La Belle Époque è alle porte e il cinema sta per essere inventato quando, il 29 agosto 1882, Carlo Menabrea organizza un sontuoso ricevimento per festeggiare l’acquisto di un castello poco lontano da Biella. Nessuno in città ha intenzione di perdersi l’evento, ma pochi sanno che l’origine di tanta fortuna risiede in una scommessa fatta trent’anni prima: il padre di Carlo, Giuseppe, walser di Gressoney, che come i suoi antenati valicava a piedi i ghiacciai per commerciare lana e prodotti di artigianato in Svizzera, ha deciso di puntare tutto su una bevanda, la birra. Quando nel cielo sopra il castello esplodono i fuochi d’artificio che illuminano il cortile a giorno e si riflettono sul volto di Carlo, anche la sua secondogenita Eugenia, che tutti chiamano Genia, avrebbe qualcosa da domandargli: perché, qualche settimana prima, ha insistito perché fosse lei, e non le sue sorelle, ad accompagnarlo in montagna? E perché, raggiunta la vetta, al cospetto dei Giganti del Monte Rosa, ha tanto voluto che lei, a soli sei anni, assaggiasse la birra? Fra amori, gelosie, gloria e cadute – e un destino che, come una valanga, colpisce sempre nello stesso punto –, solo più tardi Genia intuirà quello che suo padre non aveva osato dirle: quel sorso di birra era un rito iniziatico. È lei la prescelta, l’erede designata per portare avanti la tradizione di famiglia, anche se nessuno vuole fare affari con una donna. Per riuscirci Genia dovrà, con l’aiuto della madre, diventare un Gigante, come suo padre e suo nonno e come le montagne ai piedi delle quali sono cresciuti tutti loro. Grazie a un accurato lavoro di ricerca, Francesco Casolo ha costruito un’appassionante saga familiare, epica e intima al tempo stesso, in cui le donne si ritagliano il proprio spazio nella storia con determinazione e coraggio.
Libro molto meh. Purtroppo le cose che non mi sono piaciute superano di gran lunga quelle che ho gradito. Sarà che aspettavo un romanzo come la saga dei Florio di Stefania Auci, ma questo mi ha delusa grandemente: innanzitutto non è una saga familiare, nonostante il sottotitolo del romanzo. È la storia di una Menabrea, Eugenia detta Genia, che parte dall'età di sei fino ai 35; tutti gli altri Menabrea (ben più importanti a mio avviso) sono solo un contorno. Inoltre, le menzioni alla fabbrica di birra sono davvero esigue: si fa giusto qualche cenno al nonno Giuseppe che ha avuto l'intuizione di aprire il birrificio, ma per il resto tutto tace. Non sappiamo quali difficoltà possa aver incontrato, come abbia effettivamente avviato la fabbrica, quali fossero le sue idee o se si sia scontrato con i famigliari. Il nulla più assoluto, semplicemente la fabbrica ha iniziato ad esistere (giusto ogni tanto viene menzionato qualcosa tramite i ricordi di Genia). Ed in generale, della fabbrica di birra, vera fortuna dei Menabrea, non si parla se non di sfondo: dopo la morte di Carlo, padre di Genia, s'intuisce che ci siano dei problemi ma quali siano, come vengano affrontati, quali soluzioni siano state utilizzate non viene menzionato nulla.
Pure la figura di Genia mi ha lasciato l'amaro in bocca: bambina prodigio, surclassa la sorella maggiore in tutto, instradata dalla madre per prendere le redini della fabbrica e poi? Fa la madre, fine. La fabbrica la gestisce comunque il marito finché è in vita (dopo non si sa, il libro finisce proprio con la sua morte). L'autore sembra peraltro dimenticarsi dei personaggi che attorniano Genia: Albertina, la sorella maggiore, da un certo punto del libro in poi non viene quasi più menzionata e della sua morte viene narrato pochissimo, neanche il funerale (tutto il contrario rispetto alla morte del padre Carlo, che viene descritta con dovizia di particolari, come anche il funerale, e viene citata innumerevoli volte nella narrazione fino a risultare ridondante e piuttosto snervante); della sorella minore Maria abbiamo ancora meno notizie, quasi una sconosciuta. Le nonne vengono ogni tanto inserite poi spariscono, non si sa che fina facciano; della madre Eugenia, una volta che decide di lasciare l'azienda in mano al fratello, non si sa più cosa faccia durante le giornate. Altra cosa che non mi ha convinta è il rapporto tra Eugenia Squindo ed Emilio Thedy: lei non sopporta lui, poi lo adora. Ok, ma perché? Perché prima non può vederlo, quali sono le motivazioni?
Passiamo poi ai luoghi: descrizioni e lodi sperticate di Gressoney, so pure quanti fili d'erba c'erano nel prato davanti a casa (paesino in cui la famiglia passa tre mesi all'anno eh, e basta); di Biella nemmeno sappiamo come sia girata, dove sia la fabbrica (e di conseguenza casa loro), ogni tanto viene menzionata qualche via o la casa di Quintino Sella ma senza che ci siano delle seppur minime coordinate geografiche. Capisco l'amore dell'autore per la montagna e Gressoney in particolare, ma allora che scriva una storia ambientata solamente lì, non la saga (che poi non è) di una famiglia famosa per produrre birra a Biella.
Purtroppo nemmeno la scrittura mi è piaciuta: l'ho trovata eccessivamente prolissa (e lo dico io che il dono della sintesi non l'ho mai avuto), paragrafi o periodi lunghissimi e strapieni di incisi che alla fine ti ritrovi a chiederti quale fosse l'argomento originale. Personaggi descritti da liste di aggettivi e, soprattutto, continue e continue ripetizioni di descrizioni, di momenti, sempre gli stessi, che annoiano: abbiamo capito che Genia ha sofferto molto la morte del padre, però basta ripeto ad ogni capitolo. L'inserimento della corrispondenza originale: come espediente è ottimo, se però ben dosato. Quando diventano troppe, slegate dal contesto, che leggendole non si capisce nemmeno a chi o cosa si riferiscano, be' meglio evitare, a parer mio.
Alcuni momenti del romanzo sono stati invece piacevoli, ed ho apprezzato l'inserimento della storia locale: ad esempio l'arrivo della regina Margherita a Gressoney, la costruzione del castello, ed altri avvenimenti (certo, tutto incentrato a Gressoney, ma tant'è). In definitiva, purtroppo non posso dire che questo romanzo sia nelle mie corde, speravo in qualcosa di più, sapendo anche che l'autore ha fatto un grandissimo lavoro di ricerca per questo libro. Spiace.
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Una storia gigante come le montagne che circondano Gressoney. Gigante come la famiglia Menabrea, come Genia che tra quelle montagne e nella fabbrica ci è cresciuta. Gigante come il dolore che le donne di questa famiglia si portano dentro, in un cerchio che pare non chiudersi mai e ricreare, di madre in figlia, lo stesso percorso. Gigante come la scrittura di Francesco Casolo, che, con una semplicità disarmante, ci catapulta in un trentennio di grandi cambiamenti e nella vita di una famiglia che ha saputo creare qualcosa di unico.
Una saga familiare che, in poco più di 400 pagine, ubriaca il lettore e lo trascina all’interno di una serie di eventi e vicissitudini, accompagnandolo elegantemente verso la fine del romanzo e lasciandolo ebbro di parole e di emozioni.
Questa è una saga familiare a tutto tondo, nella quale l’autore ci racconta vite, persone e percorsi, senza nulla tralasciare, ma senza mai far diventare troppo ciò che è perfetto così.
Ho audioletto questa saga con estremo entusiasmo: bravissimo il lettore e bravissimo anche lo scrtitore a non annoiare mai il lettore. È la storia della famiglia Menabrea, che ha avuto l'intuizione di puntare tutto sulla produzione della birra. E protagonista di questo romanzo non è solo la birra, ma anche Genia, la secondogenita di Carlo Menabrea, la prescelta.
“Il papà raccontò a Genia cose che né lui né il nonno avevano fatto in tempo a dirle. Le raccontò di come il nonno si fosse innamorato della birra quando aveva scoperto che la storia di quella bevanda coincideva con la storia dell’umanità. Di come la birra fosse nata nel momento stesso in cui l’uomo aveva smesso di essere nomade e aveva imparato a coltivare la terra.”
La birra esisteva molto prima del vino: “Diversamente dal vino, la birra esisteva praticamente da sempre: prima dei Romani che Genia studiava a scuola, molto prima che qualcuno dalla Svizzera decidesse di attraversare il ghiacciaio e fondare quella serie di frazioni da cui sarebbe poi nata Gressoney. Le raccontò, forse solo per farle piacere, che, a differenza dei numi tutelari del vino che erano sempre divinità maschili – Dioniso per i Greci e Bacco per i Romani –, la birra, chissà perché, era sempre stata donna: la dea Ninkasi dei Sumeri, come le aveva raccontato il nonno. E poi c’era Nepreiet, che per gli Egizi era colei che presiedeva all’arte di produrre la birra all’interno delle mura domestiche.”
Francesco Casolo non solo racconta la storia della famiglia Menabrea a partire dal 1868, che si muove tra Gressoney (un luogo da me molto amato) e Biella, ma anche quella dell'Italia, che va dall'Unità d'Italia fino alla Grande Guerra. Nei ringraziamenti, l'autore scrive “L’idea di questo libro è nata chiacchierando con Arnoldo Welf, guida alpina di Gressoney e falegname, riguardo un minuscolo birrificio aperto da un suo antenato lungo il fiume Lys. Questo birraio gressonaro si chiamava anche lui Welf e, a quanto risultava, era stato in qualche modo artefice del processo che avrebbe portato alla nascita di Menabrea a Biella nel 1846. [...] Sempre per i casi della vita, in quegli stessi giorni ero stato contattato da Gioacchino Sella: aveva visto un cortometraggio di cui avevo scritto la sceneggiatura, Baradar, gli avevano raccontato che abito a Gressoney e amo la montagna, e aveva manifestato la curiosità di conoscermi. All’improvviso, tutte le strade portavano a Biella... Nel lavoro, e anche un po’ nella vita, ho imparato a fare attenzione alle coincidenze e, soprattutto, a dar loro seguito.”
Anche la vita di Genia sarà ricca di coincidenze a cui lei riesce a dare ascolto. “Ma in silenzio, sotto il sole cocente, Genia e i suoi figli sorrisero ognuno a un puntino diverso, pensando che lì si nascondeva il loro papà e marito. A questa grazia non c’è alternativa, pensò lei, tornando a portare gli occhi sui suoi bambini e sulle montagne.”
La Belle Époque è alle porte e il cinema sta per essere inventato quando, il 29 agosto 1882, Carlo Menabrea organizza un sontuoso ricevimento per festeggiare l’acquisto di un castello poco lontano da Biella. Nessuno in città ha intenzione di perdersi l’evento, ma pochi sanno che l’origine di tanta fortuna risiede in una scommessa fatta trent’anni prima: il padre di Carlo, Giuseppe, walser di Gressoney, che come i suoi antenati valicava a piedi i ghiacciai per commerciare lana e prodotti di artigianato in Svizzera, ha deciso di puntare tutto su una bevanda, la birra. Quando nel cielo sopra il castello esplodono i fuochi d’artificio che illuminano il cortile a giorno e si riflettono sul volto di Carlo, anche la sua secondogenita Eugenia, che tutti chiamano Genia, avrebbe qualcosa da domandargli: perché, qualche settimana prima, ha insistito perché fosse lei, e non le sue sorelle, ad accompagnarlo in montagna?
E perché, raggiunta la vetta, al cospetto dei Giganti del Monte Rosa, ha tanto voluto che lei, a soli sei anni, assaggiasse la birra? Fra amori, gelosie, gloria e cadute – e un destino che, come una valanga, colpisce sempre nello stesso punto –, solo più tardi Genia intuirà quello che suo padre non aveva osato dirle: quel sorso di birra era un rito iniziatico.
È lei la prescelta, l’erede designata per portare avanti la tradizione di famiglia, anche se nessuno vuole fare affari con una donna. Per riuscirci Genia dovrà, con l’aiuto della madre, diventare un Gigante, come suo padre e suo nonno e come le montagne ai piedi delle quali sono cresciuti tutti loro. Grazie a un accurato lavoro di ricerca, Francesco Casolo ha costruito un’appassionante saga familiare, epica e intima al tempo stesso, in cui le donne si ritagliano il proprio spazio nella storia con determinazione e coraggio.
Dell'andar per antiche strade, antichi manieri, antiche dimore.
dalla pagina facebook "Torino Piemonte Antiche Immagini"
Credevo di interrompere la lunga sfilza di letture "montanare" e alternare con una bella saga familiare. Poi apro il volume e scopro che l'autore è un appassionato di montagna e da questa sua passione è nata l'idea per iniziare la stesura del romanzo. E questo è quanto dovevo aggiungere all'annoso argomento dei libri che sono loro a scegliere noi e non viceversa.
Piacevolmente leggero. Pur non arrivando a essere frivolo, e pur basandosi su un numero di documenti storici, si prende comunque parecchie licenze nel fantasticare sulla parte di fiction. A tratti mi è suonato ingenuo, altri tratti mi hanno portato a riflettere sul fatto che buona parte del racconto si svolge dal punto di vista di una bambina prima e fanciulla poi, quindi tutto sommato una certa dose di ingenuità nei toni e nell'impostazione della narrazione è semplicemente calzante. E così, quella che all'inizio mi pareva una storia tirata un po' troppo per le lunghe, arrivando verso la fine vedo che è una bella storia declinata al femminile, e in modo molto abile, per giunta, essendo stata (ri)costruita da un uomo. E quel che conta ancora di più è che qui ci sono donne comuni: dimostrano caparbietà e impegno, accolgono le gioie e affrontano i dolori, ma nessun super-potere da wonder-woman (una critica che mi sono sovente ritrovata a fare a diversi libri di diverse autrici italiane). Casomai sono gli uomini, per quasi tutta la durata del romanzo, ad apparire un po' troppo perfetti: tutti cavalieri, sempre gentili e premurosi nei confronti delle donne e sempre interessati a sentire quello che le donne hanno da dire, sempre attivamente partecipi delle loro preoccupazioni e dispiaciuti quando il lavoro li obbliga a essere lontano da casa, moglie e figli... insomma, sappiamo che la realtà non è proprio così, per lo meno non è sempre così, non funziona sempre così oggi e di sicuro non era la regola alla fine del XIX sec.
Quanto alla descrizione della Belle Époque, bisogna ammettere che è più descrizione che ricostruzione; c'è un po' più tell che show, ma soprattutto la meraviglia con cui i protagonisti ammirano le novità della tecnologia e dell'arte del loro tempo, è più che altro il riflesso della meraviglia che c'è negli occhi dell'autore (e di tutti noi abitanti del XXI secolo) allorquando immaginiamo, ripensiamo a quegli anni.
E tuttavia: arrivando fino alla fine gli si perdona la modesta dose di ingenuità per il semplice motivo che si percepisce bene l'amore dell'autore per i suoi protagonisti, l'amore per la loro storia e l'amore che lui ha messo nell'andare a caccia dei loro fantasmi. Quindi quattro stelle senza bisogno di arrotondare.
Il romanzo sarebbe incentrato sulla famiglia Menabrea. Giuseppe, stanco di lavorare in Svizzera, decide di buttarsi a capofitto in un nuovo commercio, la birra. Nel 1864 aprirà un primo stabilimento a Biella, mentre nel 1892 nascerà la “Menabrea e figli”. L’azienda proseguirà con successo con il figlio Carlo che, insieme alla figlia Genia, troviamo all’inizio del racconto. L’uomo, nel 1882, ha una moglie e tre figlie, Albertina, Genia e Maria. La protagonista sarà proprio la figlia Eugenia, chiamata Genia per distinguerla dalla madre, e si percorreranno in modo molto generale trent’anni di storia italiana. Avevo grandi aspettative su questo libro, anche perché non abito distante dal territorio biellese e aveva risvegliato in me una grande curiosità. Mi immaginavo un racconto incentrato sulla nascita del marchio, sulla famiglia e una contestualizzazione precisa e attenta, invece mi sono trovata con un lunghissimo romance su Genia e il marito, le sue elucubrazioni e le sue sofferenze. L’ho trovato banale, la protagonista non ha alcuna qualità particolare, gli uomini vengono descritti come brillanti affaristi, mentre le donne principalmente si occupano di vestiti, bambini e si lamentano. La saga è inesistente, non ci sono che vaghi e brevissimi accenni agli altri familiari, ma nessun tipo di approfondimento, ne’ caratteriale ne’ storico. Non lo consiglio.
In questo romanzo scopriamo le origini della birra Menabrea partendo dal 29 agosto 1882, quando Carlo Menabrea organizza un ricevimento per celebrare l'acquisto di un castello vicino a Biella. Tutto il paese vuole partecipare all'evento, ma nessuno sa che questo evento ha origine da una scommessa fatta da Giuseppe, padre di Carlo, che ha puntato tutto su una bevanda allora sconisciuta: la birra. Durante i fuochi d'artificio, quella sera di festa, Carlo e la sua secondogenita Eugenia, stanno guardando rapiti quella scena. Ma Genia, così la chiamano tutti, sta pensando a quando il padre qualche settimana prima l'ha portata in montagna, sui Giganti del Monte Rosa, e le ha fatto assaggiare, a soli sei anni, la birra. Così qualche anno più tardi scoprirà che quel rito significa che suo padre ha scelto lei come suo successore alla guida dell'azienda. Ma siamo alla fine dell'800 e nessuno vuole fare affari con una donna. Io adoro la birra, e ado ogni pagina mi immaginavo di berne un po', ma non ho potuto smettere di leggere ed è dura tenere il libro con due mani e...il bicchiere dove lo metto? Ma veniamo alla storia. I Menabrea non nascono come birra ma come commercianti di tessuti attraverso il confine con la Svizzera. Così dopo l'Unità d'Italia, Jean-Joseph, stufo di essere sempre lontano dalla famiglia, cambia il suo nome in Giuseppe, e decide di portare la birra in Italia. Insieme ad Antonio Zimmerman, nel 1864, acquista uno stabilimento a Biella e inizia la produzione. Ma solo nel 1872,con l'uscita di scena di Zimmerman, nasce ufficialmente il marchio Menabrea. Il romanzo racconta la storia dei Menabrea, ma anche la storia di quell'Italia che va dall'Unità d'Italia alla vigilia della Grande Guerra. È una storia che racconta di femminismo, del riscatto di una donna forte che cerca di avere un posto in un'Italia maschilista, alla guida di un'azienda con un prodotto innovativo per l'epoca. L'autore ha scritto un romanzo praticamente perfetto incuriosendo il lettore, coinvolgendolo e facendolo innamorare della storia e dei personaggi. I personaggi creano subito empatia nel lettore che farà fatica a lasciare andare Genia, girando l'ultima pagina.
Sicuramente è un buon libro; scritto bene e con i personaggi ben definiti ma, più che raccontare la storia della birreria Menabrea, mi è sembrato una biografia di Eugenia Menabrea detta Genia. Ovviamente questa è la mia personale opinione.
Una bella saga famigliare su una dinastia di birrai che non conoscevo. Una famiglia con 3 generazioni di uomini e donne che hanno fatto della loro passione per la birra il sogno di una vita. Genia, donna forte che vuole imparare un mestiere dal nonno e dal papà. Sullo sfondo le vicende storiche di fine e inizio del nuovo secolo e le fantastiche descrizioni dei paesaggi di montagna.
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Eugenia #menabrea , detta Genia per distinguerla dall'omonima madre, è la seconda di tre sorelle che hanno vissuto fin da piccole sopra la fabbrica della #birramenabrea , di proprietà del nonno prima e del padre poi. Genia è sempre stata affezionata al nonno Giuseppe, detto Joseph, che le ha raccontato aneddoti sulla birra e le sue origini. Il padre Carlo ha continuato a trasmetterle la passione per questa bevanda e l'amore per la sua terra d'origine: #gressoney e la fantastica vista sui giganti del Monte Rosa. Genia continuerà la tradizione della famiglia con il marito, tra perdite, nascite, difficoltà, crisi e ricordi.
Una sagafamiliare che si rifà ai fondatori della fabbrica Menabrea e ai loro discendenti, scegliendo come fulcro centrale Genia, una donna, perché, come si racconta nel libro, fu una donna egiziana a scoprire la birra. Ed è comunque quest'ultima la protagonista indiscussa del libro, di cui viene descritta la lavorazione ed esaltata la qualità. Dal racconto traspaiono la passione e la dedizione dei Menabrea per la bevanda ed il sogno di diventare dei giganti nella sua produzione, come i giganti della catena montuosa del Rosa, che hanno sempre ammirato nella cornice della loro terra d'origine. Francesco Casolo ben descrive questo scenario montano, avvalendosi di similitudini che riconducono alla montagna anche in alcuni passi del libro. La trama è lineare e poco movimentata e non ci sono colpi di scena eclatanti. Il tutto procede quindi lentamente, con monotonia, anche se la seconda metà del libro acquista maggiore intensità, grazie alla figura di Genia e alle sue vicissitudini, che generano nel lettore parecchia empatia. Per quanto mi sia sentita, a volte, poco coinvolta dalla lettura, mi sono ritrovata a commuovermi per alcune scene. Ben fatta è sicuramente anche l'ambientazione storica, risalente ai Savoia, fino al regicidio di Umberto I. Dal testo traspare anche l'affetto di Genia per il nonno fondatore della fabbrica, spesso ricordato con trafiletti inseriti nella trama a mò di flash. Allo stesso modo vengono riportate le lettere di alcuni componenti della famiglia. La lettura risulta scorrevole, anche se a volte ripetitiva, ma con alcuni accorgimenti che le fanno acquistare qualità.
Una storia assolutamente da riscoprire e approfondire. In questo romanzo le vicende della famiglia Menabrea sono ben descritte ma lo stile è poco coinvolgente e un po’ piatto. Non aiuta la quantità irrisoria di dialoghi e la mancanza di maggiori approfondimenti sulle origini dell’azienda, sulle differenze produttive, è tutto troppo concentrato sui sentimenti e la vita delle sorelle Menabrea e questo non invoglia i curiosi che aprono questo libro per scoprire soprattutto la storia di un marchio e della famiglia di birrai italiani e non delle vicissitudini scolastiche e dei dispiaceri per la perdita del padre, il tutto narrato troppo in modo serrato e poco avvincente, senza dialoghi e scambi. Promettente ma un po’ deludente nel complesso.
Già dal tempo che ho impiegato per leggerlo si intuirà quanto poco mi abbia intrattenuto. Riporto le esatte parole che ho scritto durante l’ultima lettura del romanzo: questo che sto leggendo non è una saga familiare, tantomeno la storia dell’azienda Menabrea. È la storia di una donna scritta da un uomo. Tutto qua.
Per chi ama il genere, un altro splendido esempio di romanzo che in fondo tutto romanzo non è, ma un pezzo di Italia raccontato attraverso i suoi protagonisti e le sue "dinastie". Da farci mattina, tutto d'un fiato.
Ho comprato questo libro proprio perché sono un'appassionata di storia, in modo speciale di questa epoca.
Leggere la salita dei giganti è in un certo senso una salita, ti fa scoprire pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, la bellezza delle trame che si intrecciano tra di loro.
Una storia che narra di una famiglia che costruisce con le proprie forze e risorse il proprio 'impero' di fortune, ma anche di sfortune.
Una storia che ti travolge con i suoi colpi di scena.
Lo scrittore Francesco Casolo riesce, con la propria scrittura, a far diventare questa salita una passeggiata.
Il libro racconta la saga della famiglia alle spalle della birra Menabrea. Protagonista principale è Eugenia, che tutti chiamano Genia, l’erede destinata a portare avanti l’azienda di famiglia. Il racconto però è troppo densò di particolari - non sempre collegati alla storia principale - che si perde quindi tra le troppe descrizioni. Peccato perché la storia poteva essere approfondita con un approccio meno storico e sicuramente più coinvolgente per il lettore
I Menabrea sono una famiglia di commercianti di tessuti, Giuseppe però, nel 1864, decide di cambiare la sua vita investendo in uno stabilimento di birra a Biella. Gli succede il figlio Carlo che eredità non solo la fabbrica ma anche la passione per questa bevanda trasmettendola alla figlia Genia che porterà avanti l'azienda con determinazione e sentimento. Genia è una bambina curiosa e sensibile che cresce con i racconti del nonno Giuseppe e del padre Carlo che viene a mancare troppo presto. Con il tempo, a differenza delle sorelle Albertina e Maria, Genia scopre che il suo interesse per la lavorazione della birra è una una vera e propria vocazione e con tutte le sue forze cercherà di portarla avanti non lasciandosi scoraggiare dalle difficoltà che incontra essendo una donna alla guida di un'azienda.
La salita dei giganti di Francesco Casolo edito @feltrinelli_editore è una saga familiare straordinaria dove la storia personale di questa famiglia di intraprendenti commercianti si intreccia perfettamente con la storia dello sviluppo del marchio stesso. La scrittura è fluida e il ritmo morbido e armonioso creando così un equilibrio preciso che viene mantenuto per tutta la narrazione invogliando a continuare a leggere ad ogni pagina. Ho apprezzato molto la caratterizzazione dei personaggi, in maniera vivida e delicata, dando peso soprattutto alle figure femminili che con la loro volontà, determinazione e passionalità non si perdono mai d'animo lottando per mantenere il loro posto nella società.
Un libro coinvolgente ed emozionante fatto di famiglia, di legami, di perdite e di mancanze dove la passione è il motore trainante e il successo il risultato di un lavoro costante.
La storia della grande famiglia dei Menabrea, piemontesi di origine valdostana, e della loro birra, tutt'ora una delle marche italiane più amate: il tutto viene narrato dalla piccola Eugenia, detta Genia, la figlia del capostipite che seguirà le orme di famiglia.
Il romanzo è scritto molto bene, scorre via velocemente e riesce a tenere alta la curiosità del lettore. Non ci sono grossi salti temporali, e quei pochi che ci sono non lasciano nulla in sospeso ma raccontano comunque tutto, senza perdere nessun aneddoto per strada (al contrario di altre saghe famigliari che mi è capitato di leggere in passato). In alcuni punti divaga un po' troppo, ma riesce a rientrare in fretta nei binari.
A tratti, Genia, è insopportabile. La vera protagonista, secondo me, è la madre soprattutto dopo la morte del marito (padre di Genia) per come ha deciso di gestire l'impresa di famiglia, sarebbe stato interessante a mio parere, approfondire questa figura che, invece, è stata messa completamente in un angolo. In alcune parti ripetitivo e noioso.
Parte bene molto bene (forse sono di parte perché tra quelle montagne sono cresciuta pure io, ma ne sono guarita). L'entusiasmo è calato gradualmente e sono arrivata alla fine senza nostalgia, ma con curiosità per la storia non raccontata, quella della birra che pensavo avrei trovato.
È stata una delusione perché la storia del birrificio è solo di contorno. Tutto gira intorno alla vita di Eugenia detta Genia. Scritto bene ma storia povera. Il romanzo è a tratti di una lentezza esasperante.
La storia di base è molto interessante, almeno per chi ama le saghe familiari. Questa poi narra la vita di una famiglia realmente esistita. Purtroppo la scrittura non mi ha emozionata. Una cronistoria, un'elenco cronologico di eventi e basta. A mio avviso narrazione fredda e piatta. Peccato
La salita dei giganti di Francesco Casolo - Ed. Feltrinelli - 412 pagine
“La Belle Époque è alle porte e il cinema sta per essere inventato quando, il 29 agosto 1882, Carlo Menabrea organizza un sontuoso ricevimento per festeggiare l’acquisto di un castello poco lontano da Biella. Nessuno in città ha intenzione di perdersi l’evento, ma pochi sanno che l’origine di tanta fortuna risiede in una scommessa fatta trent’anni prima: il padre di Carlo, Giuseppe, walser di Gressoney, che come i suoi antenati valicava a piedi i ghiacciai per commerciare lana e prodotti di artigianato in Svizzera, ha deciso di puntare tutto su una bevanda, la birra. Quando nel cielo sopra il castello esplodono i fuochi d’artificio che illuminano il cortile a giorno e si riflettono sul volto di Carlo, anche la sua secondogenita Eugenia, che tutti chiamano Genia, avrebbe qualcosa da domandargli: perché, qualche settimana prima, ha insistito perché fosse lei, e non le sue sorelle, ad accompagnarlo in montagna? E perché, raggiunta la vetta, al cospetto dei Giganti del Monte Rosa, ha tanto voluto che lei, a soli sei anni, assaggiasse la birra? Fra amori, gelosie, gloria e cadute – e un destino che, come una valanga, colpisce sempre nello stesso punto - solo più tardi Genia intuirà quello che suo padre non aveva osato dirle: quel sorso di birra era un rito iniziatico. È lei la prescelta, l’erede designata per portare avanti la tradizione di famiglia, anche se nessuno vuole fare affari con una donna. Per riuscirci Genia dovrà, con l’aiuto della madre, diventare un Gigante, come suo padre e suo nonno e come le montagne ai piedi delle quali sono cresciuti tutti loro”.
Sono un’amante delle birre e per anni la Menabrea ha accompagnato le cene a casa di un'amica carissima, mai mi sarei persa questo romanzo! La curiosità era altissima e alla fine sono stata ripagata: un romanzo corposo, ben scritto, con un linguaggio semplice e scorrevole, una fine ricostruzione storica e delle vicende della famiglia Menabrea. Un unico neo: titolo, sottotitolo e pubblicità mi avevano portata a credere che la birra fosse la vera protagonista, in realtà la storia è narrata dal punto di vista di Genia (Eugenia Menabrea) e di fatto è molto incentrata su di lei, sul suo carattere ribelle, sulla sua determinazione e sui drammi, ma anche le gioie, che costellano la sua vita. Non manca affatto l’inserimento nel contesto storico, ma il taglio è diverso, è come se la birra restasse sempre sullo sfondo, mentre mi ero fatta un’idea diversa. Poco male, questo genere di narrazione ha comunque catturato la mia attenzione, ho sinceramente apprezzato tutte le curiosità inerenti la birra nell’antichità che raccontava il nonno e che vengono riportate sempre dalle sue labbra, sotto forma di dialogo diretto in un ricordo che affiora improvviso nella mente di Genia, negli anni a seguire. È narrato sapientemente un commovente periodo storico tra fine Ottocento e inizi Novecento, fatto di grandi aspettative, con personaggi veri, concreti, umani, imperfetti; non mi riesce di ignorare un parallelismo con la nostra epoca, ripercorrendo la fatica di quegli abitanti delle piccole comunità, sofferenti per le condizioni di vita, che emigravano ancora bambini verso città o terre più ricche, in cerca di una speranza per il futuro, sentendomi un po’ nostalgica e perfino un po’ colpevole per le fortune toccate in sorte a noi, un secolo dopo. La verità dei Menabrea, la loro fortuna, la lungimiranza, è stata il legame col territorio e con le persone: la casa era sopra la fabbrica e tutti i loro dipendenti erano famiglia. C’era un legame forte, un sentimento di rispetto, non solo una visione imprenditoriale economicamente arricchente, ma una percezione di più ampie vedute, umanamente valorizzante.
Se amate questo periodo storico, la birra e le piccole realtà, date una possibilità a questo romanzo, tenendo presente che tutto questo è intrecciato con la vita di una famiglia, che ha vissuto grandi perdite e grandi amori - di cui la birra era solo uno.
“Sai, papà, cosa mi ha detto una volta il nonno? Mi ha detto che non importava se non avremmo avuto un fratello. Che tanto la birra l’aveva inventata una donna. E potevamo farcela da noi…”
Per chi ha letto e amato “I leoni di Sicilia”, vero bestseller degli anni del Covid, il concetto di saga familiare ormai è noto: un autore decide di trasformare le vicende di una grande famiglia italiana in un romanzo in cui l’aspetto economico e aziendale si mescola con la vita quotidiana (reale o verosimile) dei membri di una ricca famiglia, all’interno di un contesto storico più o meno provinciale. Ecco, da ciò possiamo dire che “La salita dei giganti” non rispecchia a pieno questo schema, e ne risulta pertanto strutturalmente debole. Cosa manca? Francesco Casolo, che è milanese, si introduce nei fatti, biellesi, della famiglia Menabrea, tra i primi birrai italiani, con una storia di relazioni tra la Valle D’Aosta e la Svizzera e con altri capitàni di industria locali. Ebbene, se di “salita” dobbiamo parlare, ci aspettiamo un racconto che prenda l’azienda famigliare in un certo periodo storico e la trasporti in un altro, presumibilmente quando si raggiunge l’apice (visto il titolo). E invece il romanzo è incentrato solo su un personaggio, Genia Menabrea, di cui conosciamo la parabola biografica dalla fanciullezza all’età adulta. E sembra quasi un caso che, in questo breve arco storico, la ditta Menabrea e figli passi da azienda locale ad azienda regionale, perché Genia non ne ha parte alcuna, se non sposare il cugino Emilio Tedhy che guiderà la ditta da quel momento in poi. Stop. Dove sono le difficoltà dell’azienda? Dove sono le soluzioni innovative, raccontate nelle loro cause e nei loro effetti (viene introdotta l’elettricità, e dunque?). Insomma, se togliessimo la birra da questo romanzo, tutto ricadrebbe in un romanzetto sentimentale come tanti altri. Salvo solo lo stile, che è scorrevole e a tratti piacevole, pur considerate le inserzioni bucoliche, classico strumento per accattivare il lettore. Tutto ciò per dimostrare che seguire un filone narrativo di successo spesso fa fare brutte figure.
Ho finito questo libro saltando di dialogo in dialogo perchè, sebbene io abbia apprezzato le prime 300 pagine per la storia e il modo in cui questa è stata scritta, le ultime 100 pagine le ho sentite molto pesanti, ripetitive e quasi noiose. Ho apprezzato i primi due segmenti del libro, in cui la curiosità e il modo di vivere il mondo di una bambina rendevano questo libro speciale. Ho sperato con tutto il mio cuore che dopo il termine del contratto del fratello di Eugenia, le redini della fabbrica passassero nelle mani di Genia ma così non è stato. La birra è donna, le prime che hanno prodotto la birra sono donne, pensavo fosse scontato che il potere dei Menabrea passasse nelle mani di un’altra donna, nonostante Eugenia Squindo in Menabrea non abbia, per prima, preso il posto del suo defunto marito. Ci ho sperato in questa storia di donne. La delusione è arrivata al massimo quando viene descritta l’ossessione del tradimento da parte di Genia nei confronti di suo marito e, dopo averlo visto con una donna, non viene più toccato l’argomento. E quindi? Genia è solo un’altra donna che diventa madre, moglie di un marito che viaggia molto per poi diventare vedova e ritrovarsi esattamente nella posizione in cui si ritrovó la madre anni prima, con un marito morto giovane e figli piccoli da crescere. Non posso dire molto sulla storia di questa famiglia che man mano è andata ad allargarsi, ma ci sono alcuni passaggi che potevano essere di molto accorciati perché forse dopo la quarta descrizione di tutti i luoghi toccati e guardati mi scoccio un po’. La conoscenza di questa famiglia peró mi ha influenzata a riassaggiare la birra, sapendo che dietro ogni produzione ci sono tanti piccoli folletti che fanno il proprio lavoro. Una buona birra!
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Una storia commovente e intensa. La crescita di una bambina rimasta orfana di padre molto presto, padre poco presente anche prima, e cresciuta per la maggior parte in collegio. Lo sviluppo della passione per la birra, marchio di fabbrica della famiglia, e il legarsi profondamente alle tradizioni che scandiscono i tempi di produzione, di svago, di vendita e di famiglia. Una bambina che diventa donna, moglie e madre, che in quasi due decadi passa dalla passione, per la birra e il marito, alla depressione causata da varie incomprensioni e fantasie, passate e presenti. Un viaggio introspettivo nelle sensazioni di una donna che fa parte della storia e che vive la storia tra l'accensione della prima lampadina a Biella, all'uso allora innovativo degli sci, all'arrivo della regina Margherita, il diffondersi di moto e automobile, alla trasmissione dei primi cortrometraggi e ai primi moti di protesta della classe operaia. Un bellissimo viaggio scritto bene e coinvolgente.
Parto dalla fine. È un libro che mi ha emozionato, pieno di storie e personaggi così lontani nel passato ma allo stesso tempo vicini a me, alla mia famiglia e infanzia, ad alcune delle mie passioni.
A livello di trama mi aspettavo forse qualcosa di diverso, più incentrato su nascita e sviluppo della Menabrea che su un singolo personaggio. Tuttavia, la scelta narrativa di concentrarsi su Genia (prima nipote e figlia, poi moglie e madre) permette di coprire decenni di storia birraia da una prospettiva più umana e reale.
A livello stilistico, fin dall’inizio è facile empatizzare con Genia e la sua famiglia, vivere Gressoney e Biella, identificarsi con il racconto. Avrei personalmente evitato la ridondanza di alcuni parti e la lentezza di alcuni momenti introspettivi, ma in generale ho apprezzato la capacità dell’autore di usare un linguaggio leggero e dettagliato per trasportarci in modo concreto in un’epoca passata ricca di cambiamenti, mischiando fatti storici a situazioni quotidiane.
Lo volevo leggere da tempo perchè saga famigliare ambientata tra Gressoney e Biella. Ho amato la ricerca storica sulla famiglia Menabrea e in particolare la parte dedicata al mondo della birra e alle ragioni per cui una famiglia abbia investito in una produzione che non era territoriale, la parte del grande sogno del nonno e il rapporto con la nipotina Genia, che poi è la protagonista. Ho amato il ritrovare Torino e la precisione dell'autore nel racconto. Ma verso la metà del libro ho avuto la sensazione di perdermi, la famiglia di Genia quasi scompare, ho percepito discontinuità, alla fine, mi è sembrato si sia persa la dinamica di saga famigliare per far prevalere la parte di storia. Credo fosse comunque la volontà dell'autore, un peccato perchè personalmente avrei aggiunto qualcosa in più. È un libro che consiglio e mi ha fatto venire voglia di conoscere meglio i Menabrea.