Torino, anni Settanta. Nel suo pied-à-terre viene ucciso l’architetto Garrone. Squallido personaggio che vive di espedienti ai margini della Torino bene, Garrone fa parte di una sorta di “teatrino privato” nel quale Anna Carla Dosio, la moglie di un ricco industriale, e Massimo Campi, giovane omosessuale della buona borghesia, stigmatizzano vizi, affettazioni e cattivo gusto dei loro conoscenti.
Il commissario Santamaria si trova così a indagare tra l’ipocrisia, le comiche velleità e gli esilaranti chiacchiericci che animano il mondo della borghesia piemontese, tra professionisti dalla doppia vita, dame dell’alta società affascinanti e snob, e industriali. Sullo sfondo – ma è in realtà la vera protagonista – vi è una Torino in apparenza ordinata e precisa fino alla noia, che nasconde un cuore folle e malefico: «La leggendaria monotonia della città era un’invenzione di osservatori superficiali. Torino era una città per intenditori» commentano gli autori (che sull’argomento la sanno lunga).
Uscito nel 1972, La donna della domenica – in questa edizione arricchito da contenuti speciali – è il primo e il più popolare dei libri di Fruttero & Lucentini, e resta tuttora l’insuperato capostipite del “giallo italiano”. Divertente e godibilissimo, è un romanzo paradossale e raffinato, complesso ma leggero, che mantiene ancora intatte le sue doti di freschezza, eleganza e fulminante ironia.
The editorial team of Carlo Fruttero and Franco Lucentini, particularly notable for their (controversial) curation of the Urania series of fantascienza (science-fiction) compilations from 1964 to 1985.
Di recente ho rivisto il film dopo secoli e con mia sorpresa l’ho trovato eccellente, forse perfino superiore al romanzo. La regia è finalmente curata: finalmente perché in quegli anni (la pellicola è del 1975) tanti film italiani erano tirati via, girati in location assurde (vedi gli spaghetti western), con cast e performance sbagliate e/o sopra le righe, sceneggiature scritte in un weekend, budget risicato a cominciare dal tempo a disposizione. E non mi riferisco solo al cinema italiano di cosiddetta serie B – parte del quale è perennemente osannata da Quentin Tarantino. Curata, garbata, intelligente, misurata, la regia non perde un colpo. D’altra parte è firmata da Luigi Comencini. Cast ricco, brillante, azzeccato: un Mastroianni in forma strepitosa, Jacqueline Bisset bella e brava e divertente, Jean Louis Trintignan piacevolissimo; due caratteristi italiani particolarmente giusti, con mia grande sorpresa, Pino Caruso e Lina Volonghi strappano risate e portano a casa il ruolo in modo magistrale. Altri nomi: l’immancabile Claudio Gora nella parte di un altro dei suoi personaggi viscidi; Aldo Reggiani, nel suo breve periodo di gloria. E poi, Omero Antonutti, Maria Teresa Albani, Gigi Ballista. Il film si gode dal primo momento all’ultimo, sostenuto da un cast tecnico più che notevole: sapientemente sceneggiato dalla coppia di ferro, Age e Scarpelli; musicato dal Maestro Ennio Morricone; fotografia di Luciano Tovoli, che è stato uno dei nostri top dp; montato da Antonio Siciliano. Il piacere di rivedere l’Italia di quell’epoca, a cominciare da Torino, andando avanti con gli abiti, i telefoni… Mi verrebbe da dire che è un film a suo modo imperdibile.
Nella Torino dei primi anni '70 si consuma un duplice omicidio, che il commissario Santamaria e i suoi risolvono pazientemente e acutamente dopo più di 500 pagine. Non aggiungo altro sulla trama, perché, nonostante sia avvincente e dilettevole, non è il giallo in sé ad avermi colpito. E' la descrizione delle fitte trame di relazioni umane, di solitudini perverse e miserevoli, di desideri taciuti- per una tendenza tutta torinese (o almeno così viene catalogata) al riserbo- o sfrontatamente palesati (perché- è inevitabile- reprimere equivale al ticchettio di una bomba ad orologeria)- che animano la città. E' altresì lo sventramento di Torino- tra speculazione edilizia e rampanti parvenu antesignani di quelli poi eletti ad idoli negli anni '80- che dignitosamente, sabaudamente, sanguina senza un grido, ad avermi avvinta alle pagine: ed il fatto che, in questa città ferita, si avvicendano personaggi naturalmente irrisolti ma sornioni, esausti ma non rassegnati. C'è una donna- forse quella della domenica, forse quella di tutta la settimana- che sembra rappresentare un varco, la maglia che si spezza, la rete che non tiene: ma neanche lei è protagonista, perché- mi sembra- che lo siano tutti, anche i comprimari e al contempo non lo sia nessuno. E' scritto benissimo, infine: la lingua si tende fino ai margini permessi dal genere e le riflessioni sulla natura umana sono pungenti, acute, affilate. E' un romanzo invecchiato benissimo, che ne mette a mio avviso in ombra molti altri più contemporanei.
L'intelligenza usata solo per ammazzare il tempo è stronzismo(*) Cinque anni ci sono voluti a F&L per scrivere questo favoloso romanzo, travestito da giallo (peraltro un ottimo giallo), sulla borghesia torinese degli anni '70. Cinque anni ci sono voluti per fondere due personalità molto differenti per formazione ed esperienza, ma unite da una profonda cultura, un sagace senso dell'ironia e una gran voglia di divertirsi. F&L da lì in poi videro il loro connubio consolidarsi per decenni, diventando autori a doppia firma di ottimi romanzi, saggi, programmi televisivi, rubriche sui giornali e poi direttori dell'Urania, sceneggiatori di film... La donna della domenica è un romanzo che te lo godi dalla prima all'ultima pagina, nonostante le oltre quattrocento. Già dalle prime righe si scopre il nome dell'assassinato, ma solo alla fine si saprà il colpevole e vi si arriverà attraverso una scrittura esemplare: un bell'italiano, ma diretto, popolare e molto comunicativo e una costruzione della trama poliziesca che non fa una grinza. È proprio l'idea del libro giallo che convinse il duo a scrivere questo romanzo: Fruttero racconta che l'ispirazione di parlare di Torino, come città emblematica per tutta una serie di caratteristiche e luoghi comuni, venne a Lucentini, che gli propose di scrivere un po' di raccontini, dei bozzetti, con protagonista una signora della ricca, anzi ricchissima, Torino bene. Il tutto poi decisero di trasformarlo in un romanzo. Ma il rischio di scrivere un romanzo di costume perdente (al confronto di quelli che F&L consideravano libri di autori più blasonati e per questo irraggiungibili) li fece optare per il giallo: un romanzo con meno pretese, dove ci sono regole precise di scrittura e costruzione, avrebbe messo loro al riparo da eventuali critiche. Così i due si divertirono non solo a inventare una fantastica trama di mistero e intrighi, che si rivelano poi motivati solo da un mero interesse di speculazione edilizia, ma anche a ritrarre la snobberia dell'alta borghesia torinese, quella che prende di mira, non tanto i più poveri, i proletari e i sottoproletari di Torino, città in quegli anni emblema italico delle differenze di classe, ma proprio quella "altra" borghesia quella fatta dagli arricchiti, dai maneggioni, da quelli che per sembrare più à la page pronunciano Baaast'n, all'americana, e non Boston, all'italiana. Nascono così sulle loro pagine personaggi memorabili: Anna Carla Dosio, che si definisce "bella, ricca, intelligente, simpatica, ben maritata", regina del bon ton, ma anche spregiudicata e molto meno frivola di quel che sembra; il comissario Santamaria, ex partigiano, meridionale, colto, detective acuto e di poche parole; Massimo Campi, ricchissimo e annoiato figlio di papà, intemperante, ma tutt'altro che stupido, fidanzato con un ben più umile impiegato comunale; l'americanista pittoresco intellettuale; l'antiquario truffaldino; le due sorelle Tabussi, l'una eccentrica e sguaiata, l'altra completamente spanata....Attorno a questi personaggi di primo piano, tutta una corte di figure di contorno fantastiche, per ognuna di esse si capisce perfettamente quanto F&L abbiano riservato una cura particolare nel definirle. Un libro scritto oltre quarant'anni fa e che oggi, non più età di rivendicazioni sociali, impegno politico, contestazioni, occupazioni... ma anni in cui imperano luoghi comuni e snobberia, risulta decisamente attualissimo. * la frase del titolo non c'è nel romanzo, ma è pronunciata da uno splendido Mastroianni/Santamaria nel buon film che ne trasse Comencini nel '75.
An Italian detective story from the early 1970s (translated from the Italian). Our hard-working, divorced detective has a woman that he visits on Sundays but that doesn’t stop him from hitting on a beautiful, supposedly happily married woman who is a person of interest in the latest murder. A small-time architect has been found bludgeoned in his office. As the police start to close in, a second man is murdered.
This is a good story with lots of local color of Turin, which is unusual because that city is one of Italy’s industrial cities, not one of the artsy tourist centers like Florence, Rome, Venice or Naples where most Italian novels are set.
The book is quite humorous throughout, as when the police do a Keystone cops roundup of prostitutes on a wealthy woman’s estate. One of the characters is an Italian professor who loves to make jabs at American academic deconstructionism while he stifles his audiences and students with the same type of gibberish. (He associates all American academic work with California and pornography.)
We learn a lot about the Italian police bureaucracy and how its procedures (at least in the 70’s) are tied up in socio-economic class. Because a couple of the suspects, such as the beautiful woman, are upper-class, the police tiptoe around and check upstairs, downstairs and sideways before even daring to question the suspects.
There are many characters and it helps to keep track of them as you start reading. Two of the suspects are a gay couple and their eventual breakup is one of the most devastating yet romantic portrayals of a gay relationship that I have read. (And, again, this was written in the 1970’s.)
Cio che è sorprendente a prescindere del libro in sé è come le quattro mani, le due teste, i due cuori e le due anime di Fruttero e Lucentini riescano, a lavoro terminato, a fondersi in maniera così perfetta senza lasciare nessun grumo né a vista né sotto la superficie delle parole. Nonostante ciò, ed essendo il terzo libro che leggo scritto dalla formidabile coppia, sono giunta alla conclusione che in uno dei due autori vi debba per forza essere una vena giallistica più spiccata mentre l’altro indulge in un afflato più metafisico, anche se non saprei attribuire a ognuno dei due la paternità delle rispettiva componenti che insieme si attraggono a formare una splendida unità. Perché ne L’amante senza fissa dimora (stupendissimo) e ne Il palio delle contrade morte la narrazione era più rarefatta e surreale rischiando di sconcertare e indisporre il lettore più razionale finendo le regole della logica spesso in spin off. Al contrario nella stesura de La donna della domenica penso che il più fantastico dei due autori probabilmente dormiva o era meno collaborativo, perché codesto è decisamente un giallo di carattere tradizionale con un commissario, una questura competente e non lassa che indaga, testimoni e sospettati che spostano l’attenzione e catalizzano simpatie o antipatie nel lettore, l’intrigo è fitto, sino alle ultime pagine non ho avuto la benché minima idea di chi potesse essere l’assassino/a/i, anche perché, numericamente parlando, i candidati in gioco erano veramente una pletora. Ma punto notevole di questo giallo è anche la sua scrittura: colta, raffinata elegante, pure senza cadere in barocchismi ridondanti e inutili, il frasario è nondimeno di non sempre immediato approccio per un giallo. La Torino descritta è vivida, fuoriesce dalle pagine una città con le sue strade le sue piazze i suoi ampi viali a formare un reticolo perfettamente geometrico. Ingombrante protagonista anche la borghesia della città, ritratta con pennellate acri e che non scontano nulla al popolo sabaudo che appare in superficie organizzato ed austero ma sotto la sua crosta inquieto e subdolo. Nel cavo della mano torinese, ci dicono i due nostri venerabili autori con forte e discutibile polemica anticampanilistica, si nascondono i flagelli che opprimono la patria a partire dall’unità nazionale, dalla prima automobile, dal Libro Cuore, dal cioccolatino di lusso, insomma quasi tutto…. Spicca tra i rappresentanti del gentil sesso torinese la Francesca Dosio moglie di industriale torinese, tanto bella quanto veramente poco snob nonostante tutte le sue prerogative di classe, ricchezza e bellezza; ho apprezzato moltissimo il corteggiamento intelligente tra lei e il commissario Santamaria, tra i due prende corpo una attrazione trattenuta, ma che potrebbe incendiare un bosco se solo gli eventi non fossero sfavorevoli, uomo molto interessante il commissario Santamaria….siculo migrato e regalato al nord, razionale freddo e logico ma capace di provare una sproporzionata tenerezza alla vista della macchina di lei parcheggiata tanto maldestramente. In aggiunta: 1) molto istruttivo dal punto di vista artistico e ai fini dell’economia della storia il pamphlet, collocato a metà libro, sul’itifallo 2) non ho colto il senso del titolo, spero, non avendolo capito, di essere comunque riuscita a capire l'identità del/della dei colpevoli!
ma può essere altro che geniale un romanzo ambientato a torino, il cui personaggio più negativo si chiama garrone? cioè. il nome dell'unico piemontese veramente buono che la letteratura ricordi, uno che si prende le colpe degli altri e ne sa pure di aritmetica, prestato a un omuncolo spregevole il cui assassinio è annunciato già nella prima frase del libro. un capovolgimento simbolico suggellato da un omicidio del cacchio, anche in senso letterale: questo garrone qui viene fatto fuori con un pesante fallo di pietra, che dà il via a una giostra raccontata con ironia e leggerezza nella torino dalla ricchezza solida e dalle vacillanti virtù. il romanzo esce nel 1972. dunque mentre "per motivi di ordine pubblico" è appena stato spostato dalla città della mole a napoli il processo per le schedature della fiat (bigino velocissimo: corrompendo carabinieri, poliziotti e funzionari assortiti gli agnelli avevano dossierato oltre 150mila operai per conoscerne l'orientamento politico e regolarsi di conseguenza. fu una delle prime volte in cui i sindacati poterono costituirsi parte civile). mentre gli anni di piombo entrano nelle fasi più drammatiche (l'omicidio calabresi è del maggio di quell'anno) e viene varato il primo governo andreotti su decisione di un neopresidente eletto con il sostegno dei voti dell'MSI. in questo clima, con noncurante levità ma accuratissima sottigliezza, fruttero & lucentini descrivono un mondo a cui del momento storico non arriva che un'eco, ma uno dei cui protagonisti sostiene esserci lo zampino torinese in ogni patrio flagello, dall'unità nazionale in giù: «la prima automobile, i primi consigli di fabbrica, il cinema, la prima stazione radio, la televisione, gl'intellettuali di sinistra, i sociologi, il libro cuore, il cioccolatino di lusso, l'opposizione extraparlamentare, insomma tutto». torino è la città da cui il male si diffonderebbe come le cellule del cancro nel resto d'italia, senza che questo scalfisca le abitudini a modino della sua buona borghesia. indimenticabile allora la bella moglie di industriale anna carla dosio (la cui garbata e consapevole vacuità, tutt'altro che stoltezza, possiamo in fondo perdonare molto più facilmente che non l'essersi portata a letto il commissario santamaria) che si muove leggiadra tra una disputa su come pronunciare boston in modo scevro di affettazione, e il brivido per esser stata lambita da un fattaccio di risvolto poliziesco. emma bovary, eri proprio un'ingenuotta sappilo una volta per tutte.
“…tutti gli esseri umani impegnati a tessere e ritessere le loro tremule ragnatele da uno spigolo all’altro della vita.”
Tanto per cominciare, non sono mai stato a Torino. Per cui, a quanto ho capito dall’aura che circonda il romanzo, mi sono perso uno dei pregi di La donna della domenica, capace di interpretare con fedeltà massima l’atmosfera particolare di quella città, un po’ appartata dal baricentro dell’Italia ma allo stesso tempo in grado di coglierne o addirittura anticiparne i vizi, “ognuno dei flagelli che opprimono la patria”, come enuncia elencandoli uno dei principali personaggi del libro.
Non ci sono mai stato ma credo di potere comunque affermare che la galleria di figure messe in campo dagli autori è davvero straordinaria e dipinta con grande accuratezza e profondità: non ci sono comparse in questo “giallo”, ma numerosi veri personaggi che incontriamo all’inizio o appena prima del termine del romanzo, poco importa perché sono caratterizzati, senza eccezioni, in maniera così raffinata ed efficace che, si potrebbe dire con un luogo comune, ci sembra di averli conosciuti di persona.
Anche lo stile contribuisce a fornire l’andatura lenta e avvolgente del libro, troppo lenta secondo alcuni lettori odierni, forse abituati ai nuovi polizieschi fissati su serial killer o omicidi rituali. Nulla di più lontano qui dove contano gli interessi più concreti e materiali, simbolizzati da quell’inopinato tuffo nei meandri della burocrazia che caratterizza il prefinale e in qualche modo segna la stessa soluzione del “giallo”; un giallo che, come molti hanno osservato, è riduttivo definire tale perché sconfina decisamente nel romanzo di costume, nella commedia raffinata, nella narrativa tout court o nel quadro d’ambiente perché è di ambienti (il mercato, l’archivio comunale, le dimore della media e alta borghesia, la galleria d’arte…), oltre che di personaggi, che in definitiva si arricchisce progressivamente questo romanzo ironico, corale, elegante e, solo in apparenza, leggero.
Un gioco continuo ed ininterrotto di ironia e leggerezza. Così si può sintetizzare quello che penso di questo romanzo “bicefalo”, frutto della maestria della coppia Fruttero e Lucentini. E’ un giallo: ci sono ben due delitti, ci sono le indagini, i colpi di scena, il finale avvincente e poi… c’è il commissario Santamaria, che piace tanto (nel film che ne ha tratto Comencini è impersonato da un affascinante Marcello Mastroianni, come non innamorarsene!) per il suo stile pacato e brillante, concreto e solido, per essere –come lo definisce Anna Carla Dosio, giovane signora della Torino bene inciampata nelle indagini su uno dei delitti grazie al livore dei domestici licenziati- un uomo senza virgolette. Intorno a lui ruotano tanti personaggi, che sono ritratti, a partire dai morti ammazzati fino agli indagati, in modo da renderli presenti davanti al lettore con stupefacente concretezza, nelle loro meschinità quotidiane che vengono sempre rappresentate con ironia ed humour. Le indagini sono l’escamotage usato dagli autori per scrivere un magistrale ritratto della città di Torino. Torino, con le sue contraddizioni e anomalie che ne fanno da un luogo geografico un microcosmo universale, viene descritta dal torinese Fruttero nelle sue piazze, le sue strade e i suoi palazzi, nel Balòn (il mercato delle pulci, luogo di uno degli omicidi) come “l’ambiente”: una città elegante e misteriosa, che all’inizio degli anni ’70 –il romanzo fu scritto nel 1972- stava nel pieno del boom economico iniziato nel decennio precedente, la città della Fiat e degli industrialotti con la villa in collina, degli intellettuali snob figli del sessantotto e dei meridionali immigrati, come lo stesso commissario Santamaria, visti con sguardo razzista dai residenti. Tutto ciò rende il romanzo un di più rispetto al giallo classico, uno spaccato sociale guardato con l'occhio arguto ed ironico di due brillantissimi scrittori. Davvero un bel libro, da assaporare lentamente sorseggiando un bicerìn (vista la lunghezza del libro, direi più di uno).
Un piccolo gioiello Leggendo delle gesta del Commissario Santamaria e della signora Dosio mi è venuto spontaneo andare con la mente al capolavoro di Carlo Emilio. “La donna della domenica” è del ’72, “Quer pasticciaccio …” del ’57. La Roma del ventennio descritta da Gadda è lontana anni luce dalla ‘grigia’ Torino che a partire dal primo dopoguerra ha continuato ad assorbire grandi masse di immigrati attratti dal lavoro, costituito in massima parte dalle catene di montaggio della FIAT. Anche i personaggi hanno diversa caratura e gli ambienti sociali sono, ovviamente, diversissimi; ma quello che accomuna, a parer mio, i due ‘gialli’ è la profondità dell’analisi psicologica dei personaggi. E poi una certezza: il Commissario Ingravallo e il Commissario Santamaria sono gli zii di Montalbano. Infine lo stile, il garbo, la sottile ironia; una prosa dove la lingua italiana ne esce esaltata e rinvigorita. «Tutti ciechi, tutti inconsapevoli, attraversavano a testa alta e vuota la loro vita senza specchi.». «Sua moglie, con la mano pendula, raccolse un mucchietto di ghiaia e se lo lasciò filtrare tra le dita come una manciata di secoli.». «… Quello che la signora Dosio chiamava, con femminile sbrigatività, “osceno”, era forse un indefinibile senso di marciume che emanava dal Garrone, come se in lui fossero concentrati – ma corrotti, putrefatti, sinistramente esasperati, stravolti da una mortuaria alchimia […] … la parsimonia, ma incancrenita nei modi del morto di fame; il riserbo, ma degradato a losca elusività; il conformismo, ma fermentato in progressive purulenze; la cortesia, ma liquefatta in adulazione; il vecchio stile, ma mangiato dai vermi di abbiette civetterie, di atroci vezzi.». «Se sarei il fidanzato della signorina, - disse fosco, - quel fetente lì lo volessi sistemare io …» Bello, davvero molto bello. E … quantunquamente, se lo sarei letto quando ero giovane, forse mi imparavo di scrivere in italiano … [Ago, 2011]
Il gusto della lettura Fruttero e Lucentini, due fini traduttori che scrivono romanzi, romanzi gialli. E come scrivono. Ho letto le loro pagine provando gusto per l’intreccio, per il plot, per il racconto dei fatti che sembrano non essere collegati tra loro ma che indicano sin dall’inizio la pista giusta da seguire. E l’intreccio è arricchito, colorato, reso interessante da tanti temi collaterali che fanno sì che La donna della domenica venga definita giallo solo per comodità di catalogazione ma riesca a superare i limiti di genere e diventi narrativa di ampio respiro. Si leggono pagine in cui vengono descritti con tono comunque leggero, non didascalico o presuntuoso, per esempio, i corridoi della pubblica amministrazione, la burocrazia, il mondo della borghesia con il suo interesse per l’arte, i venditori d’arte, tutto sullo sfondo di una Torino, che pur se illustrata nella sua chiusura, nei suoi pregiudizi, nella sua diffidenza, è costretta ad accogliere e a misurarsi con la nuova realtà, l’immigrazione collegata all’indotto industriale. E da questo contrasto nasce l’interesse per le differenze linguistiche, dialettali, per i codici comportamentali dei diversi ambienti e per le convenzioni sociali, per i proverbi, per ciò che appartiene al comune sentire ma diverso per ogni ambito, per ogni cerchia. E allora per togliersi dall’impaccio, per capirsi tra gente di provenienza diversa, bisogna rifarsi a qualcosa di più profondo, di comune: “Il commissario andò a sedersi dietro la scrivania, al suo posto. I suoi affanni, le sue oscillazioni private alla ricerca di un savoir vivre d’occasione, cadevano davanti a quel fermo suggerimento, a generazioni e generazioni di donne abituate a esprimere e ricevere condoglianze in un certo modo, a far lucidare l’argenteria in certi giorni, a mandare i figli in certe scuole, a contenere le spese di casa entro certi limiti. Aveva ragione lei: se c’era un’etichetta, una regola, una procedura, era proprio nei momenti di crisi che bisognava seguirla. Ecco a cosa serviva, la tradizione.” E poi, l’esemplificazione della tattica investigativa è in primo piano, mai gli scrittori perdono di vista il fine del libro, si trova gusto proprio nel seguire l’indagine che procede gradatamente tra colpi di fortuna, di intuito, di studi comportamentali, di esperienza, di pazienza e dedizione professionale. Certo, spazio viene dato anche ai sentimenti, alle storie d’amore e a quelle di sesso – siamo uomini – ma non costituiscono il filo conduttore, il filo conduttore rimane quello dell’inchiesta e della rappresentazione di una città in un determinato momento (scritto nel 1972), la mano non viene calcata, non si ha l’impressione che ne nascerà un sequel, è una storia, così, di un essere umano, piacevole, comunque, delicata e stuzzicante: “Il cuore s’era messo a battergli apertamente. … vide che a questa improvvisa intersecazione avrebbero potuto benissimo gettarsi uno nelle braccia dell’altra, misurò la schiacciante montagna di circostanze che avrebbero dovuto smuovere per farlo davvero.” Bello il finale, chiaro, non affrettato, sia relativamente all’indagine che all’altra storia… E poi, ancora, ho trovato un’altra piccola perla, questa di carattere strettamente personale però, niente ambiti sociali, niente cerchie, mia personale: si cita una certa signora P……. – cognome scritto per esteso, naturalmente, che è il mio cognome alla nascita, cognome poco diffuso, e poi si cita una certa signora R…….. che è il mio cognome acquisito, non certo diffuso in ambiente torinese. Stupita, ma non troppo (mi era già capitato qualcosa di analogo con Sandro Veronesi), l’ho detto a mia figlia che invece, giovane e sbalordita, mi ha detto: “…e tu hai scelto di leggere proprio quel libro lì…”. Sì, e leggerò anche i loro successivi.
Un super classico del giallo. Il romanzo è ambientato nella Torino dei primi anni settanta e racconta dell'indagine del commissario Santamaria sull'omicidio dell'architetto Garrone, personaggio che conduce una vita di squallidi espedienti a margine della Torino "bene". L'architetto viene trovato ucciso nel suo pied-à-terre con il cranio sfondato da un fallo di pietra. E infatti l'ironia non manca fra le pagine del libro. La borghesia altolocata di Torino viene descritta con profonda analisi psicologica dei protagonisti: il loro manierismo e i loro vizi vengono raccontati con toni vividi. Attorno ai personaggi principali ruotano numerose altre figure, delle più diverse estrazioni sociali.
Una lettura datata ma piacevolmente affrontabile. Lo stile ricco ma semplice racchiude una concatenazione di storie che pian piano confluiscono verso un legame comune per un finale tutt'altro che banale.
«Tutto allora cominciò a muoversi molto in fretta, o perlomeno fu questa la sensazione che, delle ultime ore di quel pomeriggio di giugno, il commissario avrebbe poi sempre conservato; di un gran correre, di un gran chiudersi e aprirsi di sportelli d'auto, di porte e di portoni, di armadi, di cassetti, di ascensori; e di un confuso coro di telefoni, citofoni, clacson, freni, gomme, e di parole, sue e altrui, fitte, pressanti, e subito disperse come pioggia sull'acqua, vane; e di lui non contento, non convinto, costretto all'urgenza, sospinto, fra soprassalti, elisioni, rigurgiti, verso il buio, non verso la luce, sempre più stanco e appesantito e infine rauco, tutta la sua concentrata fatica messa in dubbio, smentita, negata dallo scorcio di un palazzo illanguidito nella sera, da una piazza in pigra levitazione, da un viale inafferrabile nel pulviscolo, dalla morbidezza progressiva di tutta una città che il sole abbandonava via via al suo antico, struggente vizio crepuscolare.»
Insomma un perfetto tourbillon in cui, come in quegli orologi dove personaggi e situazioni ruotano mostrandosi solo ad una determinata ora, tutto si incastra alla perfezione; un vero bailamme di personaggi - per usare quell'intercalare frammisto di dialetto e francese caro all'élite torinese in cui è costretto a destreggiarsi il siciliano commissario Santamaria - dalla vittima, l'Architetto Garrone, all'americanista Bonetto, dalla ricca Anna Carla alle sorelle Tabusso, a Lello Riviero e Massimo Campi, in un'attenta rappresentazione di tutte le classi sociali con tutti i loro difetti (molto poche le virtù) e i sotterfugi misteriosi, gli intrallazzi, le verità "gridate piano"; in poche parole un vero Balùn (il mercatino delle pulci dove si svolge "l'atto finale" del romanzo); anzi no, un'autentica bagna càuda piemontese, cotta a fuoco lentissimo, tradizionale e snob allo stesso tempo. Un giallo sofisticato - quando uscì non pochi rammentarono "Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana" di Gadda, più che per lo stile per l'attenta radiografia sociale [cit. La Repubblica] e forse anche questa mia "non passione" per il Pasticciaccio, questo ricordo latente, ha contribuito al mio non grandissimo entusiasmo nei confronti di questo giallo atipico (ma non sono un po' tutti atipici questi gialli? In fondo, piccola divagazione sul tema, com'è un giallo tipico?) - molto sofisticato, (troppo sofisticato?). Talmente sofisticato che ogni tanto mi sono persa il giallo. Quattro stelle con riserva (un Barolo? :-)))
Inutile dire che anche la premiata ditta ha fatto un errore (nonostante le 5 stelle, la goduria di rileggerlo con a seguito la nostalgia di averlo finito e la voglia di ricominciare di nuovo): perchè l'assassino non è l'uomo della villotta nel Monferrato, il dandy anaffettivo e con il gusto del gioco di parole così antipatico da far rimpiangere, come un simpaticone, il pigmalione di Dorian Gray?
E insomma devo confessare che sono rimasto un filo deluso dal finale di questo romanzo, che mi ha lasciato talmente contrariato da negare la quarta stellina al libro. Sarà che sono convinto che un giallo non può reggere 550 pagine (troppe quelle dedicate al Balun, soprattutto perchè si capisce abbastanza presto a cosa porterà il vagare dei vari personaggi), sarà che alcune figure sono troppe scontate e forzate nella lora caratterizzazione finendo in macchiette (l'americanista Bonello, Sheila la turista USA), sarà che non apprezzo troppo la scrittura che si regge quasi tutta sui dialoghi e gli intrecci che si costruiscono solo sulle parole scambiate tra i personaggi, sarà che il Campi e la Dosso mi sono stati sui cosiddetti quasi immediatamente (figure simboliche di un antica torinesità che si porta dietro molte colpe che preferisce negare richiudendosi in una nostalgia troppo facile). E anche il commissario Santamaria, in cui il lettore è portato ad identifcarsi, finisce per stufare con una stucchevole malinconia e uno struggimento epico per una sciaquetta che non ha proprio molto di "straordinario".... Insomma, peccato perchè il duo degli autori sa scrivere alquanto bene e ha la capacità di tratteggiare con satira e ironia davvero notevoli: tante belle pagine dedicate alla città e molti personaggi di contorno indovinati e convicenti - ma forse il problema è con me e la mia difficoltà ad accordarmi con i meccanismi del giallo....
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Scriviamo a 3 mani. Così rispondevano i titolari della premiata ditta Fruttero&Lucentini, costituita sul finire degli anni 50, a chi chiedeva loro come lavorassero.
La coppia di mani apparteneva a Franco Lucentini: era lui a imperversare sui tasti della macchina da scrivere (sarà stata una Olivetti?); la terza mano era di Carlo Fruttero che invece scriveva vorticosamente sul bloc notes.
E la quarta mano? Dopo aver letto il romanzo, credo sia legittimo ipotizzare che Fruttero stringesse nel pugno sinistro il candelotto di dinamite che sarebbe esploso, nel 1972, tra la Torino "bene", alla pubblicazione del romanzo.
Torino, che nell'immaginario collettivo, è da sempre un'impeccabile e irreprensibile città sabauda, viene trasformata, dalla premiata coppia, in teatro di due efferati delitti e di implacabili investigazioni poliziesche. Notevole è poi che tali omicidi non si consumino tra bande di incalliti criminali ma in quello che gli autori definiscono "l'ambiente".
Ed è proprio qui, nella Torino che conta, che si scatena il divertimento del lettore a cui non pare vero di ficcare il naso nelle case dell'establishment, di respirarne l'aria, a tratti peraltro anche un po' insana.
Nella descrizione dell'ambiente, il duo concentra tutta la propria ironia:
" Perchè anche l'uomo più bello, più santo, più coraggioso del mondo, una poteva anche andarci a letto (...); ma se non sapeva stare a tavola, se appoggiava le posate ai lati del piatto come i remi di una barca, per esempio, bè c'era poco da fare, lei non sarebbe mai stata capace di vederlo sul serio come un suo simile. Erano questi, i veri pregiudizi di classe".
Sarà forse un caso ma i due anelli fragili del racconto gravitano affannosamnete intorno all'ambiente, senza però riuscire a diventare parte di quel tutto.
Sarà così per il viscido e arrivista Architetto Garrone, sui cui polsini lisi il duo indugia in più di un'occasione, ma anche per Lello, giovane impiegato del Comune:
Chiunque l'avrebbe scambiato per una normalissima checca. E invece c'era la solida, paziente, scrupolosa formica burocratica, l'eroico incassatore di umiliazioni, il patetico, immortale impiegato torinese di mezza tacca.
Detto in due parole: Lello reincarna Monsù Travet.
E quindi sì romanzo denso di dinamiche di classe ma anche di genere e non solo per la descrizione di uno stanco rapporto omessuale ma anche per il ritratto della donna, protagonista della storia, Anna Carla, la quale pensa a se stessa in questi termini:
Sono la moglie di un capitalista figlio di capitalisti e nipote di capitalisti (...) sono piena di abitudini e pregiudizi borghesi e priva di ogni coscienza sociale e politica.
Su tutti comunque trionfa la prima capitale d'Italia: Torino. Gli autori riescono a riassumere in poche ma efficaci righe, qualche secolo di storia:
Una doppia immagine di ordinaria noia, come se - aveva osservato una volta lo zio Emanuele - la dinastia dei Savoia, costruendo le sue piazze geometriche e i suoi viali ripetitivi, avesse intuito la dinastia degli Agnelli e presagito, con la tipica clairvoyance dei poveri di spirito, la continuità delle catene di montaggio Fiat: la grande tradizione del prevedibile.
Oggi la Fiat non esiste più e gli Agnelli sono impegnati in una incandescente resa dei conti che vede contrapposta la madre Margherita ai tre figli nati dal matrimonio con Elkann.
Torino intanto risplende di rinnovata e autentica bellezza, forse perchè libera di mostrare i suoi punti di forza: eleganza e cultura.
Dedicherei un'ultima considerazione al giallo. Avendone letti una certa quantità negli anni, posso dire che questo di Fruttero&Lucentini mi è parso ben costruito.
Eppure ho avuto l'impressione che, tra i meandri del Gran Balon, storico mercatino delle pulci, il racconto, fino a quel momento solido e leggero, abbia preso a sfilacciarsi, a perdere vivacità, per poi culminare nel solito e, per me insopportabile, pressing investigativo sul sospettato.
Anche in questo giallo quindi l'indiziato, messo spalle al muro dalla sequenza di indizi raccolti dagli encomiabili investigatori, e a dispetto di ogni garanzia processuale, finirà per ammettere i propri misfatti.
Questo cliché dei romanzi gialli, giunta all'età adulta, ha cominciato ad apparirmi francamente banale.
Mi auguravo che il romanzo di F&L potesse costituire anche sotto questo profilo un'encomiabile eccezione e invece il finale ha sortito il solo effetto di farmi odiare il Commissario Santamaria che avevo portato in palmo di mano fino a poco prima dell'epilogo.
Scoprire la possibilità di avere sullo scaffale dei classici moderni Mondadori Fruttero e Lucentini è stata per me una scoperta importante, perchè stiamo parlando nientemeno di due delle più grandi eminenze grigie della letteratura fantastica in Italia, almeno nel periodo che va dagli anni 70 agli anni 90. Eccellenti scrittori ma anche traduttori, giornalisti e soprattutto direttori della collana Urania per lunghi decenni (quelli della mia infanzia) ma molto molto di più, se alcune delle raccolte di romanzi fantastici più di successo in quegli anni portano la loro selezione ("Stella a 5 mondi" per dirne solo uno). "La donna della Domenica" era per me una occasione da non perdere.
Il risultato devo dire è stato abbastanza buono. I due scrittori piemontesi utilizzano in modo sapiente lo strumento della narrativa di genere (in questo caso il romanzo giallo) per portare avanti una analisi attenta, lucida e venata di sarcasmo della classe borghese nella Torino degli anni '70. E' la Torino che ha accolto i "terroni" dal sud per lavorare nelle fabbriche Fiat, quella che scopre lo smog di un traffico ventuplicato nelle città, quella della nuova ricchezza e di un consumismo feroce che generano fasce sempre nuove di classi medie ed ai quali la classe dirigente (sia quella aristocratica che quella dei ricchi dei vecchi tempi) non è preparata; finendo col rinchiudersi dietro ville dai muri sempre più alti.
E' pur vero che il ritratto è parziale (quelli sono anche gli anni del terrorismo rosso e nero, delle lotte sociali, del referendum sul divorzio, per dirne solo alcuni), ma anche ciò che manca pare sottolineare ancor di più lo snobistico allontanarsi dei vecchi e nuovi ricchi dal sozzume dell'età post boom economico. Leggendo mi sono reso conto che questo ritratto politico, economico e sociale è il vero obiettivo di questo libro, ma questo non vuol dire che il giallo non stia in piedi, anzi.
Anche se la prima parte del libro è piuttosto lenta, ad un certo punto la suspance aumenta e dalla metà in poi le pagine si girano a velocità turbinosa. L'intreccio è ben studiato e credibile, i personaggi molto ben definiti e non privi di una certa tridimensionalità, un certo tipo di clichè brilla per la sua assenza. In particolare la vittima, l'architetto Garrone, è un ritratto magistrale del fallito dei nostri tempi, che si arrovella nella frustrazione ai margini dell' Italia del successo ma anche dell' intrallazzo, della burocrazia appesantita, di tutto quello che conosciamo fin troppo bene.
Francamente non credo che "La donna della Domenica" sia un romanzo così tanto bello da poter essere inserito tra gli oscar classici moderni Mondadori (a voler pensare male proprio la posizione importante del duo nella casa editrice potrebbe avere avuto un ruolo): ma posso anche essere condizionato dalla aspettativa troppo alta nei confronti di una coppia di direttori editoriali che con le loro scelte avevano condizionato così tanto le mie letture adolescenziali. Resta vero che, a margine di un ritratto ben fatto ed a tratti divertente della borghesia torinese questo è anche un giallo ben scritto e godibile, un ottimo compromesso tra letteratura di genere e mainstream impegnato.
Un vero classico questo “manuale” del giallo all’italiana. Definirlo giallo, è riduttivo ovviamente perché è molto di più . Mi ha ricordato molto Balzac , la commedia umana, mi ha ricordato Dostoevsky per la precisione nel carpire la grettezza dell’essere umano e poi Torino . In effetti sembra essere Torino il vero oggetto di indagine, Torino non giustifica il delitto ma lo tiene a battesimo, la città viene analizzata in ogni suo aspetto in ogni suo mutamento ma lo sguardo è impietoso, duro e senza appello . Una speranza però c’è ed è L’immigrato siciliano, ispettore Santamaria che conosce bene Torino e questo gli darà la possibilità di fare giustizia, di trovare l’assassino dell’abietto arch. Garrone e del povero Riviera. Chapeau !!
"La donna della domenica" è uno di quei libri mitologici: ne hai sempre sentito parlare, ma mai nessuno che ti dicesse di che cosa tratta. Sì, ok, è un romanzo. Azzardiamo anche che tu abbia scoperto che è un giallo. Ma qualcuno ti ha detto che è un giallo, un ritratto di un mondo e di un'epoca, un'indagine psicologica, una storia d'amore e potrei andare avanti ore?
Come ultima lettura del 2020 e prima del 2021 non avrei potuto scegliere meglio. La scrittura a quattro mani di Fruttero e Lucentini è perfetta: 450 pagine in cui ogni parola è quella giusta al posto giusto. Non una di più né una di meno. Una specie di miracolo di perfezione.
I personaggi sono perfetti nei loro vizi o nelle loro specificità e, fino all'ultimo, non ho individuato l'assassino.
Penso seguirò ancora il commissario Santamaria, tra i portici di Torino e le sue campagne, nelle sue indagini.
"La donna della domenica" è una delle opere più celebri del duo Fruttero e Lucentini, un sodalizio letterario che ha lasciato un segno indelebile nella storia della letteratura italiana, a cavallo tra gli anni Settanta e Novanta.
Questo romanzo è molto più di un giallo: è anche uno spaccato di costume che offre vivaci e ironici ritratti della borghesia torinese. Le dinamiche interne a questa classe sociale vengono analizzate con finezza, sia nelle relazioni tra i suoi membri sia nei confronti di chi ne rimane ai margini. Emblematico, in questo senso, è il ruolo del commissario Santamaria, di origini meridionali, che giungerà alla soluzione del mistero grazie alla comprensione di un proverbio piemontese, simbolo di una cultura diversa dalla sua.
Oltre a essere un giallo avvincente, l’opera affronta numerosi temi sociali tipici dell’Italia degli anni Settanta. Tra questi spiccano le migrazioni interne, l’omosessualità (rappresentata dalla relazione tra Massimo e Lello), la burocrazia elefantiaca e la corruzione, fino alla crescita disordinata delle periferie urbane. Un quadro ricco e articolato che riflette le contraddizioni di un’epoca.
Ma chi è, dunque, la donna della domenica? Potrebbe essere Anna Carla Dosio, esponente dell’alta borghesia, moglie di un ricco industriale, bellissima e colta, verso cui il commissario Santamaria sembra provare un’irresistibile attrazione. Oppure si tratta di una delle sorelle Tabusso, anziane aristocratiche che vivono di rendita in una villa in collina? O forse la vera protagonista è Torino stessa, una città magistralmente descritta, tanto da farci immaginare di passeggiare per le sue ampie strade o di perderci nel Balun, luogo centrale per lo sviluppo della vicenda.
La narrazione si svolge in un arco temporale breve ma intenso: sei giorni, dal martedì alla domenica, scanditi dai capitoli che indicano il giorno della settimana e il momento della giornata in cui si dipanano gli eventi. I personaggi sono sempre ben delineati, con una profonda caratterizzazione psicologica, anche se talvolta questa può risultare leggermente eccessiva.
Nel complesso, "La donna della domenica" è un libro che merita di essere letto e assaporato pagina dopo pagina, immergendosi nei dettagli di una Torino regale e affascinante, resa viva dalla penna arguta e raffinata di Fruttero e Lucentini
Abandonado en la página 204 y tras haberlo abandonado ya una vez. Lo dejé congelado y este verano lo retomé desde el inicio, pero el resultado ha sido el mismo. Un coñazo de historia, mal contada, que se enrolla con chorradas y pijadas que le van sacando a uno de la historia del asesinato del arquitecto Garrone. Lo venderé por wallapop.
Y no vuelvo a leer nada de estos dos Pues hala. A cascarla ya "La mujer del domingo"
Capostipite del giallo italiano, dicono i critici e il loro codazzo. Può essere. Senza dubbio l'elemento c'è, tiene avvinto il lettore, lascia desta la curiosità fino alla fine e l'assassino non è il maggiordomo. Però la sensazione è che di questo substrato di genere agli autori non gliene sia importato un piffero. Il loro intento è dire, rappresentare, enucleare, descrivere, tutti scopi alias azioni che perseguono mirabilmente. Distanti ma non distaccati tratteggiano fisicamente ed emotivamente una città affascinante e sfaccettata, capace di destare stupore e profondo interesse anche in chi calpesta, si muove e osserva ogni giorno 28 secoli di umano, e spesso artisticamente altissimo, prodotto. Scevri dal dio giudizio lasciano parlare i loro personaggi, alcuni totalmente imbibiti di sé altri cautamente o apertamente accorti ed è per tramite di questi che noi, l'altra metà della cartacea mela, viviamo le loro vite, ne condividiamo i pensieri o ce ne allontaniamo, talvolta ci riconosciamo o individuiamo topoi nei quali ci siamo realmente imbattutti. Non affresco, non puzzle, non composizione ma empatica creatività che ripropone e insieme condivide (con noi) modi di essere, ideologie, appartenenze sociali muovendosi in maniera sottilmente trasversale, e cogliendo, attraverso questa scelta, gli aspetti anche fortemente ridicoli o inani, ovvero la bellezza di "categorie" altrimenti osannate o vituperate. L'alta borghesia non viene cristallizzata nei suoi cliché, i kommunisti, diciamocelo, hanno un che di grottesco, parimenti i nordici di prima generazione ma pure quelli di lunga pezza.
Uno fra gli elementi più sapidi del romanzo è il dialogo, sottile, intelligente, fortemente comico, in dati punti, e assolutamente mimetico. (Il travet è molto più fantozziano di Fantozzi, senza avere però, la insopportabile stolidità di quest'ultimo.)
Attraverso le vie di una ex-capitale si muove l'umanità tutta, suddivisa, ma non drasticamente, in classi sociali e radici culturali. Ed è un movimento accattivante nel senso pieno del termine. Gli intenti sociologici restano nell'occhio di chi sfoglia le pagine: una mera etichetta. Toccante Bonetto: lui dipingendo si cassa un'intera - insopportabile, vacua e del tutto inutile - categoria.
Infine, nota personale, è ammirevole l'uso della lingua. Un italiano che risente solo in minima parte il trascorrere del tempo e sa modularsi su figure, luoghi e situazioni con una leggerezza ed una semplicità stupefacenti, indice di grande sapienza compositiva.
Uno dei libri migliori della seconda metà del XX secolo.
Romanzo ben noto e apprezzato, capostipite del poliziesco all'italiana di cui è tuttora uno degli esempi più illustri. Il segreto del suo successo sta nel fatto che è molto più di un giallo, è un romanzo di costume e una satira arguta e sottile sulla "Torino bene" dei primi anni '70, quando il provincialismo elitario della borghesia cominciava a fare i conti con la modernità. Facciamo la conoscenza di un variegato sottobosco di personaggi: dalla moglie di industriale snob e annoiata all'impiegatuccio con vaghe aspirazioni culturali, passando per figli di papà, intellettuali frustrati e traffichini; tutti messi alla berlina ma mai con cattiveria, anzi con una sorta di ironia bonaria e comprensiva che dà il tono a tutto il romanzo. E' inevitabile che la trama gialla si perda fra un appuntamento dal parrucchiere e un giro fra le colline del Monferrato e ci sono momenti in cui viene da chiedersi se gli autori per caso non se ne siano dimenticati: per fortuna però alla fine tutti i nodi vengono al pettine e ci accorgiamo che dietro le chiacchiere oziose e le scenette pittoresche c'è un impianto narrativo solidissimo, che porta ad una soluzione inaspettata ma logicamente ineccepibile. Libro brillante, solo un po' dispersivo all'inizio ma poi si riprende bene e si legge con grande piacevolezza.
Capolavoro. Come già A che punto è la notte? , siamo di fronte a un pezzo di bravura sotto più aspetti. Letterario, perché non c'è riflessione o tratteggio dei personaggi che sia banale; narrativo, perché il duo Fruttero-Lucentini avrebbe molto da insegnare agli autori di bestseller moderni; sociologico, perché descrive (senza affermare nulla, solo lasciando intendere) meglio di un saggio una città industriale italiana di inizio anni '70 e la sua classe borghese.
Il duo Fruttero&Lucentini si conferma una coppia di cesellatori formidabili&romanzieri sopraffini. Una classe che raramente mi è capitato di leggere. Mi dicono che il resto della produzione non sia paragonabile ai due libri che ho letto - quelli con praotagonista l'ineffabile commissario Santamaria per intenderci: in attesa di comprova, applaudo ringrazio e porto a casa. Pura libidine letteraria!
Bellissimo romanzo definito non a caso il "capostipite del giallo italiano". Ambientato nella Torino degli anni '70 ne diventa lo spaccato di una società multiforme e straordinariamente vera. Ho amato i personaggi, splendidi, ben caratterizzati, incisivi, indimenticabili. Quasi un romanzo di costume, non un semplice poliziesco. Linguaggio raffinato, elegante, ironico. Dialoghi straordinari in una lingua perfetta. Un gioiello che merita di essere apprezzato molto di più. Lo consiglio a tutti.
Non si tratta solo di un giallo, ma anche di una rappresentazione della classe borghese della Torino degli anni '70. Un romanzo che consiglio, anche grazie a uno stile corale e umoristico che rende la lettura scorrevole.
Avete presente quei libri che pensate con convinzione di avere letto e che di conseguenza scartate sempre tra i possibili acquisti salvo scoprire che no, avete visto il film, ne avete sentito parlare cento volte ma letto proprio no? Ecco, il problema di chi legge tanto e parla tanto di libri è il rischio di lasciarsi scappare delle autentiche perle per pura e semplice mancanza di umiltà.
La donna della domenica è una perla, decisamente. Anche se avete visto il film del 1975 con Marcello Mastroianni, anche se avete sentito parlare fino alla nausea del miglior duo narrativo che l’Italia abbia avuto, leggetelo!
Certo, se siete torinesi avete una chance in più di amarlo. Perché la società descritta, nei suoi alti e bassi e negli infiniti medi, è assolutamente realistica. Perché ci ritroverete un grande amore e soprattutto una grande comprensione di questa città e dei suoi segreti, che tanto nascosti poi non sono. Basta un giro per certi viali per ritrovare la stessa sensazione provata dal commissario Santamaria: sì, c’è decisamente lugubre e lugubre e i viali torinsei sanno essere lugubri in un modo tutto speciale.
Fruttero e Lucentini hanno saputo sviluppare un romanzo di una finezza che realmente lascia di sasso se paragonata a tanta sciattezza contemporanea. E non si tratta di un nostalgico amore per il come eravamo. Perché siamo ancora, in parte, torinesi e non, così come ci dipingono. E perché la lingua e lo stile del racconto non hanno nulla di desueto.
Voglio ringraziare Milvana, che non è neanche torinese :-), per avermi regalato questo libro e per averlo riscoperto grazie alla sua onnivora curiosità.