, come un curriculum, perchè in fondo noi siamo quello che facciamo invece che quello che pensiamo, il nostro personalissimo universo multicolore, che ci piacerebbe molto di più. Essendo autobiografia ovviamente la posizione ideologica è più che personale e quindi non permette contraddittorio a un cammino di formazione che vede il protagonista sempre dalla parte dei più deboli e all’occorrenza dei tossici, un malessere quasi metastatico che impedisce la crescita non solo professionale, ma anche quella umana, il resoconto finale è costituito da non una relazione personale che funzioni nella vita del Trevisan. Sarà che io non sono un profondo amante del Veneto, che ahimè oggi probabilmente mi trovo dall’altra parte del tavolo, che ho passato i 50 e quindi gli intenti rivoluzionari mi si stanno piano piano trasformando in un perbenismo di convenienza, ma a me la tesi dell’autore non mi ha completamente convinto anzi mi è parsa talvolta un crogiolo in cui continuare a sguazzare. ed il -libro trasmette una demotivazione per qualsiasi cosa si tenti di buono di fare in un mondo dominato dall’ipocrisia, dalla prevaricazione, dal puro interesse personale che per definizione è violento stupratore di qualsiasi anelito di realizzazione dei propri ideali. Praticamente Trevisan non dà speranza di realizzazione per chi lavora facendo un lavoro cosiddetto normale ed io non sono d’accordo. ma questi sono pareri personali e come tali confutabili e discutibile per ore, come vorrebbe l’autore, e non COMUNICARE come dice lo stesso autore, un verbo che ha preso la connotazione dell’imposizione. La vera cosa che mi ha lasciato con un gusto non completo in bocca è il trascinarsi delle pagine ripetendo sempre lo stesso concetto senza fare economia di parole. Mi dispiace per la buonanima dell’autore di cui adesso vado a vedere cosa ha combinato nel momento in cui è diventato attore.
La vita dello scrittore e ancor prima geometra, manovale, gelataio, magazziniere, lattoniere; Vitaliano Trevisan, una storia lavorativa che prende il via all’alba dei suoi sedici anni e che s’ intreccerà con la vita privata dell’autore, il tutto unito alla scelta di inseguire il sogno di diventare scrittore e di sbarcare il lunario alla ricerca di un lavoro, qualunque esso sia.
Cosa ci spinge a lavorare e a svolgere una certa professione ? Vitaliano Trevisan di Cavazzale, profondo nord-est o quasi, trova nell’acquisto di una bicicletta da uomo la sua prima risposta. A sedici anni viene invitato nella fabbrica di un amico di famiglia per guadagnarsi il denaro sufficiente per acquistare l’agognato mezzo, nel frattempo cullando il sogno di diventare scrittore alternando il tutto agli anni scolastici che si succedono tutti uguali e tutti inutilmente difficili, con un diploma da geometra arrivato contro ogni genere di voglia e contro le proprie naturali inclinazioni ma che potrebbe consentirgli, nell’operoso nord - est di cui sopra, di diventare ‘qualcuno’: costruttore, progettista in proprio o al massimo alle dipendenze di qualche architetto privo di scrupoli.
Alla fine l’analisi lavorativa di Trevisan risulta fredda ma non certo distaccata, a ogni momento di desiderio di essere parte della macchina produttiva si alternano disillusioni nei confronti di colleghi, dei capi reparto e dei capi ufficio, aziende e società solcate dal desiderio di potere e denaro, il quale risulta essere la sola, o quasi, forma di appagamento. Alla fine alla risposta di perché si lavora ? Trevisan trova una sola risposta plausibile, ovvero per vivere decorosamente e nel suo caso anche per raccontare e raccontarsi. Al termine delle 515 pagine non c’è di certo una risposta univoca ma una serie di domande alle quali l’autore di volta in volta, in oltre trent’anni di carriera, trova le proprie risposte offrendo un bell’affresco della nostra società dei consumi, piena di ipocrisia, di desideri inappagati e spesso inappagabili, desideri indotti e ai quali volendo ci si può anche sottrarre, come per primo ha fatto lui.
Non sono tendenzialmente amante dei memoir, ma devo ammettere che questo va oltre. Non è - o per lo meno non sembra - fiction, anzi sembra voler rifiutare qualsiasi tipo di finzione per lasciar parlare i fatti. Cosa c'è di più poetico della vita vera che abbatte i confini con l'arte in fondo? Tutto. Tutto è più poetico di una vita di merda passata da un lavoro di merda all'altro, eppure è più vero e più poetico di qualsiasi altra narrazione pietistica dei poveri, della classe lavoratrice, dei precari, perché per una volta non c'è demagogia, né l'uso masturbatorio che di loro fa la letteratura; c'è solamente il vissuto di un uomo nato con la tremenda combinazione di non avere santi in paradiso e il fardello di una sensibilità straordinaria. L'innocenza infantile di non sapersi adattare al mondo, soprattutto. Da trentenne precaria che vive quotidianamente i luoghi e i personaggi descritti, ma in generale da persona che nel suo piccolo fatica a trovare il proprio spazio in questa società morente, alle cui storture tutti sembrano ben lieti di partecipare purché ci sia da riempire la pancia, fa bene al cuore leggere di uomo che è stato capace di opporsi fino alla fine, che ha preferito morire in solitudine piuttosto che adattarsi a leccare culi, che ha rifiutato una società in cui nessun uomo che può dirsi tale può riuscire a riconoscersi. Vorrei che tanti più giovani conoscessero Trevisan, perché è un autore il cui fuoco non deve assolutamente spegnersi, vorrei che i tanti Trevisan del mondo (so che ci siete) si sentissero un po' meno soli grazie all'esperienza dei margini che lui ha deciso di documentare.