W ostatnich dziesięcioleciach większość społeczeństw stała się o wiele bardziej represyjna, ich prawa są surowsze względem ubiegłych epok a nawet lat, a sędziowie stali się bardziej nieelastyczni, i to bez bezpośredniego związku z ewolucją przestępczości i systemu wymierzania sprawiedliwości. W niniejszej książce, która realizuje podejście zarówno genealogiczne, jak i etnograficzne, Didier Fassin stara się uchwycić stawkę tego karnego momentu, wychodząc od samych podstaw kary.
Czym jest karanie? Dlaczego się karze? Kogo się karze? Te trzy pytania strukturują tę pracę. Poprzez owe trzy pytania Didier Fassin podejmuje krytyczny dialog z filozofią moralną i teorią prawa. Chodzi zatem o ponowne przyjrzenie się definicji, uzasadnieniu i dystrybucji kary. Te trzy pytania przywołują, jak zobaczymy, trzy inne. „Czym jest karanie?” skłania do zapytania o to, skąd pochodzi idea karania. „Dlaczego się karze?” ma swoją kontynuację w pytaniu o to, w jaki sposób się karze. I wreszcie: „Kogo się karze?” okazuje się nierozłączne od badania tego, że wybiera się karanie. Oznacza to, że pole badań jest obszerne.
Kreśląc swoje obrazy z różnych kontekstów historycznych i społecznych, od „dzikich” Malinowskiego, przez genealogię moralności Nietzschego, aż po współczesną Amerykę i Europę, autor pokazuje w szczególności, że reakcja na zbrodnię nie zawsze była związana z zadawaniem cierpienia, że kara nie wynika wyłącznie z racjonalnej logiki służącej jej legitymizacji oraz że wzrost często skutkuje społecznym zróżnicowaniem zdań, a tym samym zwiększeniem nierówności.
W przeciwieństwie do triumfującego populizmu penalnego, śledztwo, które bierze sobie w niniejszej książce za ślad „karę”, oferuje nam rewizję założeń, które podsycają pasję karania i zachęca do przemyślenia miejsca kary we współczesnym świecie.
Didier Fassin is a French anthropologist and sociologist. He is currently the James D. Wolfensohn Professor of Social Science at the Institute for Advanced Study in Princeton and holds a Direction of Studies in Political and Moral Anthropology at the École des Hautes Études en Sciences Sociales in Paris.
Le livre est une analyse du concept de la punition sous l'angle des sciences sociales. Il s'agit d'analyser ce qu'est punir, pourquoi on punit, qui est puni et comment peut on repenser le châtiment.
Fassin montre que la définition de la punition est construite socialement et politiquement de deux façons : 1. On définit collectivement comment la sanction est produite, individuellement, collectivement, à quels degrés elles s'appliquent, donc de la simple brimade à la mise à mort. Fassin s'appuie sur l'analyse de la sanction de manière anthropologique pour le comprendre.
2. L'État produit des sanctions en fonction de ces intérêts, ce qui est toléré à un instant donné peut devenir criminalisé. Ce n'est donc pas l'acte qui produit la culpabilité, mais notre rapport à l'acte en question dans un contexte politique donné. Il est ainsi soulevé que les prisons sont de plus en plus surchargées alors que la criminalité, en elle même, diminue. Ce qui augmente, ce sont les actes sans victime, comme la consommation de drogues.
De même, Fassin remet en cause la pseudo neutralité de la justice, dans la mesure où les forces de l'ordre voient ce qu'elles veulent voir et où les juges sont plus à même de tolérer des écarts de conduire pour des populations blanches ou aisées que pour les populations racisées ou pauvres. Le contexte social n'est donc pas pris comme outil de relativisation que pour certaines parties de la population. Ce traitement differencialiste produit une justice à deux vitesses qui sert le discours essentialiste des racistes et qui dessert l'égalité entre les citoyens.
Le livre est court (162 pages) et pas cher (7,80€) et à l'avantage d'être extrêmement bon.
Questo è un saggio che a prima vista sembra promettere molto per poi mantenere assai meno: il che non è, anche se ritengo che qualche difetto di fondo lo contenga. Comincio però con una precisazione, o piuttosto un caveat lector: data la mia formazione giuridica, tendo a diffidare di ogni analisi sostanzialmente di tipo etnografico la quale discorra in modo generico di comportamenti umani che in parte possiedono anche rilievo e disciplina nell’ambito del diritto: ciò perché, sempre a mio avviso, il diritto non è una coloratura successiva stesa su atti che già possono ricevere un compiuto e completo inquadramento, bensì – come ben riassume il foscoliano e celeberrimo il dì che nozze, tribunali ed are – uno dei pilastri, o meglio uno degli elementi costitutivi d’ogni società civile. Qui mi sembra che invece Fassin tenda spesso a mescolare i piani. Cercando di rispondere a una domanda che può facilmente sorgere ai nostri giorni, la ragione per cui nell’odierna società sembrino proliferare con particolare vigore le istanze latamente punitive, prende in esame diversi casi da lui studiati, che spaziano da storture del diritto processuale ad attività di polizia esercitate in maniera selvaggia, per rinvenire un responso a questioni sul che cos’è punire, perché si punisce, quando si punisce all’interno d’una società. Ora, una considerazione antropologica del fenomeno è senz’altro stimolante: unita con una disamina storica, per esempio, attesta che quello che potremmo definire l’amore per le sanzioni, lungi dal caratterizzare le culture arcaiche (immaginate di solito come “non democratiche” e violente), investe soprattutto le società moderne, dove infatti tende ad aumentare la popolazione carceraria. Ma appunto se si parla di carcere si parla, perlomeno in linea di principio, di punizioni giuridicamente determinate: considerare alla medesima stregua quelle a-giuridiche o antigiuridiche mettendo tutto nello stesso calderone rischia di confondere invece d’illuminare. Infatti l’autore riporta esempî di carcerazione prettamente antigiuridica o in quanto irrogata illegalmente o in quanto aggravata da abusi commessi da guardiani e bande interne (i quali rendono alla fine ben più pericolosi gli abusi extragiuridici stessi rispetto alla pena detentiva in sé); con toni assai più lievi e screziati d’ironia, ricordava altrettanto in un suo scritto Maria Luisa Astaldi come nella Roma pontificia non fosse tanto temuta la giustizia penale, celebre anzi per la sua bonomia, quanto si paventavano i birri, che spesso e volentieri castigavano o ammazzavano a suon di legnate il criminale vero o presunto appena vi avevano messo le mani: forse per la diffidenza di categoria che in ogni tempo e latitudine sogliono nutrire i gendarmi nei confronti dei giudici. Se nondimeno il mio giudizio conclusivo sul testo è molto positivo non ostanti le mie numerose perplessità sul suo impianto e su numerosi dettagli, è perché da un lato pullula di spunti per ulteriori considerazioni lasciate alla sensibilità e alla cultura del lettore, dall’altro pone in luce tutta la complessità d’un insieme d’istituti (giuridici e non giuridici) che in effetti, appena si scende un po’ sotto la superficie, sfuggono agl’incasellamenti facili e presentano frequenti zone d’ombra. Peraltro a mio avviso la sottovalutazione dell’aspetto giuridico della punizione conduce Fassin, se non fuori strada, un po’ a perdersi nel seguire possibili spiegazioni viceversa strettamente legate a difformità normative: mi riferisco, ad esempio, al caso americano. Lo studioso cita spesso gli Stati Uniti, accanto al suo paese, perché costituiscono una realtà, come la Francia, indagata da lui in prima persona. Sebbene in ambo i contesti egli ami spesso indugiare su quelle che definiremmo patologie (anche gravi) del sistema giudiziario, carcerario o dei controlli di polizia, emergono con chiarezza una differenza molto forte fra le due sponde dell’oceano Atlantico, che dipendono non tanto dall’atteggiamento delle forse dell’ordine o della magistratura, quanto dalle differenze sia nel diritto sostanziale sia nel diritto processuale: la mancanza, per esempio, d’un obbligo stretto in capo alle procure statunitensi a esercitare l’azione penale comporta il fatto che abusi anche gravissimi compiuti nelle carceri restino senza seguito anche laddove, in conseguenza d’inchieste giornalistiche, i probabili comportamenti criminosi di secondini o altri carcerati divengano di pubblico dominio. Insomma, qui è la legge, o la sua mancanza, che determina direttamente alcuni fenomeni. Certo, a ciò si associano anche differenti percezioni e sensibilità: gli americani sono assai meno inclini dei francesi o dei tedeschi a provare compassione per la sorte dei galeotti e a ritenere giusto che scontino la pena detentiva in un contesto umano, senza che all’afflizione determinata dall’essere privati della libertà si debba anche aggiungere il trovarsi alla mercé di aguzzini liberi di farne impunemente mal governo a proprio talento. Devo per giunta osservare che dal punto di vista storico Fassin suona qua e là troppo categorico. A parte un ricorso forse un po’ corrivo a Nietzsche quale oracolo (il pensatore tedesco, si sa, pur essendo filologo usava i testi antichi con notevole disinvoltura), ho rilevato per esempio un certo schematismo nell’uso del diritto penale romano, dove sembra che la punizione dei reati restasse a lungo una mera vendetta privata attuata in base a un rapporto creditore/debitore. In realtà il principio si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto è delle XII Tavole, e attesta un antichissimo intervento della legislazione altresì nel campo “privato”; e inoltre la presenza di pene dai tratti sacrali e arcaici, come la poena cullei per i parricidi, smentisce in parte il discorso troppo schematico di Fassin sul diritto penale romano. Tuttavia osservo che questi elementi, nel complesso, non tolgono valore al testo, anche se questo va letto senza dubbio con occhio critico. Alla fine, un libro che fa fare molte domande offrendo così terreno per ricerche o meditazioni autonome sull’argomento va preferito ad uno che snocciola “verità” bell’e pronte ma si dimentica poco dopo la lettura.
Qualche anno fa mi trovavo a una tavolata a base di pizza. Tavolata piacevole anche per la compagnia, e con questa compagnia a un certo punto si cominciò un gioco, quello di mettere in ridicolo i luoghi comuni, le frasi vuote, le falsità trite accettate per vere dalle masse, dai media, dalla politica. Ed ecco che io, tra l'una e l'altra, proposi la frase: "In Italia in prigione non ci va più nessuno". Dopo un attimo di silenzio, come se al tavolo si fosse presentato un ospite incongruo e inatteso, i miei commensali, uno dopo l'altro, ribatterono: "Be', questo è vero". E invece no. Le cose stanno proprio diversamente. Basterebbe un'occhiata ai numeri, che parlano di un costante aumento della popolazione carceraria negli ultimi trenta-quarant'anni, per smentire il luogo comune. Se nessuno va più in prigione, come mai queste sono sempre più piene?
Lo scopo del libro del francese Fassin non è quello di sbufalare il luogo comune secondo cui la giustizia si starebbe rammollendo, i giudici, a parte pochi coraggiosi, si sarebbero fatti tutti "buonisti" e arrendevoli, la politica idem (ovviamente per interesse), i delinquenti spadroneggerebbero nelle strade e la criminalità sarebbe in costante aumento ("ai miei tempi, invece, si poteva uscire lasciando la porta aperta!"). O meglio, il libro riposa sulla smentita di questo senso comune, che non ha riscontro nella realtà dei fatti. In poche pagine l'autore smentisce il senso comune riportando i dati nudi e crudi, e soprattutto verificabili: da decennî i reati, specialmente quelli violenti, sono in calo; ma al contempo quel che cresce, a ritmi di raddoppio se non di più, è proprio la popolazione carceraria; e aumentano anche le fattispecie: nuovi reati vengono individuati (o inventati), e la punizione sempre più spesso è la prigione, non altro; infine, le pene tendono a farsi più lunghe e più severe. L'esatto contrario del luogo comune. L'epicentro del fenomeno, partito negli anni Settanta, sono gli Stati Uniti, a oggi il paese con la più grande popolazione carceraria al Mondo, ma l'Europa, pur con variazioni e con minor ferocia, ha seguito l'esempio a partire dagli anni Novanta. L'esatto contrario di ciò che ritiene la maggior parte della popolazione, drogata da un'informazione e una politica che, per anni, hanno cavalcato ogni possibile allarme mediatico, a cui hanno proposto sempre la stessa soluzione: nuove pene, pene più dure, più prigione. La tendenza, va notato, è trasversale: dalla sinistra alla destra, con pochissime eccezioni, l'adesione al paradigma carcerario è totale, l'idea che ogni problema sia un problema di ordine pubblico è universale.
Ma queste sono solo le premesse del libro, che in realtà è un'esplorazione fatta con gli strumenti dell'etnografia, della sociologia, della riflessione giuridica e di quella filosofica, in un ambiente ancora poco percorso, per lo meno al di fuori degli àmbiti specialistici. L'autore ha frequentato per anni carceri, tribunali e strade per mettere alla prova quelli che sono i presupposti dei dispositivi con cui vengono puniti i comportamenti ritenuti devianti. Le sue domande sono: cosa significa punire? perché si punisce? chi viene punito? E in questo viaggio, denso ma breve (il libro misura meno di duecento pagine), emerge un fortissimo scollamento sta le alate teorizzazioni giuridiche e filosofiche sulla giustizia e giustezza della punizione e una realtà brutale fatta di abusi, soprusi e arbitrî, a partire dal lavoro sul campo delle forze dell'ordine sino a quelli che avvengono nei tribunali e, in seguito, all'interno delle prigioni. Il libro si concentra soprattutto sulla Francia e, più marginalmente, sul caso paradigmatico degli Stati Uniti. Ma anche in Italia abbiamo avuti degli scorci del problema, coi casi Cucchi e Aldrovandi o, più di recente, dei carabinieri di Piacenza. C'è da domandarsi quanto siano punte di un iceberg, quanto l'indignazione che hanno suscitato questi casi sarà presto spenta e sommersa da una più intensa indignazione per i soliti casi di cronaca nera che porteranno a dare ancor più poteri punitivi proprio a forze dell'ordine, ai tribunali e all'apparato carcerario.
Nell'ultimo capitolo, "Chi viene punito?" il libro riannoda i fili che ha dipanato, dimostrando (ma ce n'era davvero ancora bisogno?) il carattere classista, razzista e in genere discriminatorio degli apparati repressivi: sono le fasce marginali della società, le minoranze razziali, gli esclusi dai processi produttivi, i più poveri, i meno istruiti quelli che hanno il maggior rischio di farsi ingoiare dalle ganasce dei tribunali e, in seguito, della prigione, entrando in un circolo vizioso penale da cui risulta sempre più difficile uscire. È cosa questa, che dovrebbero tenere bene a mente anche quanti, per posizione politica o altro, vorrebbero porsi dalla parte "degli ultimi", ma poi finiscono per caldeggiare misure punitive nuove o sempre più aspre per mostri reali o inventati dal sistema politico-mediatico.
Il libro è del 2017, la questione è in tumultuoso sviluppo, e per questo non può cogliere le novità che si sono create negli ultimi anni. Personalmente in esse colgo delle luci e delle ombre. La buona notizia è che, negli anni più recenti, la guerra alle droghe sta finendo: e questo, curiosamente avviene proprio negli Stati Uniti, che ne sono stati l'epicentro. La guerra alle droghe è ancora uno dei principali motori dell'overdose carceraria che ha coinvolto gran parte dell'intero globo, Italia compresa. Dapprima con una serie di referendum locali, ora (sono notizie di questi giorni) con leggi a livello federale, negli Stati Uniti la droga leggera per eccellenza, la cannabis, sta venendo decriminalizzata rendendone legale la commercializzazione. È ora che la questione delle droghe sia affrontata, quando lo è, come un problema sanitario e non come un problema di ordine pubblico, seguendo il buon esempio dato già in tempi non sospetti da alcuni paesi europei (penso a Paesi Bassi o Portogallo). La fine della guerra alle droghe consentirà di sfoltire in maniera indolore e razionale prigioni sovraffollate, di risanare bilanci statali e di ridurre la violenza dentro le carceri. La cattiva notizia è un fenomeno, anch'esso curioso, anch'esso con epicentro gli Stati Uniti (molto meno marcato in Europa) che prende il nome di cancel culture (cultura della cancellazione). Ovvero la tendenza a procedere contro chi viene ritenuto (o ritenuta) responsabile di una qualche trasgressione, grave o lieve che sia (in alcuni casi basta anche aver detto una frase "sbagliata"), tramite l'esclusione dalla vita pubblica, il boicottaggio, se non direttamente la persecuzione tramite i copiosi strumenti dati dall'interazione informatica. Ritengo che il fenomeno sia il frutto di decennî di screditamento mediatico e politico proprio dell'operato della giustizia ordinaria, quella dei tribunali, percepiti ormai come lenti, farraginosi, troppo arrendevoli di fronte a colpevoli ritenuti previamente come tali e incapaci di redenzione. Per dirla in altri termini: a cosa serve aspettare anni e anni per una sentenza (che magari sarà di assoluzione) quando si possono comminare entrambe in pochi giorni tramite twitter insieme a orde di proprî simili ferocemente indignati contro i (reali o presunti) colpevoli di turno? Si tratta di una forma di vigilantismo spontaneo in cui le azioni dei singoli (magari persino benintenzionati: chi non vorrebbe punire un cattivo o anche solo levare la propria voce contro un torto?) si assommano a formare un effetto valanga che può portare conseguenze distruttive per chi, di volta in volta, lo subisce (per quanto poco pubblicizzati ci sono stati anche casi di suicidio). La cultura della cancellazione, che trovo possa benissimo essere assimilata a una forma di fanatico squadrismo digitale, attualmente è quella che pone le maggiori sfide ai principî fondanti lo stato di diritto, quali la presunzione di innocenza o il giusto processo. Personalmente, ora come ora, non riesco a immaginare soluzioni possibili, anche se già notare delle differenze tra Stati Uniti ed Europa dimostra come ci sia una componente culturale in gioco. Ma forse qualcuno, un giorno, scriverà un buon libro anche al riguardo.
Acho muito legal essa coleção com nome estrangeiro e complicado desta editora que também tem nome estrangeiro e complicado (e que não saberei reproduzir na grafia correta aqui). Este é o segundo livro da coleção que leio. O primeiro foi Cultura de Direita, de Furio Jesi. Gostei mais deste e certamente vou usar ele nas minhas pesquisas acadêmicas. Uma vez que, ao pesquisar super-heróis, a temática da punição permeia praticamente todas as suas histórias e motivo pelo qual eles existem. Dessa forma, Didier Fassin, o autor deste livro constrói sua argumentação ao tentar responder três perguntas básicas sobre o tema do título: O que é punir? Por que se pune? Quem é punido? Acredito que ele consiga desenvolver melhor as respostas extamente na ordem em que elas se apresentam, porque nas perguntas dois e três, me parece que as falhas éticas e morais foram deixadas de lado em relação ao crime e o castigo per se. Mesmo assim é uma discussão muito bem cerzida e importante nos tempos em que, como coloca o autor, a punição é uma paixão cntemporânea.
Ouvrage de qualité, je dis pas, mais qui m'aura noyé sous des chiffres et des considérations certainement trop pragmatiques (étrangement). Le côté "journal d'enquête" probablement. Ce que j'ai préféré : les analyses et exemples anthropologiques.
Un libro bello che aggiunge qualche interessante dato statistico attualizzato su quanto già teorizzato da Foucault quando definiva il sistema carcerario come dispositivo di “standardizzazione” dei reati e dei potenziali criminali piuttosto che un sistema di riparazione del danno cagionato. La domanda che si sviluppa in tutto il libro e che, se fossimo autenticamente democratici e libertari come diciamo di essere, dovrebbe non farci dormire la notte è come sia possibile che a fronte di una diminuzione generalizzata dei reati (ebbene sì, crediateci o no i reati sono in calo da decenni) , il tasso di incarcerazione sia aumentato a dismisura dagli anni ’90 in poi raggiungendo le vette barbariche del nostro paese guida, gli Stati Uniti, che rappresentano da soli un quarto della popolazione carceraria mondiale e dove per un ragazzo nero con un livello di istruzione paragonabile alla nostra terza media si può arrivare a toccare una probabilità di incarcerazione del 68%, se combiniamo questo al fatto che il 90% dei primi passaggi in carcere sono legati al mondo delle droghe leggere e che non ci sono dati che possano dimostrare un uso maggiore delle droghe leggere rispetto ai giovani bianchi con istruzione superiore allora è facile capire che non si è punti perché si è colpevoli, ma spesso si è colpevoli perché si appartiene a quella parte della società che deve essere sottoposta a pratiche di assoggettamento. Passaggio fondamentale del libro è a mio avviso quello in cui si dice che nonostante la presunzione di razionalità del diritto occidentale, è ancora fortissima, se non preponderante, la parte irrazionale di vendetta, il castigo passa sempre dall’atto di infliggere sofferenza al condannato e questo sembra un “bene comune” acquisito dall’opinione comune come normale, e questo nonostante la facilità estrema con cui si dimostra, numeri alla mano, l’assoluta inconsistenza del teorema della deterrenza. Consiglio la lettura, e ricordiamoci che tutte le volte che avete ascoltato la banale frase: “la polizia li arresta ma poi dopo poco il giudice li mette in libertà” avete ascoltato una menzogna e avete anche annuito a un progressivo affossamento della democrazia.
A este libro "Enmienda XIII" le viene como un companion ideal. Me refiero al documental ganador de multiples premios dirigido por Ava DuVernay, actualmente disponible en Netflix Argentina. ¿Qué es castigar? ¿A quién se castiga? ¿Por qué? ¿Para qué? ¿Cómo? Las respuestas a estas preguntas pueden ser agrupadas en el reino de lo prescriptivo/normativo y en el reino de lo sociológico/descriptivo.
Lo interesante del libro es moverse de uno a otro. Explorar las definiciones que juristas y filósofos han suministrado a cada una que no solo expresan una idealidad sino que al día de hoy ofuscan que el castigo no es una característica antropológica universal sino una característica propia de las sociedades occidentales y que el castigo lejos de estar conectado a un delito es parte de un sistema que desborda la relación jurídica entre infracción y pena y se entremezcla con la política, el etnoracismo, la desigualdad social y una, poco explorada, psicología de la indignación y el goce con el castigo.
El autor advierte que a pesar que la criminalidad, especialmente, los homicidios se han reducido, la cantidad de sentencias no para de crecer acompañado de penas más severas. Todo un segmento social que por razones históricas, económicas, sociales y etnoraciales reciben una desproporcionada atención del sistema política-judicial-penitenciario que la ingenua excusa de que estos grupos son los que cometen más crímenes pierde de vista que la definición de qué es un crimen y cuáles son las formas válidas de castigarlo no crecen en los árboles.
An interesting, however not very new analysis of the current - French and US - penal system: the poorer / the more underprivileged you are, the more you‘re punished. Plus: Your sentence is not a court ruling only; it is policing your neighborhoods, body searches, arrests etc., not in order to protect you from criminals, but in order to publicly mark you as one. Fassin gives examples from his field work to underline his call for a rethinking of the sanctioning mechanisms in Western societies. N.B.: I was offered a copy of the German version of the book. It’s clumsy and not very elegant. Better read the French original!
Un livre qui déconstruit le processus de châtiment. Pourquoi punit-on ? Qui punit-on ? Comment punit-on ? Un livre permettant de comprendre à quel point l'approche punitive déjà est contemporaine et n'est pas universel, mais aussi démontrant que les arguments moraux cachent des logiques de pouvoir avec les minorités ethnoraciales principalement visés détruisant des vies et des familles dans ces communauté. Une étoile en moins car l'écriture est un peu complexe parfois Didi
Un livre très intéressant. Il montre que l'on est pas fou quand on pense aux inégalités et au manque de justice. Dans un monde ou les médias sont toujours plus alarmistes quand à la violence et l'insécurité, la remise en question est un devoir.
كتاب ممتاز، يدور حول فكرة العدالة الانتقائية "إنما هلك الذين من قبلكم أنهم كانوا إذا سرق فيهم الشريف تركوه، وإذا سرق فيهم الضعيف أقاموا عليه الحد" يعيبه بعض التعقيد اللفظي
Tenía muchas expectativas con el tema de este libro pero me quedó debiendo. La forma de exponer la ideas me pareció desordenada y al final no planteó ninguna solución, que era justo lo que yo quería que hiciera.
Le propos du livre est simple : revenir sur ce qui se cache derrière notre système carcéral actuel. En bref, "Pourquoi punir" (ce qui me fait penser à l'énoncé philo du coucours ENS 2009, m'enfin bref). La démarche est simple, la structure tripartite claire - qu'est-ce que punir ? - pouquoi punit-on ('me semble) ? - qui punit-on ? Le style, beaucoup moins. Cela fait qu'il me reste en tête surtout les exemples (d'une grande brutalité) qu'il propose. Est-ce qu'il dit des choses que n'avait pas dites Foucault ? Non. Mais son propos est plutôt de déconstruire les fausses évidences que l'on nous ressert sans réfléchir autour de la punition. On vit dans une société moins violente, mais on n'a jamais autant emprisonné qu'ajourd'hui. On condamne davantage un consommateur de cannabis serré lors d'un contrôle d'identité (et donc vivant a priori dans un quartier pauvre -+ racisé (+ homme)-) qu'un mec qui détourne des millions (UNe VOLonté pour la France, suivez mon regard...), on punit dans le but d'infliger des souffrances à autrui (un autrui plutôt basané et pauvre), on punit parce qu'il faut bien le faire (les propos d'un directeur de prison peu convaincu des accusations portées à l'égard d'un détenu.... mais entre condamner un innocent et risquer des débordements en prison...).
Il faudrait que je me penche de nouveau sur le livre : des citations qui pourraient me rester.
À côté de ça, donc, je trouve qu'il aurait pu rendre son propos plus accessible. J'ai peiné. Je lis moins d'ouvrages universitaires qu'avant et suis peut-être un peu rouillée mais...