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432 pages, Paperback
First published January 1, 1951
„Un lucru este sigur și anume: scriu proză, și nu versulețe, față de care, îndeobște, nu nutresc un respect exagerat. În această privință mă situez mai degrabă în tradiția Împăratului Carol, care n-a fost doar un mare legiuitor și judecător al popoarelor, ci și protectorul gramaticii și un zelos binefăcător al prozei corecte și pure... Acestea fiind zise, încep precum urmează..." (pp.27-28).
The text, which is to be read in New High German and is predominantly written in prose, is interspersed with a large number of foreign words, sentences and dialogues taken from older and younger European languages and, depending on the level of education, should be accessible to the reader more or less completely, but not in their entirety.These languages include Latin, French (new and old), some English, some Middle High German, some Low German (as spoken by fishermen), and some totally new/invented words that sound familiar, but actually aren’t. The funny thing is, you don’t have to understand or look up everything to follow and enjoy the story (but it wouldn’t hurt, either). I was reminded of a character, Salvatore of Montferrat, from Umberto Eco’s The Name of the Rose, who also speaks a strange combination of multiple languages and I wonder if Eco modelled him after Mann’s “beautiful gibberish”.
O felix culpa
quae talem ac tantum meruit habere Redemptorem!
Scelta calzante della germanista Lea Ritter Santini, curatrice dell’introduzione al romanzo, è quella di anteporre tale epigrafe nel presentare L’eletto di Thomas Mann. Le parole del preconio della liturgia romana della veglia pasquale alludono alla colpa del padre Adamo e della madre Eva, gravissima in sé, ma indispensabile per sperimentare la Grazia e la Misericordia del Padre. Attorno a questo concetto chiave si sviluppa tutta la narrazione del romanzo di Mann, imperituramente impresso nella mente della voce narrante (monaco medievale) che ad esso riferisce continuamente, rendendo plausibile l’artificio letterario sul piano del contesto culturale medievale.
Il romanzo in sé è tremendamente ironico, e lo è nella misura in cui i grandi autori sanno di essere in grado di essere autorizzati a guardare alle verità importanti con un occhio eccentrico. La prima riflessione che spontaneamente affiora è che Mann - e non altri - avrebbe potuto scrivere un’opera tale. E cioè, anche laddove non vi sia per forza un’opera immensa, si riesce ad apprezzare il genio che l’ha prodotta. Con questa riflessione ci si sposta sulle altre caratteristiche del romanzo. Nel divertimento che l’autore si fabbrica nel manipolare le leggende e la cultura medievali, trovano spazio illuminazioni importantissime su questioni di letteratura della più stringente attualità. Ne sono un esempio, su tutte, le riflessioni che la voce narrante produce in relazione alla figura del narratore nei testi letterari, talmente chiare, lucide, divertenti e ben esposte, da meritare spazio anche nelle nostre lezioni a scuola.
La materia in sé mette latamente in relazione il tema affrontato – le leggende medievali attorno alla figura di Gregorio Stilita (il futuro papa) con i dovuti debiti nei confronti del poema di Hartmann Von Aue – con il mito greco di Edipo, ovvero una sorta di reduplicazione in amplificazione dell'incesto (Gregorio stesso, nuovo Edipo, è il frutto di un'unione carnale incestuosa, più di Edipo). Un viaggio nel tempo e nello spazio, una rete di connesioni culturali ininterrotte, riprese e trapiantate, che nella penna di Mann si misurano con la materia cavalleresca, con la lirica di corte, e con la virtuosistica, anche se scontata, invenzione linguistica di un idioma plausibile (ma impossibile) che fonde elementi di francese antico, di medio tedesco e di latino.
...Amor fati – io non ho nulla in contrario ad essere qualcuno arrivato tardi, un ultimo, uno che conclude e chiude e non credo che dopo di me questa storia e la storia di Giuseppe verranno raccontate ancora una volta. Quando ero molto giovane feci tirare al piccolo Hanno Buddenbrook una lunga linea sotto la genealogia della sua famiglia, e quando fu rimproverato per questo, lo feci balbettare: «Pensavo, pensavo, che non venisse più niente».
Per me, ho l’impressione come se non dovesse venire più nulla. Spesso la nostra letteratura contemporanea, le cose più sottili e più alte mi paiono quasi un congedo, un ricordare rapido, un ricapitolare ed evocare ancora una volta il mito occidentale – prima che cada la notte, forse una lunga notte e un profondo oblio. Una piccola opera come questa è tarda cultura che viene prima della barbarie, già guardata da tempo quasi con occhi estranei. Anche se la leggenda irride parodisticamente le vecchie e pie cose, questo sorridere è più melanconico che frivolo e lo stile giocoso del romanzo, la forma finale della leggenda, conserva in pura severità il suo nucleo religioso, il suo cristianesimo, l’idea del peccato e della grazia.