Ein Bild trifft den Blick der Betrachterin und lässt sie nicht los. Das Foto einer geisterhaften Pflanze in einem Tschernobyl-Buch. Das rauchvernebelte Gesicht eines Grubenarbeiters in einer Kiewer Ausstellung. Oder ein syrisches Flüchtlingspaar bei der Landung auf Lesbos, abgedruckt in der New York Times. Woraus besteht die Gegenwart? Aus dem, was in Ausstellungen hängt, an Plakatwänden verwittert oder über die Bildschirme läuft? Wie gelingt es, den intimen Moment der Bestürzung oder des Staunens in Sprache zu verwandeln?
Mit den Foto-Kolumnen, die sie 2015 in der Frankfurter Allgemeinen Sonntagszeitung zu schreiben begann, hat die Autorin ihr eigenes Genre geschaffen: kurze Prosa, Landschaft, Biografie, Zeitgeschichte und Form auf minimalem Raum verdichtend. Gerade weil Katja Petrowskaja alles persönlich nimmt, ob das Foto von einer alten Frau im Kaukasus, die der Sessellift in den Himmel trägt, oder den Anblick einer Brüsseler Hauswand nach den Terroranschlägen, gewinnen ihre Texte eine Kraft, die dem Augenblick seine Wahrheit abringt.
Katja Petrowskaja was born in Kyiv in 1970, to a Russian-speaking family. She studied literature in Tartu, Estonia and then completed her PhD in Moscow. She has lived in Berlin since 1999. She won the Ingeborg Bachmann Prize in 2013 and wrote her bestselling first book Maybe Esther, in German. It was published in 2014 and was awarded the Premio Strega Europeo Prize, the Aalen Town Schubart Literary Prize, the Ernst Toller Prize and the Aspekte Literature Prize. It was a Spiegel bestseller and has been translated into nineteen languages
Francesca Woodman: Senza titolo (dalla serie Swan Song), Providence, Rhode Island, 1978.
Sono testi brevi – due pagine e mezzo – usciti a cadenza trisettimanale dal 2015 al 2021 sulla Franfurter Allgemeine Sonntagszeitung, ciascuno accompagnato da una foto che ha ispirato la parte scritta. Katja Petrowskaja descrive la foto, quello che si vede, quello che non si vede ma si potrebbe vedere, quello che rimane fuori, quello che le ispira e suscita. Partono storie, intorno e sulle foto, generate dalle foto, il racconto si allarga, estende, una storia ne genera un’altra che ne genera un’altra ancora. Cita fotografi, libri, mostre, film, affreschi, altre opere di altre forme d’arte.
In copertina fotogramma tratto da “In the Mirror of Maya Deren” di Martina Kudláček.
Le immagini ci sommergono al punto che anche quelle ferme sembrano in movimento. Siamo bombardati da migliaia ogni giorno. Sceglierne una, fermarsi e soffermarsi su una alla volta sembra al contempo un gesto antico e rivoluzionario. Katja Petrowskaja, sensibile e intelligente, riesce a non diventare mai meccanica, ripetitiva, monotona: ogni foto e ogni capitolo che ne è derivato fanno storia a sé e sono parte del tutto. Ciascuno si imprime e sembra diventare quello indimenticabile, quelle da trattenere. Lei guarda le foto e le foto guardano lei, la ispirano, le suscitano emozioni pensieri riflessioni ricerche collegamenti. Piacere doppio per me che ho cominciato proprio studiando e praticando fotografia.
Giusto De’ Menabuoi: L’Apocalisse, Padova.
Conviene affidarsi al suo testo, che da corpo al suo sguardo: non solo perché è più acuto, ma anche perché la resa grafica delle immagine nell’edizione Adelphi è mediocre, bassa risoluzione e definizione: ci sono frequenti momenti in cui si legge di cose che non si vedono. Katja Petrowskaja sa andare al di là della facciata, dell’apparenza, della superficie: sa guidare il nostro sguardo, e insieme la nostra mente e la nostra anima, oltre la siepe, verso l’infinito. E così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Un poliziotto si avvicina alla fotografa e le dice: “Qui è vietato fotografare. Qui passa il confine”. “Ma dove passa esattamente il confine?” domanda la fotografa. “dappertutto” risponde il poliziotto in tono risoluto, “Il confine è il mare”.
Francesca Woodman: Senza titolo (autoritratto), 1979-1980.
L'inizio dell'invasione russa dell'Ucraina è all'origine di questo libro. "La guerra potrebbe giungere a cancellare le nostre parole sussurrate. Vorrei opporre alla guerra queste miniature, questi piccoli frammenti, alla ricerca di una voce" scrive l'autrice ucraina Katja Petrowakaja nella postfazione del libro. Ci presenta una serie di fotografie provenienti da autori famosi o semplici testimoni improvvisati, di varie parti del mondo, accompagnate dalle sue considerazioni. I suoi commenti alle immagini sono di volta in volta racconto, riflessione sul mondo e sulla natura, indagine sull'uomo, interrogazioni etiche che stimolano, di rimando, il nostro pensiero. Il capitolo intitolato La mia nuvola, che accompagna la seconda foto postata (scattata dall'autrice nel 2020) è uno scritto esemplare della sua bravura. Inizia cosi: "Un tempo gli dèi vivevano dentro le nuvole e guardavano giù con indulgenza. Si nascondevano dietro le nuvole ed erano responsabili dell'intera meteorologia. Avevano creato il clima. Gli eventi in cielo erano alle origini della mitologia. E da questi segnavia celesti attingevano la fede, presaga di un fenomeno, presaga di una epifania". Da leggere secondo me.
Che meraviglia. Katja Petrowskaja sceglie delle foto e le racconta in testi brevi ma intensissimi, ricchi di richiami cinematografici, artistici, letterali. Testi che rimbombano di vita e di pensiero, di nostalgia e di speranza, di malinconia sottile. Ci sono foto più note (nessuna, mi azzardo a dire, famosa al punto da essere diventata inflazionata), stampe recuperate in un mercatino, immagini della tradizione familiare dell’autrice. Ci sono ritratti, paesaggi, scatti di fotoreporter, momenti storici e ricordi privati. C’è tutta la meravigliosa vastità dello “scrivere con la luce”.
C’è, soprattutto, un’autrice che invita a fare l’esatto contrario di quello a cui ci siamo assuefatti: fermarsi a guardare una immagine, soffermarsi sui particolari, intuirne il concepimento, accostarsi all’idea di chi ha scattato o di chi era dall’altra parte del famigerato e magnifico “clic”.
*** quando andavo in giro per Milano a fotografare, ho pensato spesso che lo splendido rumore del pulsante di scatto della D300 non aveva paragone alcuno ***
Ne “La foto mi guardava” ci sono scatti quasi rubati e progetti fotografici complessi (le sigarette di Irving Penn, i reportage sociali di Michael Wolf e di Jessie Tarbox Beals), c’è la scoperta di eventi che hanno segnato la storia europea, c’è il ricordo dolcissimo e pieno di rimpianti per il talento di Francesca Woodman, che ti verrebbe una voglia pazzesca di correre indietro nel tempo e nello spazio e abbracciarla forte.
C’è un messaggio fortissimo e deciso che riguarda il nostro sguardo sempre, e non soltanto quando ci mettiamo davanti a una fotografia: cambiare angolazione, prospettiva, guardare il mondo con occhi se possibile sempre nuovi. Che il particolare decisivo, quello che ti cambia la giornata, è lì nella realtà e devi solo fare più attenzione.
Di katja Petrowskaja avevo letto lo splendido “Forse Esther”, questo è un altro libro incantatore fatto interamente della sua bravura di spettatrice curiosa del mondo; sono storie di tre pagine dense, leggiadre e toccanti, legate ognuna a una foto, nota o meno; ce ne sono anche alcune tratte dal suo archivio di famiglia, storie di persone che in qualche caso l’autrice ha reincontrato o contattato. In una c’è la foto di una donna nuda rannicchiata, come copertina di un disco di Schubert, disco che Katja Petrowskaja ascoltava da 12enne. L’autrice rivedendo quel disco ricorda di aver pensato a suo tempo “cosa ci fa questa donna con le mie mani?”. Il tema del libro è il tempo, e la capacità di trasformarlo in racconto. Una di queste foto, del 1930, ritrae Mira, una bambina di cinque anni a passeggio con il cartoccio di dolciumi, è una lontana parente dell’autrice, vissuta lungamente fino a 95 anni. Tutti i suoi familiari sono morti nei lager, lei e suo padre si sono salvati, suo padre le aveva incollato le foto di tutti i loro familiari sul fondo della gavetta, che lei aveva portato sempre con sé, inseparabile, nei sei diversi campi di concentramento nei quali era stata deportata. Quando le chiedevano cosa c’era dentro lei rispondeva “la mia zuppa” e nessuno si era sentito in dovere di investigare. Le foto salvate saranno pubblicate da Mira e da sua padre che si ritroveranno anni dopo negli Stati Uniti, sono foto di loro amici e parenti (morti nei lager): le foto per alcuni sono l’unica prova della loro esistenza.
C'è un sottile filo che unisce tutte le foto analizzate da Petrowskaja: quello di un umanesimo mai vinto, sempre pronto a emergere dagli abissi di un genere umano troppo occupato a farsi male. Così, mentre le epoche e i luoghi si sovrappongono, si inseguono e si incrociano in un turbine fascinoso, il lettore può solo lasciarsi andare all'immaginazione e ricostruire per suo conto il percorso di chi fotografò chi (o cosa) e perché. La Storia è lì, dietro ogni posa, anche se involontaria. E ci vuole senso estetico a profusione per cogliere dettagli e sfumature di uno scatto apparentemente banale o casuale. Mi sembra di aver colto in questo magico volume una poesia interiore che riverbera in ogni riassunto e nasce dalla stessa biografia dell'autrice e della sua famiglia. Livre de chevet, per me. Da rileggere, aprendo una pagina a caso, per ricordare o, semplicemente, per riviverne l'emozione.
Comprato credendolo un libro più coeso, mi trovo di fronte a una serie di brevi pezzi per una rubrica pubblicati negli anni scorsi sul Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, sempre ispirati da una foto, un po' come più in breve fa sulla Repubblica Michele Smargiassi e comunque con un approccio alla fotografia a lui affine (oppure affine a quello di Mario Calabresi, che peraltro viene citato dall'autrice). Il problema (mio) è che non pensavo di trovarmi da questa parti, ma più da quelle di Geoff Dyer. Niente di male, per carità, ma il libro scorre molto veloce e lascia poco di profondo sulla fotografia, se non un paio di autori/libri che non conoscevo. Nota di demerito per la curatela Adelphi: pessimo tradurre pari pari dal tedesco all'italiano titoli di libri e progetti fotografici, senza darsi pena di verificare che ne esista una versione italiana pubblicata.
Evocativo, suggestivo, profondo. E' un libro immerso nella storia del Novecento personale dell'autrice, che rivivono in presa diretta grazie alla resa fotografica e alla magistrale "ecfrasi" della scrittrice. I paragrafi che mi sono rimasti impressi: - Samantha dallo spazio (pag. 105), sulla storia di Samantha Smith, la bambina statunitense che scrive una lettera a Jurij Andropov, segretario generale del partito comunista sovietico, diventando a suo modo una piccola ambasciatrice di pace. - Non c'è nessuna foto (pag. 116), che evoca l’atto eroico compiuto dalla poetessa e traduttrice dissidente Natal’ja Gorbanevskaja, che nel 1968, insieme ad altre sette persone, protestò contro l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. - Sul Mar Nero (pag. 121), la foto e descrizione sono molto suggestive.
Lettura interessante per gli spunti che suggerisce soprattutto su autori meno noti in Occidente. Fatte salve alcune imprecisioni (poche) che possono essere notate solo da chi ha già notevoli conoscenze di storia della fotografia è sicuramente molto stimolante la lettura che da delle immagini proposte l’autrice. Siamo abbastanza lontani da un ècfrasi in senso proprio, in quanto le immagini sono spessino lo spunto per riflessioni e/o memorie personali, dietro alle quali si avverte spesso un dolore insopportabile per le sorti della madrepatria Ucraina.
4,5 short, subtle essays about photographs and their background stories. The author is a very skilled observer, often using autobiography and referencing to Barthses Camera lucida