Dalla lotta per l'acqua, l'università e la scuola pubblica a quella per l'informazione critica; dalle battaglie contro il precariato e per un lavoro di qualità a quelle contro lo scempio e il consumo del territorio; dalla lotta contro la privatizzazione della rete internet a quella contro le grandi opere: i beni comuni non sono una merce declinabile in chiave di avere. Sono una pratica politica e culturale che appartiene all'orizzonte dell'esistere insieme.
Questo volume, scritto nella forma agile del manifesto, teorizza i beni comuni come riconquista di spazi pubblici democratici, fondati sulla qualità dei rapporti e non sulla quantità dell'accumulo.
Ottima divulgazione da parte di un intellettuale coraggioso e competente su un tema che ritengo assolutamente prioritario in questi tempi di crisi finanziaria e democratica.
Mattei parte da un presupposto,che somiglia a un vero e proprio dato di fatto: la mancanza della categoria giuridica di bene comune lascia troppo spazio alla dinamica stato – privati e questa dialettica spesso va a discapito di porzioni, sempre più grandi, di bene comune. La stessa modernità del resto ha fatto il suo esordio, ricorda l’autore in un lungo excursus, con le alienazioni delle terre in comune (enclosures) nell’Inghilterra del XV secolo. Quindi non basta più che un bene sia statale perché esso sia di tutti e tutelato in quanto tale; perché lo Stato stesso oggi si deve piegare a logiche di mercato. Da un punto di vista economico di fatto ormai quasi nulla lo distingue, quanto a logiche e politiche di breve termine, da un privato. Di qui allora la necessità di distinguere, ed è da questo scarto che nasce l’argomentazione di Mattei, tra statale e pubblico; intendendo con quest’ultimo il bene comune, un bene inalienabile e sempre inclusivo, che sconta una mancanza di legislazione nei suoi confronti. Di fatto per il bene comune oggi non c’è tutela: è una categoria sentita a livello di opinione pubblica come ha dimostrato la vittoria del sì nel referendum sull’acqua, ma non ancora codificata a livello legislativo. Questo fa sì che i beni comuni, e con essi intendiamo foreste, risorse idriche etc., siano esposte ai venti del capitalismo selvaggio di questi ultimi anni. Quello che pone Mattei inoltre è un quesito di legittimità nei confronti delle decisioni governative in tema di privatizzazioni: i governi sono per loro natura provvisori, legati a maggioranze parlamentari spesso transitorie e però sono in grado di prendere decisioni irrevocabili su beni che sono di tutti; dovrebbero solo amministrare il patrimonio comune ma possono di fatto alienarlo. Oggi i governi sono incentivati alla privatizzazione dei beni sia dalle lacune del diritto (manca una legislazione che sia garante dei beni di necessità primaria) sia dal fatto che quest’ultimo sta di fatto intraprendendo una deregulation che punta solo a favorire il mercato; altre esigenze che prevedano il contenimento dello stesso tramite alcuni “paletti” non sono contemplate. E questa è una sfida che, per Mattei, il diritto oggi deve ingaggiare, anche tenendo conto del fatto che oggi i soggetti che operano sul mercato o a controllo di esso (WTO, FMI) hanno entità sovranazionale (multinazionali, corporations etc.). Non si può insomma sacrificare il diritto sull’altare dell’efficienza e della governance.
Se c’è da riscontrare un piccolo neo nella trattazione di Mattei, questo è nel capitolo dedicato a Internet. Soprattutto non mi persuade l’argomento secondo il quale ora che i grandi siti fanno riferimento a pochi enti privati sia d’ostacolo alla libertà stessa del Web. Grandi domini o grandi network come Facebook fanno da strumento ad esigenze che comunque scaturiscono spontaneamente dal basso: penso a movimenti quali Valigia Blu o alle petizioni di Change.org.
Concludendo quello di Mattei ci sembra un manifesto condivisibile: il capitalismo selvaggio degli ultimi anni va in qualche modo delimitato soprattutto quando lede beni di diritto comune. Vanno ridefiniti i confini dello stato, non concedendo altro spazio ai privati, ma trovando invece nuove soluzioni istituzionali che possano preservare e mettere a disposizione di tutti i beni comuni. Una speranza nelle ultime pagine del Manifesto si fa più forte; anche noi la facciamo nostra, auspicando si concretizzi in azioni politiche: che si torni ad un paradigma ecologico, premoderno, in cui a qualificare gli scambi sia la qualità e non la quantità e al centro dell’azione politica torni la comunità con le sue legittime esigenze! (per http://sharadaweb.wordpress.com)