Quando Lucia e Giuseppe arrivano a Roma è l’estate del 1965. Hanno con sé la figlia di otto mesi, sono innamorati, ma non riescono a liberarsi dall’inquietudine che prova chi è braccato. Perché Lucia è fuggita da un marito violento che era stata costretta a sposare e che la umiliava ogni giorno, e ha tentato di costruirsi una nuova vita proprio insieme a Giuseppe. Per la legge dell’epoca, però, la donna si è macchiata di gravi relazione adulterina e abbandono del tetto coniugale. Prima di scivolare nelle acque del Tevere in circostanze misteriose, la coppia lascia la bambina su un prato di Villa Borghese, confidando nel fatto che qualcuno si prenderà cura di lei. Più di cinquant’anni dopo quella bambina, a sua volta diventata madre, si mette in viaggio per ricostruire quello che è davvero successo ai suoi genitori. Come una detective, Maria Grazia Calandrone ricostruisce la sequenza dei movimenti di Lucia e Giuseppe, enumera gli oggetti abbandonati dietro di loro, s’informa sul tempo che impiega un corpo per morire in acqua e sul funzionamento delle poste nel 1965, per capire quando e dove i suoi genitori abbiano spedito la lettera a «l’Unità» in cui spiegavano con poche parole il loro gesto. Dopo Splendi come vita, in cui l’autrice affrontava il difficile rapporto con la madre adottiva, Dove non mi hai portata esplora un nodo se possibile ancora più intimo e complesso. Indagando la storia dei genitori grazie agli articoli di cronaca dell’epoca, Calandrone fa emergere il ritratto di un’Italia stanca di guerra ma non di regole coercitive. Un Paese che ha spinto una donna forte e vitale a sentirsi smarrita e senza vie di fuga. Fino a pagare con la vita la sua scelta d’amore.
“Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano”
Difficilmente due cose mi sono sembrate essere più in sintonia di quanto lo siano questo libro e il podcast in nove puntate in cui la stessa autrice intreccia il racconto della sua storia alla lettura di stralci della sua opera. Si completano e si compenetrano, l'uno esaltando l'altra, ed è per questo che userò, a lettura ultimata - una lettura in cui alla carezza delle parole scabre, scabre ma poetiche che Maria Grazia Calandrone usa per parlare di sua madre Lucia e per riappropriarsene, si contrappone una storia durissima, fatta di miseria e violenza, una storia che rappresenta, nella sua essenza, la storia vissuta da tante donne e da tanti bambini per un tempo che ancora oggi, volgendo lo sguardo al passato, sembra essere stata tanto dolorosa quanto assurda e orrendamente lunga - le parole che avevo usato per consiglairne l'ascolto ai miei amici su Facebook.
Della storia di Maria Grazia Calandrone, non avendo letto i suoi libri, sapevo pochissimo: del precedente romanzo, Splendi come vita, mi era rimasta la sola informazione che parlava della madre adottiva, di quest'ultimo, Dove non mi hai portata (nella cinquina dello Strega), che parlava della madre biologica. Poi con l'avvicinarsi della premiazione, e dai post di alcuni amici, ho capito che la storia che riguarda entrambe le madri, e Maria Grazia Calandrone in primis, era molto più complessa e drammatica, perché il suo abbandono a Villa Borghese ha preceduto di poche ore il suicidio dei suoi genitori biologici (che annegarono nel Tevere) diventando, come specifica il sottotitolo del secondo dei due libri, un fatto di cronaca. Infine, a ridosso dell'assegnazione del Premio Strega a Come d'aria di Ada d'Adamo, mi è capitato di leggere un post di Bianca Pitzorno*, autrice che non seguo e che non ho mai letto, che ha avuto il potere di accendere il mio interesse (quando ancora mi chiedevo se avessi voglia di leggere Calandrone, di cui lo stile lirico al quale molti facevano riferimento un pochino mi preoccupava) e spingermi ad ascoltare le sue parole prima ancora di decidere se leggerle.
E ho fatto bene, benissimo, perché avere il privilegio di ascoltare dal racconto verbale della stessa autrice la sua storia, unita a brani della sua opera, che è tanto straziante e dolorosa quanto importante e coinvolgente, e comprendere come attraverso il processo di conoscenza e assimilazione prima, narrazione e verbalizzazione dopo, una storia privata - che attraversa un'epoca e descrive i cambiamenti sociali che sono appena dietro alle nostre spalle, accompagnando l'ascoltatore (e il lettore) nel passaggio dell'epoca dell'adulterio e dell'abbandono del tetto coniugale, del delitto di onore e dei figli illegittimi, fino a quella del diritto al divorzio e quello dei figli nati fuori dal matrimonio di vedere riconosciuta la proprio identità e dignità di individui al pari di quella degli altri figli - come possa una storia privata, dicevo, diventare universale...beh, questo è appunto un privilegio, ed è il miracolo che a sua volta opera la letteratura quando trasforma una materia viva, incandescente, in parole vibranti, vive a loro volta, ma letterarie.
Quella che racconta è una storia di miseria e di disperazione, di prevaricazione e abbandono, certo, dove i primi a essere abbandonati dalla società civile furono proprio Lucia e Giuseppe, fuggiti da un piccolo paese del Molise agli inizi degli anni Sessanta e arrivati a Milano nella speranza di riuscire ad avere una possibilità di futuro.E poi l'abbandono di Maria Grazia, a Roma, a soli otto mesi, che nel suo essere abbandonata, però, fu invece affidata alla carità di tutti noi (e adottata dalla famiglia del sindacalista Giacomo Calandrone e da sua moglie Consuelo): il luogo in cui non mi hai portata, allora, è una storia sì di abbandono, ma anche di salvezza: quella che Lucia e Giuseppe hanno voluto offrire alla loro bambina, considerata dalla morale dell'epoca figlia del peccato. Era il giugno del 1965 quando venne trovata, io nascevo in autunno.
Mia madre, un caso di cronaca (bellissimo, lo consiglio davvero), si può ascoltare su RaiPlay Sound.
*E così il Premio Strega è stato vinto da un altro libro. Che ho letto, ma che mi ha lasciato piena di dubbi. Leggere con calma per poter giudicare prima i dodici finalisti e poi rileggere e riflettere su la 'cinquina' è molto difficile, richiede molto tempo che non tutti i giurati hanno. Io anni fa facevo parte dei giurati e, tra la difficoltà di leggere tutto e le pressioni, spesso spudorate, da parte degli editori, mi sono trovata spesso in grande difficoltà, finché tre anni fa ho dato le dimissioni. Quest'anno però non avevo dubbi: tra i concorrenti il libro più bello, quello che trasformava -trasforma- il racconto di un fatto privato in un ragionamento universale, era ed è DOVE NON MI HAI PORTATA di Maria Grazia Calandrone. Potete anche leggerne gratuitamente una sorta di riassunto letto dall'autrice in un podcast: Mia madre, un fatto di cronaca, su RaiPlaySound. Ve lo suggerisco, sapendo di fare cosa utile.
Avevamo “conosciuto” Maria Grazia Calandrone in Splendi come vita: tratta in salvo da Consolazione, da neonata, dopo che la sua madre biologica, Lucia, si era gettata dal ponte prima di mettere in salvo la figlia.
Già in Splendi come vita, si leggeva tra le righe che era rimasto un nodo irrisolto: perché Lucia abbandonò Maria Grazia quando aveva solo otto mesi? Perché subito dopo averla abbandonata si uccise?
La storia di Lucia non è solo la storia della madre biologica di Maria Grazia, ma è parte della Storia dell’Italia, parte della Storia delle donne italiane quando non erano libere di scegliere.
“Il 22 gennaio 2022, arrivata a scrivere la centoventitreesima pagina di questo libro cominciato il primo gennaio, mi sveglio da un grande sogno, che dispone financo di un titolo: Domenica di pioggia a Crescenzago. Una pioggia cosí imponente da rovesciare il cielo sulle strade. Il viale che sto percorrendo diventa un fiume sotto le ruote del mio fuoristrada. Ma non ho paura, ormai sono capace di guidare dentro questo fiume. Anzi, guardo le cose dall’alto, vedo che tutto è bello, come appena rinato. Sono venuta a prenderti, Lucia. Qui dovevo arrivare. Anzi, tornare. A pagina 123 del mio dattiloscritto posso finalmente accarezzare il volto di mia madre, e il suo corpo di luce e di niente. E abbandonare il pregiudizio che solo la cultura ci permetta di capire le cose e conoscere il mondo fuori e dentro noi. Lucia aveva la seconda elementare, ma era libera. Perché aveva cuore. Quello che ancora splende, irreparabile.”
Questo nuovo romanzo di Maria Grazia Calandrone mi ha profondamente commossa! Bello, bello, bello!
È difficile spiegare che tipo di libro sia, ma leggendo ho preso un appunto che dice "reportage lirico, poetico ma non melenso, reale ma non asettico". L'autrice ricostruisce la vita di Lucia, sua madre biologica di cui non ha ricordi, e lo fa cercando nei luoghi che l'hanno vista crescere, soffrire e anche innamorarsi alla fine, o sarebbe meglio dire all'inizio della fine. Traspare un'incredibile voglia di amare a posteriori questa madre di cui niente sapeva e di cui ora cerca di immaginare pensieri e paure. Ci sono anche dei padri, dei parenti disinteressati, un'Italia che corre in avanti ma non perdona. È strana la sensazione che si prova durante la lettura perché il racconto inizia da lontano, ma poi andando avanti si aggiungono dati, nomi, foto d'epoca e fatti storici che rendono reale ogni cosa ma sempre con delicatezza, senza diventare semplice cronaca.
In uno dei capitoli finali viene citata in apertura una poesia di Benn che si intitola Madre e dice "Come una ferita porto te sulla fronte, che non si rimargina", credo il senso sia tutto qui.
Una "indagine sentimentale" toccante e bellissima. Stile molto particolare, perfetto connubio tra racconto e inchiesta, l'ho divorato.
"L'amore di Lucia per me, a me in persona sicuramente e semplicemente destinato, sta nel non avermi portata con sé nella morte, sta nel dove non mi ha portata e nel suo avermi riconsegnata alla vita".
Una storia di abbandono triste su temi importanti come la maternità, il fallimento di un matrimonio, la ricerca dell'identità. È fuori di ogni dubbio che la Calandrone scriva davvero bene, ma a volte la prosa è semplicemente "troppo"; troppo alta, troppo pindarica, troppo arzigogolata, anche per concetti per cui non ce ne sarebbe bisogno. È una storia vera, quindi immagino che ci voglia davvero tanto coraggio a raccontarla.
Non conoscevo la storia di Maria Grazia Calandrone, mi sono lasciata prendere dalla narrazione del tutto ignara. Quando l'esito ha cominciato a farsi sospetto, ho sentito una fitta e ho capito che questo libro non è solo ricerca metodica, recupero delle proprie origini.
Maria Grazia viene trovata nel suggestivo scenario di Villa Borghese in una cesta. Ha circa 8 mesi e dietro il suo abbandono c'è la tragicità di un amore che cerca di affermarsi con le unghie in un presente che etichetta e che giudica, che rende difficile progettare, ritagliarsi un futuro tanto agognato. La Maria Grazia adulta è una scrittrice che cerca la verità ma che soprattutto cerca di dare un'identità, un corpo e un'anima a quella madre che non ha mai potuto conoscere. Si mette sulle sue tracce e una volta trovata, con una lucidità affettuosa e una profondità struggente, entra nella sua testa e nel suo cuore. La figlia va così dove la madre non l'ha mai portata: nella casa di bambina piena di cose buone da mangiare, nella stanza di un uomo feroce e incattivito dalle pressioni sociali, su un treno che porta in una città piena di sogni e illusioni, e poi su un ponte, tra le acque di un fiume che trascina con se' il tempo mai vissuto.
E io, da lettrice commossa e stupefatta, ringrazio la scrittrice per avermi portata con se'.
Tosto. Molto tosto. Un caso di cronaca nera che viene, con amore e razionalità, montato e smontato pezzo per pezzo da una delle protagoniste di questa triste storia. Struggenti e bellissime le parole che Maria Grazia riserva alla madre Lucia, morta suicida dopo averla abbandonata. “Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano.”
Sono estasiata dalla poesia, bellezza, intensità, coscienza e anche compassione di questo libro. Lasciando stare il fatto miracoloso di una prosa altamente lirica e complessa che riesce comunque a creare una vicinanza avvincente in grado di coinvolgere nella storia (non ti fa staccare fino alla fine, persino quando si parla di timbri postali o la lingua diventa elusiva). C'è poi l'aspetto intimo di un giallo privato da ricostruire perché è una questione di diritti e memoria. Ho pianto in diversi punti e mi sono affezionata e non avrei smesso mai di leggere.
Non conoscevo la Calandrone ma sono stata attratta, oltre che dalla candidatura allo Strega, dal titolo, soprattutto considerato che nonostante la copertina non si trattasse di una storia romantica, ma di amore altro. Di fatto è un libro a metà tra un'indagine a posteri e un diario privato in cui parti di trama risultano più freddi e didascalici e in altri ci si immerge con la scrittrice nella sue domande, nella profondità del dolore e della ricerca di risposte così fondamentali da non lasciare pace. La scrittura è indiscutibilmente alta, colta e profonda - non è certo un libro leggero neanche in quello; la trama racconta di una fetta di Italia esistita non troppo tempo fa e che ha lasciato strascichi sociali ancora molto attuali. Non mi ha colpito il modo di raccontare: mi aspettavo una scrittura più "calda" e coinvolgente, mentre, a parte in alcuni brevi tratti, non ho sentito di essere coinvolta in una vicenda pur così drammatica. Lo definirei piuttosto un libro "utile" che indimenticabile.
dopo aver letto dell'autrice e di Consolazione, in Splendi come vita, non potevo non leggere la storia di Lucia, la mamma biologica dell'autrice. Se ne apprende un ritratto scientifico, documentato, si evince una ricerca del vero estrema. Si sentono i pensieri, i dubbi, la logica, la non logica, i quesiti e le risposte possibili e non possibili. Cosa porta una mamma ad abbandonare la propria figlia, e poi a suicidarsi? Una donna forte, che ha voluto prima sincerarsi che sua figlia fosse raccolta da mani sicure. Una lunga poesia, a tratti straziante.. l'assenza e l'abbandono, e il perdono.
Il libro ricostruisce le vicende che hanno portato la scrittrice ad essere abbandonata a Roma, in tenera età, dai genitori che, poco dopo, si sono tolti la vita. Una storia appassionante, che avrei preferito fosse riportata sotto forma di romanzo. C'è molta poesia, ci sono ricostruzioni giornalistiche, lo stile è molto ricercato, ma a malincuore devo dire che non mi ha coinvolta.
4,5 stelline per uno dei libri più belli del mio 2023.
Avevo già apprezzato Calandrone in "Splendi come vita", ma questo ultimo lavoro l'ho amato molto di più.
Una penna raffinatissima avvezza al verso poetico che qui si presta al racconto di una storia intima e dolorosa che scava nelle radici perdute e ora in parte ritrovate dell'autrice.
Con un lavoro minuzioso che a livello emotivo non oso immaginare quanto le abbia fatto male, ricompone la figura di una madre mai conosciuta, ripercorrendone i passi, immaginandone la voce, sentendo sulla sua pelle tutto lo strazio di quella giovane vita spezzata.
Non ho fatto altro che pensare a quanto deve esserle costata ogni singola parola e a quanto, però, sia bello pensare che Lucia vive in queste pagine che, finalmente, le hanno dato voce e giustizia.
Io ne sono uscita commossa e grata. Un libro prezioso assolutamente da recuperare!
Lettura del secondo semifinalista dello Strega 2023 conclusa con piacere: la scrittrice tenta una ricostruzione delle dinamiche che hanno spinto/portato la sua giovane madre biologica ad abbandonarla e commettere suicidio con il compagno, partendo dalla sua infanzia e scandagliandone (o anche ipotizzandone) carattere e aspirazioni. Il risultato è un reportage che potrebbe sembrare asettico se non irrompesse, a tratti, un affetto riscoperto o rinforzato proprio dalla stessa ricerca e dal riconoscimento di Lucia come donna libera e sensibile. Complesso e stratificato, ho avuto l'impressione di non aver afferrato tutto quanto venisse narrato proprio per il modo quasi distaccato di riportare i fatti, tornando sopra più volte agli stessi passaggi e rivedendoli da diverse angolazioni; mi ha lasciato la voglia di rileggerlo più attentamente, magari per sentirmi ancor più coinvolta nelle vicende.
È un testo che racconta la storia di Lucia e Giuseppe. È lo specchio di un’identità negata o, forse, rafforzata dagli eventi. Lucia abbandona Maria Grazia a villa Borghese nel 1965 quando ha solo otto mesi. Poi si suicida con Giuseppe. È una cronaca, una lunga memoria e la ricostruzione di un passato doloroso, immerso nella foschia retrograda degli anni 40-60. È inchiesta, poesia, romanzo, confessione, ricerca di quei pezzi del puzzle che provano ad aderire a una realtà misconosciuta. È incontro con chi c’è stato.
Lucia è tornata a casa. Mi ci son voluti giorni e giorni per poter scrivere qualcosa di questo emozionante e poetico libro, in tutte le accezioni dei due aggettivi... Maria Grazia Calandrone ritrova la sua mamma biologica, attraverso un viaggio e un'indagine accurata e le ridà luce, la luce sul suo nome. La conduce fuori dall'oblio in cui le becere leggi del tempo e le consuetudini avviluppate nei pregiudizi dei più l'avevano voluta relegare. Le restituisce tutta la Speranza che lei le aveva dimostrato di possedere. Il suo romanzo è un prezioso atto d'amore che da intimo diviene pubblico, come lo fu la lettera di Lucia mandata all'Unità, saluto estremo e dignitoso alla sua bambina - e perciò amorevole nel suo... "distacco". Atto pubblico per noi lettori, per parlare della società di allora (ma anche di quanto certi suoi mali possano essere sempre in agguato), col linguaggio della compassione. E trasmettere il valore salvifico che può avere, nei giudizi e nell'operato, la vicinanza del consesso umano.
Leggere questo libro è un po’ come tornare indietro nel tempo e ripercorrere insieme a MariaGrazia la vita dei suoi genitori, il loro abbandono, la loro fine e quello che hanno voluto lasciarle. È pregno di una grande delicatezza, ho notato una cura enorme e tanto amore nei confronti di due persone che hanno cercato di fare del loro meglio per amarsi, per vivere liberi, per potersi costruire la vita che desideravano e donare al frutto del loro amore tutto il meglio.
Un romanzo/reportage davvero toccante. Dalla prima all’ultima riga. Capace di arrivare dritto al cuore e di veicolare messaggi importanti come la voglia di essere liberi, il desiderio di amare fino in fondo e soprattutto la lotta contro i pregiudizi e le parole, che spesso possono fare più male di una coltellata.
Un'opera meravigliosa, che fa scuola a tanto "nuovo realismo" di scrittori che credano basti parlare di una storia vera e commuovente per fare letteratura.
Un caso di cronaca tragico perfettamente inserita nel suo Tempo. Una vicenda toccante che tiene incollati fino alla fine, narrata da una penna poetica.
Quando lo psicologo statunitense Murray Bowen, uno dei massimi pionieri della psicoterapia con le famiglie, teorizza l'importanza del "ritornare a casa" come modo di ripercorrere le trame familiari per rivisitare il legame con la propria famiglia, afferma proprio questo: che per vivere occorre separarsi. Che il lutto e gli effetti talvolta devastanti sono generatori di un passaggio, tante volte difficile da oltrepassare se non si dispone di adeguati strumenti emotivi. L'ho ritrovato in questa piccola grande perla di Maria Grazia Calandrone: cosa può significare, a distanza di decenni, tornare alla radice estranea che ci ha messi in vita? Cosa può voler dire il pensiero di aver preso esistenza a partire dall'abbandono della madre? L'autrice ripercorre, come nel modello boweniano, la propria genealogia circoscritta al legame materno. Assente, inesistente, se non tra i documenti e le carte scritte. Lo fa con tutta l'urgenza del bisogno di ritrovare e ritrovarsi - quel "tornare a far visita" - per ridare luce a colei che l'ha avuta solo per poco. La realtà di un documento recuperato diviene così la realtà di una vita prima di sé come figlia. Di una donna prima di lei, Lucia, la sua giovinezza rubata e poi riconquistata, anche se per poco. Di un uomo prima di lei, Giuseppe, che mai potrà riconoscerla. Di questo amore fuggiasco prima dei figli, visione inconoscibile di ciò che chiamiamo tempo.
"Dove non mi hai portata" è traccia di una ferita scoperta che non chiede chiusura, ma riapertura, riallaccio, riunione. Il bisogno di sapere e, nel sapere, sentirsi cullata e accompagnata da quella mano che sa di forza. Di passare attraverso e non oltre, per restituirsi inizio e consapevolezza. Di sentirsi, per un'ultima volta, dentro la tasca di chi, nonostante il lascito, l'ha comunque tenuta con sé. E per dove l'autrice ha portato noi, me, con queste pagine di dolore e dolcezza, nonché di testimonianza unica e irripetibile, non si può altro che dire grazie.
Maria Grazia Calandrone ha 8 mesi quando viene abbandonata in un prato all'ingresso di Villa Borghese a Roma. Prima di gettarsi nel Tevere, i genitori Lucia Galante e Giuseppe Dipietro inviano una lettera al giornale L'unità, rivelando il nome della bambina, Maria Grazia Greco, con il cognome del marito di Lucia, che non l'ha mai riconosciuta,, ed il del loro gesto estremo. A distanza di 40 anni, Maria Grazia torna nella sua terra natia, a Palata, vicino Campobasso, per indagare e scavare nelle vicende della vita della madre biologica e riportare alla luce la verità.
È un libro intimo, doloroso e pervaso da tutta la dolcezza che una figlia può provare per la madre, una madre da cui non si è sentita abbandonata, una madre che le ha invece donato un ultimo gesto d'amore per assicurarle un futuro migliore. Così l'autrice Maria Grazia Calandrone, in questo romanzo autobiografico, racconta in prima persona il viaggio compiuto alla ricerca di tutte le informazioni e testimonianze possibili per ricostruire la vita della madre Lucia, seguendone spostamenti e vicissitudini e cercando di immaginare tutto ciò che ha provato, dolore compreso. Ma non è sola, l'accompagna la figlia Anna. Bellissima la presentazione di Palata, un paesino tutto in pietra, dalla posizione collinare, con la terra brulla e distese di girasoli. E bellissima la prima parte in cui viene descritta la vita alla masseria in cui Lucia viveva: si viene letteralmente catapultati nelle tradizioni, negli stili di vita di una volta, resi ancora meglio a livello sensoriale attraverso gli odori del latte appena munto e della farina di grano, attraverso il suono degli animali che con i loro versi ogni giorno risvegliano la fattoria e attraverso i sapori del cibo locale. Ma a queste note gradevoli, purtroppo si contrappongono quelle più amare di un retaggio culturale che dà poca importanza alla donna, che si deve dedicare alla casa e alla famiglia anziché studiare e che non può amare, ma deve arrendersi a matrimoni imposti per convenienza: ed è proprio ciò che tocca a Lucia. L'autrice cala il suo racconto in un'ambientazione storica di cui fornisce numerosi dettagli, citando personaggi e particolari vicende: sono gli anni del fascismo e dell'orgoglio razziale, della guerra con tutti i suoi scempi e vittime innocenti, gli anni di un dopoguerra che lascia tutti impoveriti e alla ricerca di fortuna lontano dalla propria terra. Il lavoro di documentazione di Maria Grazia è meticoloso, non lascia nulla al caso, scandaglia tutte le ipotesi, intervista parenti ed amici della madre, si batte per accedere a degli atti che non le sono accessibili, che per assurdo potrà visionare solo a 100 anni, perché Maria Grazia è una figlia illegittima. Emerge una legislazione ancora troppo maschilista, in cui lampanti sono le divergenze della legge sul reato di adulterio a seconda del sesso. Impensabile parlare poi di divorzio. E tutta questa ricerca porta inevitabilmente Maria Grazia a fare i conti con il dolore, il dolore della madre che finisce per provare sulla sua pelle, un dolore necessario per incontrarla "vengo con te dove non mi hai portata: nella morte. Scendo a conoscere cos'hai sentito" e riconciliarsi con lei "Vengo a prenderti, adesso che ho il doppio dei tuoi anni e ti guardo, da una vita che forse hai immaginato per me. Adesso vengo a prenderti e ti porto via. Lucia, dammi la mano.". Lo stile del libro è molto particolare, è una prosa resa poetica, con un linguaggio ricercato, a volte aulico, impregnato di significato, per cui gli a capo e le spaziature inconsuete sono delle scelte intenzionali. Uno stile impegnativo, senza dubbio, ma di cui è impossibile non cogliere la bellezza. Non mancano alcune frasi in dialetto e spezzoni di preghiere in latino, a rimarcare le proprie radici. Una lettura che tocca le corde più profonde dell'animo, che commuove... che se incontrassi Maria Grazia Calandrone, il cuore mi porterebbe ad abbracciarla forte forte ❤️.
Lucia Galante è nata e cresciuta, negli anni trenta, in un paesino in provincia di Campobasso. Lucia, come tutte le donne vissute in quell'epoca, non ha potuto studiare, coltivare i suoi segni o rincorrere le sue ambizioni. Viene data in sposa, dal padre, a Gino, buffone e ubriacone del paese, per un pezzo di terra confinante con la proprietà dei Galante.
La sua vita coniugale è un inferno a causa dei maltrattamenti fisici e psicologici perpetrati, ai suoi danni, da parte del marito e dei suoceri.
Solo l'incontro con Giuseppe, un forestiero reduce dalle guerra d'Africa, offrirà a Lucia la possibilità, anche se breve, di poter essere felice.
Ma conoscere Giuseppe la macchierà del reato di adulterio e abbandono del tetto coniugale. ed è per questo che si trasferiscono a Milano dove inizieranno una nuova vita, e concepiranno una bambina, la stessa autrice di questo libro, che nascerà il 15 ottobre 1964.
La gioia di diventare madre e l'unione con Giuseppe non basteranno ad affrontare l'emarginazione e la povertà a cui sono costretti a sottostare, per non parlare dell'infamia derivante dal peso dei reati a carico di Lucia.
Ed ecco il fatto di cronaca, perchè è poi questo di cui si tratta: il suicidio di Lucia e Giuseppe avvenuto a Roma nell'estate del 1965. Dopo aver abbandonato la propria figlia, di otto mesi, a Villa Borghese la coppia si getta nelle acque del Tevere.
Maria Grazia Calandrone per anni indaga sulle proprie origini, alla ricerca di un identità, vera e immaginaria, della propria madre biologica, realizzando un libro autobiografico composto da molte ricostruzioni giornalistiche e poesia.
Un libro che mi ha colpito molto per il contenuto, che mi fa fatto amare Lucia, che mi ha fatto provare una grande tenerezza per Giuseppe, nonostante lo abbia trovato pesante, soprattutto nell'ultima parte dove la scrittrice analizza diverse ipotesi sulle dinamiche del suicidio dei suoi genitori biologici. La scrittura poetica e lo stile ricercato hanno, a mio a avviso, appesantito molto l'intera opera che, probabilmente, avrei apprezzato se fosse stata strutturata in forma diversa!
Poetico, tragico, elegiaco. Un grande romanzo che non traccia solo l’intreccio tra Storia e la storia di Calandrone e della madre biologica, ma ci consegna un ritratto di un’epoca, uno sguardo sulla miseria contadina di inconsapevole matrice verghiana, una confessione consolatoria e riabilitante di affetto filiale mai consumatosi.
Uno stile aulico, articolato e senza una virgola fuoriposto. In una parola: perfetto, di una perfezione non stucchevole, ma propria di chi sa davvero scrivere. Leggetelo.
Trovandomi in condizioni disperate, non ho scelto altro che la strada di lasciare mia figlia alla compassione di tutti…” Firmato: Lucia Galante. Lei e il compagno Giuseppe poi si tolgono la vita: sono i genitori di Maria Grazia, abbandonata a otto mesi e successivamente adottata. A quasi sessant’anni di distanza Maria Grazia… Calandrone ricostruisce, comprensiva ed amorevole, le figure dei genitori - della madre, in primis - e le loro storie, da cui la sua, e lo fa splendidamente.
Mi sono avvicinata a questo libro in maniera curiosa. La scrittrice racconta la storia dei suoi genitori, una storia tragica, anomala in modo dettagliato, vestendo i panni di detective. I genitori biologici infatti, la abbandonano e si tolgono la vita. Una storia che, per le circostanze, avrebbe dovuto essere raccontata con più sentimento. Si sarebbero potute usare parole più semplici e meno pompose. Peccato!
L'inizio in salita, con una scrittura poetica che ho trovato affettata, lascia spazio al racconto dei protagonisti, ricostruito con minuzia dall'autrice in una lingua si poetica, ma limpida. Anche il lettore si ritrova in viaggio verso la libertà.
Tra le opere che concorrono al Premio Strega 2023 figura Dove non mi hai portata di Maria Grazia Calandrone, uscito lo scorso ottobre per la collana Supercoralli di Einaudi. Il romanzo è stato proposto da Franco Buffoni con la seguente motivazione. Non è la prima opera autobiografica di Maria Grazia Calandrone, e nemmeno la prima che concorre al Premio Strega. Nel 2021 l’autrice era stata tra i semifinalisti del prestigioso premio con Splendi come vita (Ponte alle Grazie, 2021), in cui raccontava il rapporto con la madre adottiva Consolazione. Protagonista di Dove non mi hai portata è invece Lucia Galante, la sua madre biologica, morta tragicamente a soli ventinove anni.
«Dove non mi hai portata», la storia di Lucia Lucia nasce nel 1936 in un paesino del Molise e la sua vita sembra destinata a seguire una traiettoria voluta dagli altri, a cui lei può solo adeguarsi. A causa della guerra, inizia a frequentare la scuola solo intorno ai dieci anni, ma dopo la seconda elementare è costretta ad abbandonarla malgrado i buoni risultati – impensabile, per una famiglia contadina dell’epoca, investire risorse per far studiare una figlia femmina.
Il destino di Lucia è il matrimonio, ma quando Tonino, un giovane da anni innamorato di lei – e ricambiato – chiede la sua mano, riceve un secco rifiuto dal padre perché troppo povero. Umiliato, Tonino rinuncia, si trasferisce lontano e sposa un’altra donna, anche se non dimenticherà mai il primo amore. E Lucia? Viene costretta dalla famiglia a sposare un uomo gretto, Luigi Greco detto Centolire, che la maltratta e non mostra il minimo interesse nei suoi confronti. Addirittura, il matrimonio non sarà mai consumato.
La ribellione di una donna in un’Italia senza divorzio Siamo nei primi anni Sessanta e Lucia non ha nessun modo lecito per sottrarsi alla sua vita infelice: il referendum sul divorzio si terrà infatti solo nel 1974. All’epoca, i matrimoni erano davvero per la vita – perlomeno, per chi non disponeva delle possibilità economiche per farli annullare. Eppure, nella vita di Lucia succede qualcosa di impensato, che cambierà in modo irreversibile il suo destino. Incontra per caso un uomo, Giuseppe Di Pietro, di quasi trent’anni più vecchio di lei, con cui intreccia una relazione clandestina. È il primo amore che Lucia può davvero vivere e non limitarsi a sognare, e non intende rinunciarvi, costi quel che costi.
Molto presto la relazione con Giuseppe le presenta il conto. Capito come stanno le cose, per difendere il proprio onore Luigi denuncia i due amanti. E, soprattutto, Lucia rimane incinta di Giuseppe. Non può fingere che il bambino sia del marito, che non l’ha mai sfiorata; la gravidanza diventa per lei l’occasione di fuggire nella lontana Milano e provare a rifarsi una vita con Giuseppe.
È proprio a Milano che, nell’ottobre del 1964, nasce la piccola Maria Grazia. Nella speranza di darle lo status di figlia legittima, Lucia le dà il cognome di Luigi, pur sapendo che lui non la riconoscerà mai. Ma i mesi passano e Lucia e Giuseppe si rendono presto conto della realtà: su di loro grava una denuncia, non potranno mai vivere una vita che non sia di espedienti. Non potranno mai dare alla loro bambina il futuro che merita.
L’indagine di Maria Grazia Calandrone A fine giugno del 1965, dopo aver abbandonato la piccola Maria Grazia nel parco romano di Villa Borghese, Lucia e Giuseppe si suicidano gettandosi nelle acque del Tevere. Ed è proprio a partire da questo fatto di cronaca, che all’epoca scosse l’opinione pubblica, che Maria Grazia Calandrone – divenuta scrittrice e decisa a scoprire la verità sui suoi genitori biologici – si lancia in una vera e propria indagine. Si documenta, parla con le persone che hanno conosciuto Lucia e Giuseppe, tenta di ricostruire la loro storia e le loro ultime ore di vita.
Dove non mi hai portata diventa, così, un libro che rappresenta un unicum: la ricostruzione minuziosa di un fatto di cronaca e al contempo un’opera profondamente intima per l’autrice, che quasi sessant’anni fa è stata protagonista inconsapevole di una vicenda straziante. È un libro che denuncia un’epoca in cui i diritti delle donne erano ancora prossimi allo zero; un’epoca che sembra distante, e invece era solo pochi decenni fa. Se Lucia si è sentita in trappola, se ha visto la morte come unica via di uscita, la colpa è solo di una società profondamente maschilista, che l’ha ingabbiata fin dalla nascita, e a cui lei ha provato a ribellarsi invano. Ma il destino aveva in serbo per lei qualcosa di inaspettato: che un giorno fosse sua figlia a proseguire la sua storia, come afferma la stessa Calandrone.
«Dove non mi hai portata», una storia intima dallo stile poetico Dove non mi hai portata è un libro dal ritmo inizialmente lento, che si fa più incalzante con lo scorrere delle pagine. Maria Grazia Calandrone ha uno stile poetico, a tratti aulico, lontano da quello della maggior parte degli scrittori contemporanei, e che forse in un primo momento può spiazzare un po’ i lettori. Ma siamo di fronte a un romanzo a cui bisogna dare fiducia. Anche noi lettori, insieme all’autrice, ci addentriamo nella storia di Lucia e nel mistero della sua tragica fine, l‘unico luogo dove non ha voluto portare sua figlia.
Io ammetto che sia bello, ma il fatto di averlo dovuto leggere per l’università e di aver fatto le corse me lo ha fatto apprezzare meno. Non sarò del tutto obiettiva (come sempre). A volte è troppo, spesso mi dovevo fermare per rileggere e capire. È emozionante, alcuni passi sono dolorosi al 100%, ma è anche piuttosto noiosetto. La seconda metà mi è piaciuta di più.