«Scrivere, per quanto atto privo di speranza, o forse proprio per questo, significa aver fede». L'ultima opera a cui Vitaliano Trevisan stava lavorando, inviata all'Einaudi qualche mese prima di morire. Nella sua brutale, lancinante verità, è forse quella che gli assomiglia di più: interrotta ma non incompiuta.
Vitaliano Trevisan (1960–2022) è stato uno scrittore, attore, drammaturgo, regista teatrale, librettista, sceneggiatore e saggista italiano. Dopo una giovinezza trascorsa come impiegato nel settore edilizio e dell'arredamento, si dedica a lavori più manuali fino ad approdare alla letteratura. Dopo alcune prove letterarie di buona levatura, raggiunge il successo nazionale e la notorietà nel 2002 con il romanzo I quindicimila passi, apprezzato dalla critica, che racchiude i pensieri di un uomo, Thomas, dalle mille fobie e dai meccanici comportamenti ossessivo-compulsivi. È morto suicida il 7 gennaio 2022 nella sua casa di Crespadoro all'età di 61 anni.
Non credo in dio, ma credo nel peccato, imperdonabile, di essere venuto al mondo..
Terzo incontro con la letteratura di Vitaliano Trevisan, terzo stupore e meraviglia, terzo cinque stelle. Il tutto nel giro di una manciata di settimane, neppure un mese. Ho trovato che la sua voce mi parli in modo particolarmente diretto, che scriva a me, di me e per me. Che racconti cose vere e cose inventate facendo apparire tutto autentico, credibile, verosimile, più vero del vero. Che mischi autobiografia, autofiction, memoir, narrativa, finzione, accenni di saggistica, in un unicum personale originale e geniale, per me avvincente come e più di un crime serrato e senza scampo.
Bronzo a forma di conchiglia del IX secolo.
Un paio di aspetti che finora ho trascurato in queste mie note. Il primo: la sua ironia. Trevisan è divertente, spiritoso, nel suo gelo e nella sua glacialità fa ridere e sorridere. Viene in mente il più classico e il miglior humour inglese, quello di marca british 100%. e viene anche in mente Buster Keaton.
Il secondo: le note. Numerose (centotrenta in duecentotrenta pagine), a volte anche lunghe, si estendono da una pagina all’altra. Sono integrazione e chiarimento del testo, ma anche storia e spazio a sé, quello dove parte più libera e spigliata l’ironia di Trevisan. Impossibile non pensare a DFW: in entrambi la nota diventa momento chicca, se non c’è, se ne sente la mancanza. Più che di “note al testo”, data la natura non-prospettica dello scritto in oggetto, si tratta di ‘scorci’ sul e nel testo, ovvero di figure: figure di parole, di corpi, a volte anche di paesaggi, e addirittura, là dove ci ha fatto e ci farà comodo, rese secondo le regole della prospettiva…Le note sono scorci…
Il terzo: i riferimenti culturali. Ampi, diversi, inaspettati, Trevisan leggeva studiava annotava memorizzava una quantità di letture impressionante, e, appunto, vaste e diverse. Una cultura che colpisce in modo particolare e viene da chiedersi formata come e quando, considerato l’ambiente familiare, gli studi, la quantità impressionante di lavori (e, tanti manuali) svolti, la quantità ancora più impressionante di ore dedicate a quei lavori, le infinite ed eterne camminate (a itinerario concentrico), il tempo trascorso sulla moto, e insieme ad amici conoscenti gente in genere.
Vaso di bronzo del IX secolo.
E anche questa volta – forse questa volta perfino di più – da non trascurare il fatto che Black Tulips è uscito postumo, è l’ultimo parto di Trevisan prima della morte – lo aveva mandato all’editore, e come costume, l’editing non era previsto, il testo sarebbe rimasto così, a meno di successivi interventi dello stesso Trevisan – ma se l’editing era già assolto, non altrettanto si direbbe della lunghezza, perché si interrompe all’improvviso quasi monco di finale, incompleto, e m’ha spezzato il cuore - questa volta, e forse sempre, ma questa volta in modo più marcato, sembra un testo parlato e non scritto, per quanto come sempre curatissimo, dal lessico alla sintassi alla punteggiatura, ma ha un suono e un sapore e un’impronta colloquiale. Cominciando dagli improvvisi ripensamenti, dai ritorni indietro, dai repentini accostamenti e scarti, che appartengono più al parlato che allo scritto. Del resto, scrivo, parlo, e parlo come scrivo, o scrivo come parlo – cosa venga prima non mi è chiaro.
Maschera d’avorio di regina, dal Benin.
Il cuore del libro pulsa intorno a un viaggio in Nigeria che risale a una ventina d’anni prima della pubblicazione. Viaggio anomalo in sé in quanto di tipo semi turistico: e tutte le guide sconsigliano il turismo in Nigeria, paese dove non si va a fare turismo se non si vuole fare una brutta fine. Ma in effetti lo scopo del viaggio era turistico solo in parte: Trevisan progettava un traffico di parti di ricambio, tutto usato, e quindi probabilmente rubato, con un partner locale: Se Rimbaud trafficava in armi, scrive, io venderò pezzi di ricambio. Il commercio non viene però mai avviato. Ma forse il vero scopo del viaggio era la promessa fatta - o la sfida raccolta – ad Ade, diminutivo di Adesuwa, in arte Jessica, cioè Juliette, giovane emigrata nigeriana in quel di Vicenza che il nostro conosce nelle sue peregrinazioni notturne in cerca di avventure e poligamia mentre lei, Ade, esercita la sua professione per strada. Professione che nel giro di due o tre anni, forse quattro, dovrebbe consentirle di pagare i debiti (trentamila euro per chi le ha agevolato il viaggio e l’inserimento), mandare qualcosa a casa e risparmiare per aprire una sua attività, di solito parrucchiera. Trevisan e le prostitute, Trevisan e il sesso, Trevisan e l’amore, ma Trevisan in generale e in toto vale la pena di leggerselo in proprio.
La Mercedes-Benz 230.6 sulla quale fu assassinato il generale Murtala Muhammad. Questo e gli altri oggetti che si vedono qui sono esposti al Museo Nazionale della Nigeria di Lagos.
L'ho letto con un gran senso di tristezza, ben sapendo che sarebbe stato l'ultimo. Si è ammazzato da poco, e si sa, l'autore morto vende.
Leggere Trevisan è sempre un'esperienza straniante, partendo dai racconti della sua vita - questa volta è uno strampalato viaggio in Nigeria al seguito di una prostituta conosciuta a Vicenza per tentare di mettere su un business di pezzi di ricambio per auto (!)- per poi terminare dentro la sua testa dove i processi mentali sono finissimi e, a tratti, sconvolgenti. Accompagnati dalla sua scrittura gelida, tagliente e affilata (i suoi maestri sono Beckett e Bernhard) si finisce per entrare dentro un mondo lontanissimo e pieno di citazioni (le note sono una buona parte del libro) dove si scopre che questo uomo coltissimo aveva letto davvero di tutto, a avrebbe voluto scrivere di tutto, compreso un saggio sull'estinzione dei cessi pubblici.
Come al solito, a termine dei suoi libri, rimane un senso di amarezza e di solitudine e, oggi, ancora i più. Dovete essere amante della sua scrittura per apprezzare questi frammenti, saggi, storie, note, chiamatele come vi pare, ma credo riassumano perfettamente la vita e il lavoro di quest'uomo. Non credo avesse voluto scrivere una sorta di testamento, figuriamoci se gli passava in testa una cosa del genere, ma quello che rimane di lui in queste parole è molto e sono certa che leggere una frase così non avrebbe fatto altro che farlo incazzare e tirare due bestemmie.
Partire per la Nigeria con la stramba intenzione di mettere in piedi un traffico di parti di ricambio per auto vintage, continuare a chiedersi cosa ci si è davvero andati a fare, subire l’impossibilità di rendersi invisibile. Spostarsi tra Lagos, dove c’è la più grande baraccopoli sull’acqua del mondo, e Benin City, con le idee sempre meno chiare, tenendo conto che ogni viaggio comporta dei rischi che non è possibile anticipare. Romanzo-saggio sulla prostituzione e resoconto di viaggio, frantumato in 53 micro capitoli costellati di note a piè pagina. In una nota sulle note Trevisan avverte che data la natura non-prospettica dello scritto in oggetto, si tratta di scorci sul e nel testo. Poco sotto, in una nota a questa nota sulle note: Le note sono scorci ma continueranno a chiamarsi note. Labirintico. Già l’incipit è di quelli magnetici: Saltiamo a piè pari tutta la questione fisica, l’aria che ti avvolge, la sua consistenza quasi solida, gli odori eccetera; e via anche i colori, e sopra tutti via il colore. Al soggetto si addice il Bianco e Nero. È complesso leggere così e ora la miriade di riferimenti al suo male oscuro: Fossi a casa, preparerei la mia borsa, con giusto lo stretto necessario, prenderei il bus e mi presenterei in Psichiatria 2. Dentro c’è il disagio di andare a farsi cagare in testa (cit. Bernhard) ai premi letterari; il camminare lungo le statali; il lavoro come portiere di notte e la difficoltà di dormire; la solitudine che lo porta a girare in auto di notte nel quadrilatero del degrado vicentino alla ricerca di compagnia, che poi è un modo per tenere a bada la disperazione; gli amici del vecchio giro persi per strada, morti di eroina o sposati col lavoro fisso e il mutuo da pagare, in entrambi i casi fuori dai giochi; il peso di essere continuamente giudicati; la vergogna che si aggiunge all’angoscia per l’incapacità di nascondere i tremolii alle mani e alla testa, perchè, ci piaccia oppure no, ciò che siamo ha molto piú a che fare con ciò che gli altri presumono in noi di quanto siamo disposti ad ammettere. Ha una quantità di momenti da sottolineare e stamparsi in testa che fa spavento. Datemi più libri grezzi, non finiti, con vicoli ciechi e capitoli ancora ridotti al caos. Più che la pagina lavata con l’ammorbidente è interessante la fatica per arrivarci. Trevisan l’isolato, il tormentato, l’estremo. Ancora una volta, uno standard.
[80/100]
∞ Scrivere, per quanto atto privo di speranza, o forse proprio per questo, significa aver fede. ∞ Mi ha sempre fatto male alla testa sforzarmi di pensare in prospettiva; e se per un lungo periodo mi sono ostinato nello sforzo di pensarmi in prospettiva, con conseguenze disastrose, per me stesso e per gli altri, in tutti gli ambiti della mia prima vita, era perché, come piú o meno tutti, ero costretto a pensare tutto, e in particolare me stesso, in prospettiva. ∞ Certe parole, non si sa come, restano in mente per sempre. ∞ Mentre scrivo mi sento stupido, stupido. Ma come potevo sapere allora ciò che so ora? Ammesso di saperne davvero qualcosa. Riempiamo dunque anche questa pausa – in scrittura come in musica, 4mn e 33sec a parte1, lunghe pause non scritte non sono di fatto possibili. ∞ Decidiamo di farci un giro in centro. It’s saturday, dice, We must b happy! E per quanto il centro in questione fosse quello di Rovigo, fu comunque un bel pomeriggio. ∞ Cioè so di essere italiano, e veneto, e vicentino di Cavazzale, via Dante, de qua de’e sbare; ma, a parte questo, definire la questione nel particolare è sempre stato qualcosa di superiore alle mie forze. ∞ Sono contro ogni tipo di rapporto legalizzato, e l’ho sempre saputo. Non fosse cosí, questo libro non esisterebbe. ∞ Sono sempre stato io quello che sta in silenzio e se non ha niente da dire non dice niente; poi, quando finalmente trovo qualcuna che fa quello che non solo ho sempre fatto, ma ho sempre anche imputato agli altri, e specialmente alle altre, di non saper fare, ecco che mi innervosisco! ∞ Che cazzo soi vegnú fin qua fare? Me’o disito che casso che so’ vegnú fare, dio c**? ∞ Cambiato un po’ di dollari. Non oggi. Appena arrivato, a dire il vero. Detto nulla, scritto nulla. Ma se scrivessi tutto mai arriverei alla fine. Che arriva comunque, per me, per tutti. Fredda buia fossa. ∞ Ballando non rido. Ho gli occhi chiusi, la mano destra sul cuore, la sinistra a mezz’aria, le gambe larghe, le ginocchia leggermente piegate. Sembro molto serio, concentrato, e insieme fluido, leggero. E infine una foto che mi ritrae solo, sul bagnasciuga, di nuovo con gli occhi chiusi, le braccia aperte, la camicia bianca svolazzante, mentre mi godo quel vento prezioso. ∞ Dimenticavo: in una città che non dorme, quale è Lagos, non si può pretendere di dormire se non a frammenti, quando capita, un po’ di notte, un po’ di giorno, quando se ne offre l’occasione. Come a casa, visto che faccio il portiere notturno, solo che qui, acusticamente parlando, la notte è come il giorno, o almeno tutti si comportano come se lo fosse e nessuno trova niente da ridire.
Ho amato Works, nonostante una lieve antipatia per l’autore, e mi sono tuffata dentro Black Tulips con grandi aspettative. Anche il tema del viaggio in Nigeria mi attraeva molto. Nel complesso sono stata piuttosto delusa. Works è sostanzioso, per via del tema; Black Tulips è inconsistente. Il libro (ancora una volta non un romanzo ma uno scritto autobiografico) assume la bizzarra forma di un saggio, pieno di note, riferimenti, citazioni. Come se l’autore pensasse che i suoi pensieri e le sue impressioni siano così importanti da farne lui stesso, ancor prima che un ricercatore si metta all’opera, materia di studio. E senza ironia! La scrittura è sempre coinvolgente, anche se a tratti fastidiosamente saccente. Le impressioni sull’Africa, in generale, sono interessanti, anche se non molto originali. Ma quello che veramente ho trovato difficile da digerire è l’apologia della prostituzione, che occupa quasi metà del libro: uno di quei temi, forse addirittura l’unico tema, su cui uomini e donne non potranno mai trovarsi d’accordo. Trevisan è sempre stato problematico nei suoi rapporti con le donne (che si ostina a chiamare sempre femmine) e, secondo me, puerile nel concetto di virilità: puerilità che raggiunge l’apice nell’episodio degli okada-boys, laddove l’autore (quarantenne) si comporta come uno stupido galletto attaccabrighe di banda di periferia. E allora la sua indubbia intelligenza, la sua maturità, la sua cultura, appassionatamente conquistata in una vita vissuta in ambienti alieni se non ostili alla cultura, tutto sembra ridursi in cenere e torna a palesarsi il proletario, analfabeta, becero, e fiero d’esser tale. Un uomo pieno di contraddizioni, Trevisan, che sarebbe facile amare come autore, se non fosse stato una così difficile (e non in senso elogiativo, come si dice scomodo) persona, e spesso anche compiaciuto di esserlo.
Piacere di averti conosciuto, mi disse la giornalista, anche se lo sguardo, dritto nei miei occhi, con cui accompagnò il saluto di circostanza, diceva tutt’altro. Fuck u very much, bitch. È quel che mi sarebbe piaciuto rispondere (troppi telefilm americani). Nella realtà mi uscí un piú formale My pleasure, detto col mio miglior sorriso da schiaffi – che sia da schiaffi lo so per certo fin da bambino, periodo in cui ne sperimentai l’efficacia, con successo, prima a casa, con mia madre e mia sorella, poi a scuola con maestri, ma soprattutto maestre, e in colonia con suore come si chiamavano allora le sorveglianti; perché c’è poco da fare: funziona meglio con le femmine che coi maschi.
Il primo libro che leggo di questo autore è un libro postumo, e già questo è un po’ straniante. Altra cosa straniante è che è ambientato in Nigeria, un Paese in cui anch’io ho ambientato un mio libro, peraltro non ancora uscito. Della Nigeria non si parla, mi sono sentito dire; quantomeno, non in Italia. Trevisan è stato coraggioso. E mi dispiace averlo scoperto tardi. È un bel libro, questo; ma anche un libro che trasuda una tristezza infinita. Come se la fine del suo autore aleggiasse su ogni sua pagina. Spero che ora possa riposare in pace.
"Una cosa è certa: ci piaccia oppure no, ciò che siamo ha molto più a che fare con ciò che gli altri presumono in noi di quanto siamo disposti ad ammettere. Ricordarsene ci aiuterà a raccontare la storia che gli altri vogliono sentirsi raccontare, il che è sempre un buon inizio, se si vuole portare a casa qualcosa. Vale anche in senso inverso. Se la storia che ci viene raccontata è quella che ci aspettiamo di sentire, e, pur variando il soggetto, è sempre più o meno la stessa, dubitare. Certo, quando si tratta di umani, dubitare sempre; ma in questo mondo in bianco e nero, dove a ogni passo si rischia di inciampare in un pregiudizio, negativo o positivo che sia, dubitare anche di più. (p. 92)
"Se il gregge è umano, ogni pecora pensa di pensare con sua propria testa." (p. 157)
Leggere Trevisan è sempre appagante, ma qui c'è parecchia tristezza poiché questo è il suo ultimo libro... e lui, preveggente, mentre racconta un’esperienza in terra d'Africa, a pag. 153-154 ci mette pure un passo sulla sua dipartita, purtroppo vicinissima: "Se scrivessi tutto mai arriverei alla fine. Che arriva comunque, per me, per tutti. Fredda buia fossa. Non detto, magari vivissima intensa fiamma, in molti preferiscono. Non io (in negativo odiatissimo pronome sempre posso dire e per ultima volta e per sempre sia detto), non io preferirei lenzuolo, e in mare, anche senza lenzuolo. Ma mare non io rarissimamente. Montagna sempre. O altro luogo abbandonato - montagna non abbandonata non frequento. Sempre no, ma spesso. Dunque scomparire, disperso il tempo necessario ai selvatici, e i resti digeriti da bosco, foresta, friche, quel che sia, ma non uomini, umani no, umani stanco in vita, da morto lasciato in pace vorrei essere lasciato non essere. In pace."
«Questo libro avrebbe potuto scriverlo solo lui». Ecco, sarà di sicuro una frase fatta, e lo stesso Vitaliano Trevisan non l’avrebbe gradita; ma è stata la prima a venirmi in mente dopo aver letto le prime righe di Black Tulips; un’opera postuma, però non esattamente un testamento. Lo scrittore vicentino l’ha inviata all’editore in questa forma frammentaria, forse per restituire al lettore un senso d’incompiutezza, come fosse una sorta di non-finito michelangiolesco. Chi ha familiarità con gli altri libri dell’autore, uno dei massimi esponenti della letteratura italiana ultimi trent’anni, ritroverà qui la sua voce tagliente, il suo periodare ampio e al tempo stesso zoppicante, con Beckett e Bernhard a far da numi tutelari, scandito da un tempo jazzistico fuor di metronomo – Trevisan, oltreché autore e regista teatrale, attore per il cinema e la tivù, era anche un batterista, come ricorda peraltro anche in queste pagine. Sono pagine che potrebbero sembrare un’appendice di Works (2016), indimenticabile memoir sulla sua vita lavorativa, sebbene il nucleo del testo ruoti attorno a un viaggio in Nigeria intrapreso col pretesto di metter su un commercio di pezzi di ricambio per auto usate.
A condurlo in uno dei paesi africani più martoriati dall’occidente sarà una prostituta autoctona conosciuta in Italia e in seguito rimpatriata. Lui la ritroverà al suo arrivo, e gli farà da guida attraverso strade dove il diverso sarà lui: in Nigeria i bianchi son pochi, quasi nessuno, e sarà quindi il narratore a ritrovarsi additato come diverso. Questi capitoli vengono intervallati da altri antecedenti al viaggio: lui fa il portiere di notte in un hotel, uno degli ultimi lavori della sua prima vita (la seconda è naturalmente quella da scrittore), e in preda all’insonnia vaga per le periferie venete avvicinandosi alle prostitute nigeriane sia come cliente, sia in qualità di aiutante, di amico e confidente. Grazie a loro entrerà in contatto con una cultura ignota ai più: complessa, ricca di sfumature, ingiustizie e differenze insite anche nella variegata etnia nigeriana.
Nel racconto e nelle digressioni, tipiche di un uomo che non si sottrae dallo spaccare il capello in quattro e dal rivendicare idiosincrasie e idee all’apparenza controverse ma quantomai lucide; il tutto senza rimarcare uno status di pensatore controcorrente: del resto, chi lo è davvero non ne ha bisogno. Niente è poi lasciato al caso: a dimostrare l’approfondimento dedicato al tema centrale di Black Tulips c’è un ricco apparato bibliografico – parecchie sono infatti le note a piè di pagina –, lì a sottolineare che, tra gli ultimi, ci sarà sempre chi è più ultimo di un altro. Per capirlo servono le letture, ma pure l’esperienza diretta. E qui non mancano nessuna delle due. A mancarci sarà invece Vitaliano Trevisan che, ovunque si trovi, ci starà come minimo mandando a quel paese.
Una storia di irriducibile distanza e diversità e, nonostante essa, della ricerca di prossimità e conforto, inseguendo idee irrealizzabili e confrontandole con quelle di altri esclusi e distanti. C'è tanto in questo libro frammentato e senza conclusione, c'è il racconto di sé senza veli, c'è lo sguardo non ipocrita sulla prostituzione, sulle differenze di genere e di cultura, c'è la critica di un mondo post-colonialista che continua a generare oppressioni e povertà, c'è il lavoro su un linguaggio misto, spurio, a volte un po' frammento/appunto e un po' "rotto" (come il broken english di molti passaggi), c'è anche tutto quel che s'intuisce manca fra un frammento e l'altro e pure si può immaginare, così come la possibile opera futura di Trevisan che purtroppo non ci sarà.
Un altro libro di Vitaliano Trevisan, uscito postumo.
Si tratta del racconto di un suo viaggio in Nigeria, invitato da una sua amica che, come molte altre, lavora, per così dire, “lungo i viali”. Il testo è inframmezzato, secondo il classico stile non lineare dell’autore, di ricordi personali, considerazioni e riflessioni sulla società in cui si è trovato a vivere, sui ruoli sessuali e una morale che manda in mezzo alla strada torme di donne, di preferenza extracomunitarie, criminalizzando sia loro che i loro clienti.
Non per fare il moralista pure io, ma è un mondo che non mi appartiene. Anche se, come spiega lui, non è affatto vero che queste donne siano sistematicamente schiavizzate, non ho mai capito quale fosse la bellezza di comprare un sesso mercenario in situazioni approssimative e disagiate, con gente che lo fa con te e senza soluzioni di continuità con molti altri, prima e dopo. Altra cosa sono le storie raccontate da Belle de Jour in “memorie di una squillo perbene”, ma sono ambiti in cui evidentemente ricchezza e successo consente anche comodità, scelta e piacere.
Invece evidentemente Trevisan, che aveva una certa attitudine per gli ambienti marginali (ad es. anche droga e tossicodipendenze varie) ci sguazzava alla grande (e tra l’altro vengono dichiarati anche altri aspetti della sua vita che “Works” lasciava solo intuire, tipo una certa frequentazione delle strutture psichiatriche e una fase omosessuale della sua vita, confinata peraltro e messa tra parentesi nel periodo giovanile - non so se sia il caso ma ho conosciuto anch’io uomini che ebbero nella loro adolescenza episodi di omosessualità più per necessità che per caso - detto in breve, se hai urgenza di sesso e lo chiedi a un uomo (ovviamente gay) difficilmente verrai mandato a stendere con frasi tipo “ti voglio bene ma non ti amo” o “ti vedo come un amico”).
Tornando a Trevisan, nel suo viaggio c’è tutto quello che ci si aspetta: povertà, caos e disordine a tutti i livelli, a cominciare da quello stradale; servizi pubblici che sono piuttosto disservizi; prepotenza poliziesca e corruzione degli impiegati pubblici; approssimazione su tutto, a cominciare dal rispetto di impegni e appuntamenti; un mondo che non si ferma mai, nemmeno di notte e sotto il caldo più atroce; e inquinamento a tutti i livelli. Lui era andato in Nigeria con l’idea di mettere in piedi un traffico di pezzi di ricambio usati per auto (come al solito, uno dei suoi millemila progetti lavorativi) ma non è dato sapere se e come la cosa abbia avuto un seguito, visto che il libro è incompiuto. Curiosamente, pare che lo avesse consegnato in casa editrice prima che fosse finito, forse quando già meditava di suicidarsi (cosa che comunque non era una novità visto che già in Works qualche riflessione sul por fine volontariamente alla sua vita c’era), per evitare che restasse in un cassetto e poi buttato via.
Se Works può essere considerata l’Eneide di Trevisan, questa inconclusa opera postuma corrisponde paradossalmente alle sue Georgiche. Tanto diverso è il ritmo e profonda, al tempo stesso, la continuità di stile; il frammento si fa qui scelta e la scelta finale dell’autore di non concludere, proprio mentre concludeva altro, appare come la drammatica continuità della vita con l’arte. La storia è inutile o fragile, se vogliamo. La Nigeria fuori e dentro Lagos, potremmo dire, ovvero di come le frequentazioni venete del mondo della prostituzione nigeriana si riverberino in un viaggio tra Lagos e Benin, nel corso del quale dovrebbe essere avviato un commercio di pezzi di ricambio, anche se di questi pezzi non si dice praticamente nulla. Trevisan dice invece che anche Saïd può sbagliare, che ci sono prospettive rosee che impongono ancora una volta di sapere andare oltre la propria cultura. Il suo resoconto ricorda molto i meravigliosi reportage di Kapuściński, non a caso citato dall’autore, per la capacità di ribaltare anche gli apparenti aggiornamenti delle idee ricevute. Il genere, per esempio. Come storici, si rimane ammaliati dalla capacità di offrire una documentazione della storia locale e delle condizioni delle donne tra XIX e XXI secolo sempre accurata, tra bibliografia, confronto con fonti locali orali, esplorazione anche della pluralità delle prospettive emiche (le prostitute in Italia dicono una Nigeria che a volte è quella vivibile da un oyibo, cioè un occidentale, più spesso no). I tulipani neri ci consegnano il ricordo di uno studioso fattosi scrittore e uomo con quotidiana meticolosità. Non può essere un caso che, tra tante opzioni, Hölderlin sia citato nella traduzione di Reitani. Siamo anche inevitabilmente le traduzioni che sappiamo privilegiare.
Nel mondo dell’arte, che si parli di film, quadri, sculture, fotografia, musica o libri, esistono opere di cui è difficile non solo farsi un’idea precisa, ma anche riuscire a trasferirne a qualcun altro, l’entusiasmo o lo scetticismo che innescano in noi, qual ora la nostra intenzione sia quella di condividerne gli effetti. Quasi mai è l’autore di un’opera a doversi preoccupare, a mio avviso, di cosa e quanto chi osserva, legge o ascolta, arrivi a capire esattamente chi era nel momento in cui quel qualcosa l’ha creato. Specie se chi, il suo rapporto con l’arte, l’ha svincolato da pretese di unanimi consensi o vive in maniera pacifica – beato lui – i detrattori che seppur non bene, parlano di ciò che fa. Colui che mi ha ispirato queste riflessioni, perché incarna in tutto e per tutto il caso di chi vive (e in questo caso scrive) per sé, è lo scrittore vicentino Vitaliano Trevisan, che con il suo ultimo libro postumo “Black Tulips”, dà vita ad una serie di racconti in cui ci si ritrova coinvolti, e spesso persi, in un labirinto di numerose note che non sono delle note al testo ma “scorci su e nel testo, ovvero di figure: figure di parole, di corpi e anche di paesaggi”, apparentemente scollegate tra loro, ma che sono rese di irresistibile interesse e richiamo, grazie ad una scrittura libera, attuale e di denuncia verso realtà considerate lontane, ma che lui ha vissuto avendo in dote il dono di non giudicare nulla di ciò di cui si è fatto testimone, e con questo libro, portavoce. Continua, leggi su : https://librangolo.altervista.org/bla...
Non lo avrei pubblicato, non così. Ma parlo da uno che considera Trevisan il migliore scrittore italiano degli ultimi 30 anni almeno. E parlo da uno che considera Works il più grande romanzo italiano degli ultimi 30 anni.
Ma questo non lo avrei pubblicato. Incompleto e con una seconda parte che sembra poco più di una bozza. Se non avete letto nulla di Trevisan, non iniziate da qui. Da qualsiasi altra parte ma non da qui.
Trevisan, la Nigeria e le donne che lavorano come prostitute in Italia. Un racconto che restituisce, almeno in parte, la complessità di fenomeni storici (colonialismo), sociali (sex work) e culturali. Difficile, talvolta, seguire Trevisan nei contorti giri di parole con i quali ripercorre il filo dei suoi pensieri.
Ho conosciuto Trevisan con Works ed è stato amore. Una scrittura che ti scava dentro, puoi non essere d'accordo, puoi anche non sopportarlo, ma restare indifferente no Periodi lunghissimi che sfiniscono e che ti lasciano un tarlo
Trevisan è pur sempre Trevisan. Non è il capolavoro che è Works, e gli ho preferito tra le prose brevi Il Ponte: un crollo, ma resta un libro notevolissimo per quella voce, tipicamente sua, e quello sguardo sulle cose sempre così riconoscibile
Una stella in meno perché incompleto (ancorché comunque "vero libro"), ma comunque bello e ottima navicella accessoria all'astronave-madre dello straordinario "Works".
"Sottile è anche la linea che separa disperazione e felicità. O forse, proprio quando si è disperati si riesce davvero ad approfittare dei quei momenti in cui la vita, nonostante tutto, ci offre l'occasione di essere felici. Che non durerà lo sappiamo bene, e questo è, e al tempo stesso non è, il punto."
Ci sono libri che chiudono un cerchio, e altri che lo spezzano. Black Tulips appartiene a entrambe le categorie. È un romanzo che sembra un addio, ma anche una confessione estenuata, scritta con la precisione di chi sa che ogni parola potrebbe essere l’ultima. Vitaliano Trevisan non racconta una storia: compie un’autopsia, su di sé e sulla scrittura.
Più che un racconto, Black Tulips è un corpo sezionato con cura chirurgica. Un viaggio in Nigeria visionario e febbrile. Un uomo solo, immerso nella sua stanza, nella sua mente, nelle sue ossessioni. C’è il monologo interiore che si torce e si ripiega su sé stesso come una ferita che non vuole chiudersi. C’è la voce di Trevisan, quella vera, che trapassa ogni pagina come una luce fredda in un obitorio. Il testo è un ibrido: confessione, monologo, autopsia mentale. Si percepisce l’eco dei suoi precedenti lavori, ma qui la lingua è più scarna, più tagliente, più prossima al silenzio. Le frasi colano catrame e insieme compassione, come se lo scrittore avesse trovato, nell’ultimo sforzo, un modo per perdonarsi.
I libri di Vitaliano Trevisan sono una garanzia di qualità. La struttura del romanzo è quella dell'amatissimo WORKS, anche qui l'autore si racconta e spinge alle domande e alle riflessioni alle quali però è il lettore a dover dare una risposta. Completa libertà di pensiero, analizza senza giudicare. No spoiler. Da leggere!