È possibile vivere "fuori dal mondo"? Si tratta di un desiderio legittimo o di una condanna? Da una parte vorremmo essere lasciati finalmente in pace, ma al tempo stesso temiamo la solitudine come la peggiore delle infelicità. In queste pagine Edoardo Albinati prova a raccontare cosa accade quando ci rendiamo inaccessibili agli altri, oppure sono gli altri a confinarci su un'isola senza vie di fuga. La vita precipita in un pozzo per scelta, per errore o per destino, e niente tranne un miracolo sembra possa tirarci fuori. Un tema di estrema attualità, oggi che all'esclusione sociale si sono aggiunte quella autoimposta da chi decide di non uscire più da camera sua, e quella prodotta dalle campagne di abuso online. Un detenuto pazzerello, una ragazza afflitta da una misteriosa malattia, un artista misantropo sono i naufraghi al centro di queste tre novelle: ma a ben vedere, anche i personaggi intorno a loro vivono altrettanto struggenti forme di solitudine da cui cercano di evadere a ogni costo attraverso l'amore, la cura, la parola, la violenza. Albinati si muove con una scrittura esatta e inarrestabile dentro le ossessioni del nostro tempo, per far emergere sentimenti che riguardano tutti: la paura del giudizio altrui, il febbrile desiderio di essere compresi.
Da oltre vent’anni lavora come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, esperienza narrata nel diario Maggio selvaggio. Suoi reportage dall’Afghanistan e dal Ciad sono usciti sul “Corriere della Sera”, “la Repubblica”, “The Washington Post”. Ha scritto film per il cinema di Matteo Garrone e Marco Bellocchio. Tra gli ultimi libri pubblicati, ricordiamo Tuttalpiù muoio con Filippo Timi e Vita e morte di un ingegnere.
Contenente tre racconti scritti in stili diversi, ma uniti da una semplicità che lascia confusi, questo libro preso casualmente dalla biblioteca mi ha stravolto il mondo ogni volta che era aperto.
Il libro raccoglie tre racconti che hanno per protagonisti personaggi che, volenti o nolenti, vivono ai margini, soffrendo solitudine ed emarginazione. Il primo racconto, che è anche quello che ho preferito, parla di un carcerato con problemi di dipendenza da droghe. Gli stupefacenti, di fatto, sono l'unica cosa che gli permette di sopravvivere in un luogo così alienante come la prigione. Intorno a lui gravitano personaggi altrettanto soli: una professoressa che esercita la sua professione nel carcere, un secondino e un trans. Tutti vivono un profondo disagio, tutti sembrano non trovare la propria dimensione nel mondo che abitano. Il secondo racconto vede protagonista una ragazzina che ha una strana patologia, quindi qui la motivazione dell'isolamento è la malattia. Ma si parla anche di maldicenza, che è la causa dell'alienazione di un altro personaggio della storia. L'ultimo racconto ho fatto fatica ad apprezzarlo perché è scritto come un unico periodo, senza alcun punto e personalmente non amo questo stile. Capisco, però, le motivazioni della scelta in quanto Albinati voleva descrivere il percorso che conduce il protagonista verso la scelta di chiudersi in casa senza più avere contatti con l'esterno e scrivere tutto come un fiume di parole contribuisce a creare quel senso di straniamento e di asfissia che può essere quello provato dal protagonista.
più no che sì; il titolo lascia presagire qualcosa di forte, estremo, il lavorio interiore di personaggi decisi a uscire dal mondo. i protagonisti delle tre novelle sono personaggi discutibili, ai margini, ma neanche così rotondi, e le loro uscite dal mondo neanche così di rilievo, così degne di racconto. mantengo un'idea altissima di Albinati, grazie alla Scuola Cattolica, ma questo libro assomiglia a quello che si deve pubblicare qualcosa ogni anno, per forza. la scrittura, in ogni caso, rimane gradevole e scorrevole.
La scrittura di Albinati ha un'eleganza classica pur essendo moderna, riempie le frasi di aggettivi accuratamente scelti con grazia naturale, la scrittura di Albinati è Scrittura con la maiuscola. Da insegnare nelle scuole che detestano la sperimentazione a tutti i costi. Quando uno ha questo talento, può scrivere ciò che vuole, dalle 1300 pagine di dissertazioni colte de "La scuola cattolica", ai tre raccontini di "Uscire dal mondo". Il lettore che è in me gongola in tutti i casi.
Strano e particolare. Ultimo racconto veramente unico ma per questo difficile da leggere e seguire, almeno per me. Il secondo racconto finisce in un misticismo che non sono riuscito a cogliere pienamente.
Libro composto da tre racconti/novelle slegate, il cui trait d'union è la solitudine, l'esilio forzato, il distacco dal mondo (come da titolo). La prima storia ha una sua forza, probabilmente anche autobiografica (data l'ambientazione in carcere), la seconda perde colpi nel suo ammiccare alla dimensione della parabola e del fantastico, la terza è un vero capolavoro di stile liberissimo, che vale l'acquisto del libro, un flusso di frasi dense e articolate che attraversano anche quattro/cinque pagine. Eccone un esempio:
infatti mentre tutti lo pensavano uno stravagante, un eccentrico e in definitiva, grattando sotto la sua propensione al business, erano convinti che fosse un inguaribile romantico, egli si preoccupava soltanto della stabilità, ne era ossessionato, non aspirava ad altro che a garantirsi una forma di immota e perenne stabilità, come un frutto o uno strumento musicale in una natura morta, il che per lui voleva dire mantenersi in salute, pesare sempre lo stesso peso, indossare senza venir costretto ad amare riflessioni abiti comprati quindici anni prima, iniettare spuma isolante nelle pareti e nel soffitto di casa, guardare le onde inseguirsi sempre uguali e le scie dei motoscafi romperle, fare quattro volte l’anno le analisi di sangue e orine, controllare il saldo dei suoi conti correnti, allontanare il pensiero della vecchiaia e infine della perdita dell’amato Fizz, insomma il suo modo per sentirsi vivo era tenersi in uno stato di quiete il più possibile simile alla morte, così che la morte smettesse di incutergli il profondo spavento, il vero e proprio terrore che gli incuteva, era terrorizzato dall’idea di morire, di ammalarsi e poi morire, di cadere con un aeroplano e morire, di battere la testa scivolando sulla pietra sdrucciolosa, di annegare, di essere liquidato per ragioni oscure da un killer professionista, era terrorizzato all’idea di cedere all’improvviso a un attacco di sconforto e di ammazzarsi come fanno in tanti per motivi futili quanto misteriosi e come aveva fatto anche la vecchia zia Raquel Pugo, la quale alla bellezza di ottantaquattro anni aveva anticipato la fine infilando la testa in un sacchetto di plastica del supermercato Edeka e soffocandosi, uno dei tanti sacchetti che teneva in casa, ne furono trovati mille o duemila, tutti con la sigla Edeka e il simbolo della catena di supermercati, un orsetto che spinge un carrello della spesa, buste di plastica in cucina, nei cassetti del piccolo soggiorno, piegate con cura come biancheria e ammassate sotto il letto della vecchia, e ci si chiedeva, i poliziotti perplessi a lungo interrogarono i vicini, e i vicini a loro volta s’interrogarono sul motivo per cui la vecchia avesse in casa tante buste della spesa pur uscendo di casa raramente e mangiando pochissimo, e non tenendo presso di sé animali da nutrire, dato che il supermercato Edeka di Brema, situato a circa tre chilometri dall’abitazione di Raquel Pugo, vende esclusivamente prodotti alimentari, e dunque proprio per questo egli cercava di assicurarsi la stabilità e si può dire che l’avesse raggiunta, possedeva una casa e un cane, tenendo in piedi l’una e l’altro a furia di iniezioni, quasi non viaggiava, non andava a letto con nessuno, lavorava l’indispensabile, ma anche per altre strade aveva raggiunto la stabilità, anche nella sua arte semplice e ripetitiva, fatta di variazioni minime, eppure questo senso di misura e continuità non aveva impedito che un freddo spavento si insinuasse dentro di lui, la catena di avvenimenti lo aveva messo in guardia e sebbene avesse sempre saputo di non essere un creatore, sebbene avesse avuto chiaro fin dall’inizio che non era capace di creare nulla ma solamente di ricalcare e variare e tradurre e agghindare cose fatte da altri, adesso era giunto a sentire questa condizione come qualcosa di inconsolabile, patetico, e sterile, capiva di essere un puro sintomo del tempo, un fenomeno epocale secondario, e non lo consolava più sapere che lo stesso destino era condiviso da tanti artisti e non lo stupiva più il fatto che fosse proprio l’assoluta purezza e si direbbe quasi umiltà con cui egli viveva e interpretava questa arida condizione ad avergli garantito il successo