Maria insegna italiano in una scuola serale di Napoli, legge Dante e Leopardi a giganteschi camionisti che faticano a infilarsi nei banchi. Una sera, tornando a casa, un dolore rotondo e forte la precipita nella sala d’aspetto di un ospedale: «Quelli sono medici, signò, che vi possono rispondere?» Narrata con una voce ribelle che pure sa trovare i toni dell’indulgenza, una storia che inizia come un destino di solitudine personale e piano piano si trasforma in un caldo coro di scoperte, volti, incontri. Tanto che a Maria sembra quasi che siano la vita e la città a farle da compagne. Un libro bruciante, profondo e luminoso.
Succede a volte che un imprevisto interrompa il corso normale della vita: un accidente si mette di traverso, e d’un tratto il tempo si biforca. Alla drammatica rapidità dell’istante si affianca un tempo diverso, dilatato e fermo: il tempo dell’attesa. «Io non sono buona ad aspettare, – dice Maria, la protagonista di questo romanzo. – Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza. Aspettare senza sapere è stata la più grande incapacità della mia vita». Eppure non può fare altro, perché sua figlia Irene è arrivata troppo presto: dietro l’oblò dell’incubatrice, Maria osserva le ore passare come una sequenza di possibilità. Niente è più come prima, la circonda un mondo strano fatto di medici e infermieri, donne accoltellate, attese insensate sui divanetti della sala d’aspetto. Nei giorni si susseguono le sigarette dalla finestrella dell’ospedale, le mense con gli studenti di medicina, il dialogo muto coi macchinari, e soprattutto il suo lavoro: una scuola serale dove un’umanità deragliata fatica sui Promessi Sposi per conquistarsi la terza media fuori tempo massimo. E tutto intorno Napoli, con le sue imperscrutabili contraddizioni, si rivela lo scenario ideale per chi comincia a capire che la vita e la morte, la speranza e la paura sono aspetti della stessa realtà. Alla fine non restano che la tensione e l’abbandono «di quando in un momento, nella vita, sbuca una cosa inaspettata e piena e tua».
Valeria Parrella is an Italian author. In 2005, her collection of short stories For Grace Received was shortlisted for the Premio Strega and won the Premio Renato Fucini. In 2020, she was shortlisted for the Premio Lattes Grinzane. In 2008 she published her first novel, Lo spazio bianco, which won the Premio Letterario Basilicata. She has written several other short stories and novels, she collaborates with the newspaper La Repubblica and the magazines L'Espresso and Grazia.
Immagini tratte dal film omonimo di Francesca Comencini, 2009.
C’è un inizio: Maria rimane incinta a quarantadue anni. E, non importa chi sia il padre, tanto sparisce appena apprende la notizia, e molto prima che noi se ne faccia la conoscenza.
C’è un percorso da compiere, scrittrice e lettore: Maria partorisce al sesto mese, nasce una bambina, la chiama Irene – ma essere venuta al mondo prematura è un problema, Irene deve restare in terapia intensiva. Vivrà, morirà, e se vivrà, sarà come tutti gli altri? Da subito, Maria deve imparare a convivere con l’assenza di una figlia di cui non ha ancora sperimentato la presenza.
Maria passa le sue giornate in ospedale intorno alla culla incubatrice con gli oblò, trascura il “centro di educazione territoriale”, il pomposo termine che denomina la scuola serale dove insegna a stranieri e camionisti e a tutti coloro che hanno bisogno del diploma di terza media. Ha poca fantasia per vedere gli amici a parte Fabrizio collega insegnante, Maria si basta da sola, almeno crede. Conosce le altre madri nella sua stessa situazione, si scontra e incontra coi medici, ci racconta la sua infanzia, la sua crescita, la famiglia, madre, padre - incrociamo operai, spacciatori, tossici, usurai, gente che lavora ma non sa se arriva fino alla fine del mese – poi, c’è Napoli e la sua immensa periferia – ci scappa un flirt con un giovane medico, raccontato in modo divertente, senza il minimo sentimentalismo, come d’altronde tutto il resto.
E poi, come in ogni storia che si rispetti, c’è una fine: Irene esce dall’ospedale, può andare a casa, madre e figlia possono iniziare a vivere insieme. Se ce la faranno Parrella non ce lo dice, se Irene sarà ‘normale’ Parrella non lo dice: ma da come prende congedo dal lettore, io direi che il finale opta per “e vissero felici e contenti”.
Al netto dei molti spazi bianchi, che Einaudi sparge con generosità nelle sue pubblicazioni, è un romanzo di sole cento pagine che potrebbe anche essere definito un racconto lungo. E invece è l’esordio di Valeria Parrella nel mondo del romanzo.
Un esordio che richiede una buona dentatura, per affrontare una scrittura come questa. E anche mani robuste avvezze al dolore, perché l’intensità di queste pagine è spesso al calor bianco. Pagine abitate da gente che la vita non la prende in punta di forchetta o col cucchiaino, ma di solito morde forte, senza voracità, e mastica lentamente, e a lungo, così a lungo che perde il gusto. Gente così: Con le cose buone della vita io non ero mai stata indulgente. Forse credevo di più alle sconfitte, sapevo affrontarle meglio: erano come le temevo, cioè come le avevo immaginate. Intorno alle cose buone facevo dei lunghi giri larghi tenendo sempre gli occhi altrove.
Lo spazio bianco racchiude il dolore di Maria e la separa da Irene, è lo spazio intorno al corpicino racchiuso dall’incubatrice che non può essere raggiunto, che esclude la mamma, è lo spazio che la separa e allontana dagli altri, perché come si fa a scendere a patti con una situazione simile? Lo spazio bianco è un luogo dell’anima dove tutto è amplificato e al tempo stesso sfuocato. Lo spazio bianco è un rigo lasciato vuoto tra un paragrafo e l’altro.
PS Ho visto il film due volte, la prima anni fa, la seconda l'altra sera, a lettura ultimata: segue la trama, ma cambia completamente il personaggio protagonista, e quindi si allontana molto dal libro. Nel film Maria non è napoletana, viene da altrove, sicuramente dal nord, è decisamente borghese, e vive in ambienti e spazi che col suo lavoro non potrebbe mai permettersi (il classico difetto della maggior parte del cinema italico). Non è certo una donna che conosca della vita soprattutto il lato duro: Margherita Buy si produce in una delle sue solite interpretazioni che annullano i personaggi e rendono tutto uguale all’immagine che ha costruito di se stessa. Trattasi di persona che non solo parla solo e sempre di sé, ma agli altri non chiede neppure per sbaglio ‘come va?’. Non solo c’entra poco col libro, ma gli rende un pessimo servizio.
Due piccoli esempi che sintetizzano l’approccio snob e intellettualistico dell’operazione filmica: la donna che lascia la scuola serale perché non ha i soldi per pagare una multa, ha un trucco e una messa in piega e una casa con un azzeccatissimo arredo super kitsch che costano molto più di quella multa; per far sentire la vita che pulsa, il mondo che scorre, la nazione aggrovigliata nei suoi problemi, s’è scelto di mettere un magistrato donna con scorta armata che abita nello stesso pianerottolo di Maria e i duetti tra lei, Maria Paiato, e Margherita Buy sono la sintesi di quello che secondo me non bisognerebbe mai fare al cinema (didascalismo).
Ah, Valeria, perché ti sei prestata a una simile operazione? Hai perfino recitato in questo goffo e irritante adattamento del tuo libro. Spero che alla fine tu ne sia rimasta almeno orripilata quanto me.
Quando c’è uno spazio bianco – sia esso un foglio, una pagina di diario, la tela di un pittore – si pensa al vuoto. Nel bianco non c’è niente. Non ci sono righe, non ci sono punti, nessun riferimento, nessuna partenza. La verità è che il colore bianco contiene tutti gli altri colori. La verità è che lo spazio bianco è un luogo di possibilità: ci puoi creare quello che vuoi, dare forma a un pensiero, scrivere un sogno, disegnare.
Chi scrive un qualsiasi testo lo sa: lo spazio bianco serve a separare le parole, oppure a formare due paragrafi. Chi legge, quando incontra uno spazio tra due punti, proietta in quella parentesi di bianco un futuro possibile.
Ed è quello che fa Maria: cambia prospettiva e così rinasce. Napoli non è più la città di cui conosce ogni angolo; la sua classe di quarantenni che devono prendere il diploma non è più una scatola fatta di degrado ma diventa teatro di nuove possibilità; i corridoi dell’ospedale non sono più un luogo di non-ritorno perché diventano il posto in cui lei ritorna sempre, ogni volta diversa eppure sempre la stessa. Per inventarsi un futuro, perché il bianco non è mai stato così colorato.
"Abbiamo avuto confidenza con la morte, quella che imparano i soldati in guerra. Io me la sono augurata a volte, che venisse a mettere fine all'angoscia, che arrivasse riconoscibile e chiara, senza più dubbi né tentennamenti. E questo pensiero viveva nello stesso spazio della speranza. [...]. Avevo sufficiente intimità con i giorni normali per sapere che il nostro tempo dilatato e fermo non rispettava le ore frenetiche degli altri, che procedeva turnato nelle entrate e nelle uscite fino a sera, e poi, una volta a casa, si allungava lento in propaggini che dal mio balcone arrivavano fino a quel taglio di mare che riuscivo a vedere tra la parabolica del vicino e la cupola di Donnaregina. Restavo a fumare e la sigaretta faceva abbastanza male e la tramontana era abbastanza fredda perché io sopportassi l'idea che Irene non avrebbe mai visto quello che vedevo io."
120 pagine toccanti e delicate scritte con una penna scarna e semplice in cui la protagonista attende che si compia il miracolo e che sua figlia Irene, nata prematura, sopravviva. È palpabile l'aria di attesa dilatata che si respira nell'ala della terapia intensiva da parte di madri sole che si fanno forza a vicenda. E l'accostamento di questo vissuto con il colore bianco asettico, puro, ovattato rende partecipe il lettore del dolore, della solitudine e del vivere in bilico di Maria. Splendida la copertina essenziale.
Ho conosciuto Valeria Parrella per caso, ero andata ad assistere a un incontro con Diego De Silva e lei era lì. Questo un anno fa. Ho letto il suo libro solo ora perchè mi sembrava migliore come oratrice che non come scrittrice. Ho sbagliato, avrei dovuto leggerlo prima perchè mi è piaciuto tantissimo. Non ho nulla in comune con la protagonista, ho 20 anni di meno, vivo nel Nord Italia, non sono incinta, un mondo a parte, ma ha saputo coinvolgermi moltissimo. La Parrella scrive bene, alterna sapientemente momenti seri a spunti comici, l'attesa è ben descritta, così come l'atteggiamento dei medici in certe situazioni.
...anche se scrivo con la sinistra, e nessuno ormai se ne accorge, io però alla mano destra ho sempre tre dita in meno. Che sono la mia libertà, perché la mia normalità di prima era una pietra.
Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene: per quaranta giorni è stato come nominare la stessa condizione. Chiedere qualcosa ai medici era inutile, mi rispondevano: «Signora, non lo può sapere nessuno.» Io allora, che mi sentivo tradita perfino dalla scienza, richiamavo in automatico l'antico equivoco: mi guardavo intorno e vedevo un'umanità senza testa che consumava il suo tempo nella sala d'aspetto.
Non ho neppure capito bene se Irene mi mancava, la notte. Non avevo mai conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un'assenza che non sapevo riconoscere. La cercavo in come me la sarei immaginata, e non potevo. Non potevo guardare la parete della camera da letto e proiettarci l’immagine di una culla, finché il suo unico spazio era dentro la terapia intensiva. Io non avevo immagini.
3,5 ⭐️ Argomento piuttosto toccante ma lo avrei elargito meglio… non posso dare 4 stelle piene, ma comunque mi è piaciuto.
"Con le cose buone della vita non ero mai stata indulgente. Forse credevo di più alle sconfitte, sapevo affrontarle meglio: erano come le temevo, cioè come le avevo immaginate. Intorno alle cose buone facevo dei lunghi giri larghi tenendo sempre gli occhi altrove"
Magari gli alunni scarrafoni di "Io speriamo che me la cavo" sono gli stessi che, una volta adulti, siedono nei banchi dell'aula di Maria, la sera, per prendere una terza media tra gli stranieri che spesso e volentieri nel loro Paese sono già arrivati alla laurea. E' bello, questo racconto della Perrella, commovente come lo possono essere le storie che parlano di mamme e figli in situazioni delicate, di amore che si impara poco alla volta, nel dubbio che domani precipiti tutto. Sono belle le similitudini, anche con termini di paragone che non c'entrano niente, presi dal calderone delle cose di tutti i giorni. C'è il lieto fine, il dottorino con gli occhi molto blu e tutta una Napoli disincantata e ironica di fronte allo sfacelo. La rassegnazione sorridente e amara, quella del "che aggio à fà?", umana e dal cuore grande. Maria però è una "studiata", che tiene testa ai medici e che già da piccola sapeva che non sarebbe assomigliata alla madre. Alla faccia della storia d'amore che si sfoga nel matrimonio, del lavoro nella scuola canonica (del mattino cioè), della famigliola con tanto di prole attraente e superdotata, Maria sente solo un vago senso di inadeguatezza, un "non essere all'altezza delle aspettative di un mondo che manco ti piace". E quindi alla fine riesce.
"Io non so aspettare e non voglio farlo, nell'attesa i mostri prendono forma e si ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiostià nel dubbio, né fascino nella speranza..."
E invece Maria deve aspettare. Deve aspettare che sua figlia Irene, nata prematura e confinata nell'incubatrice, nasca davvero o muoia. E in quell'attesa, lo spazio bianco, cerca di continuare a vivere a volte riuscendoci a volte no, ostile ai medici che non parlano chiaro, al padre di Irene che è sfuggito alla responsabilità di quell'attesa, al dolore. Per lei il dolore è sempre stato "un inciampo, una cosa da mettersi davanti per superarla, per poi tornare a quell'altra vita." E invece ora rischia di non superarlo più. Di portarlo con sé per sempre.
Il personaggio di Maria mi ha conquistata per la forza con cui affronta la sua fragilità, per la sua indipendenza e la sua intelligenza. Portato al cinema egregiamente dalla splendida Margherita Buy (con regia di Francesca Comencini).
*Lo spazio bianco* di **Valeria Parrella** è un romanzo intenso e delicato che esplora il confine tra vita e attesa. La protagonista, **Maria**, è una donna sola che si ritrova a fare i conti con la nascita prematura della figlia, sospesa in un limbo tra la vita e la morte. In quello “spazio bianco” — l’attesa in ospedale, il tempo che non scorre — Maria ripensa a sé stessa, alle scelte, ai desideri, alle fragilità.
Con una scrittura asciutta e poetica, Parrella racconta la maternità come esperienza radicale, fatta di paura e amore, ma anche come occasione di rinascita. Un libro che parla di silenzi, di resistenza e del coraggio necessario per restare, anche quando tutto sembra immobile.
Cosí mi piacerebbe scrivere! Una storia pesante che diventa leggera, una protagonista sola che diventa il centro di un coro di voci protettive. Una trama che sembra addentrarsi nei gironi ospedalieri dell'immobilità e poi invece l'attesa diventa senso e piccola lotta quotidiana. Un romanzo sottilissimo (111 pagine) che condensa in una sensazione speciale una miriade di dettagli.
Un’attesa tutta femminile di una quasi madre che attende la quasi figlia..in uno spazio che non è ancora morte, ma nemmeno si può definire vita, per entrambe. Cinquanta lunghi giorni, raccontati in, non più di, cento pagine, in cui una primipara “attempata” di 40 anni, molto consapevole della sua imperfezione, dà alla luce una creatura, femmina pure lei. Il suo nome è Irene ed è nata, almeno temporaneamente, imperfetta come lo stato d’animo della madre, fino a che non si “completerà” in un’incubatrice. Per quanto? “LEI LO SA?” è la frase più ricorrente del libro. Lo spazio, in questo caso, è un concetto molto vicino a quello del tempo.
Un tempo fermo, asettico, come il reparto di ospedale in cui Maria, la protagonista, si troverà catapultata, ma anche il tempo di una città viva, contradditoria, e “infame” come Napoli. Pure la città viene immaginata da Maria: “ad aspettare in ogni ora d’ospedale”. In realtà, là fuori tutto scorre, inarrestabile come prima, incurante della sua momentanea o duratura assenza. Lei, di tanto in tanto, la gira la frequenta, la riscopre nei suoi scorci di mare nelle pause, ma non riesce più a rifugiarsi nella sua bellezza innegabile. Solo con il tempo ritrova la forza di frequentare la scuola media serale in cui insegna e riesce a ritrovare calore umano nelle persone più semplici, ma non meno “doloranti”, tradite, a loro volta, dalla vita difficile che la città offre loro.
La scrittura della Parrella è molto intensa, scarna, per nulla accogliente. Ha “un’arroganza di fondo”, come la stessa Maria, che tiene il lettore e la scrittrice Parrella fuori, testimoni muti, di ciò che sta avvenendo nella storia, come dietro ad un vetro. Lo stesso vetro dell’incubatrice, con cui Maria, “incazzata” con il mondo, deve avere a che fare tutti i giorni, per non perdere il contatto con la figlia. La Parrella è, fin troppo, attenta a non cadere nel facile sentimentalismo, sebbene tra le pagine più belle ci siano proprio quelle dell’abbraccio con la piccola che tutti ci aspettavamo.
Alla fine l’happy end lo concede. E, in fondo, capiamo che quello spazio bianco non è solo un vuoto, ma anche un punto da cui ricominciare. Lei stessa ce lo dice, suggerendo ad un allievo, che non sa proseguire il suo tema: METTICI UNO SPAZIO BIANCO E RICOMINCIA A SCRIVERE QUELLO CHE VUOI. Per quanto ho capito io, il senso è tutto lì. Continua su http://www.lasegnalibri.it/lo-spazio-...
«Potser només sentia el meu batec, acceleradíssim, que perseguia el seu, o ni tan sols això. Era damunt del meu braç, l'aguantava, em notava i jo li vaig somriure. No aquella ganyota que m'havia encastat a la cara des del primer moment, que era l'única variant socialment acceptable per fugir. Ben bé un somriure de quan, per un moment, a la vida, es produeix una cosa inesperada i plena i teva. Aquell dia vam descobrir el llenguatge.»
Angoscia. È questa la sensazione che mi ha accompagnata per quasi tutta la lettura di questo breve ma intensissimo libro. Maria partorisce Irene al sesto mese di gravidanza, forse vivrà , forse no. I medici non si pronunciano. In questi tre mesi vivrà in un tempo dilatato e fermo , scandito dalle visite in ospedale, dalle pause per fumare una sigaretta, dai viaggi andata e ritorno da casa sua. E dai ricordi. Quelli della sua infanzia e adolescenza; una madre che nel tempo si annulla come donna e lei che ripromette a se stessa di non somigliarle mai. Ma è davvero così ? Forse gli strascichi dei nostri genitori ce li portiamo appresso, attaccati sotto pelle. Potrebbero condizionare le nostre scelte future, il nostro carattere, il nostro essere. In questo libro permea il dolore, la rabbia di una donna che non credeva sarebbe mai diventata madre, invece si trova davanti ad un’incubatrice,in mezzo ad un vuoto che non vuole saperne di riempirsi, ad un tempo sospeso, in bilico tra il potrebbe essere che invece non è. Io non sono madre, ma a volte mi sono chiesta cosa si prova ad amare un figlio. È un amore totalitario? Ci si potrebbe dimenticare di se stessi in nome di una creatura che ha preso vita dentro di noi? La percezione del mondo e delle cose sarebbe diverso? E se la vita di questo figlio fosse appesa ad un filo, si potrebbe impazzire di dolore? Però oltre all’angoscia ho anche trovato parti di me. Come l’estraniarsi dal mondo intero grazie ad un libro. O il sentirsi spesso un passo indietro. Ma cosa più importante ho trovato la speranza. Il voler saltare un rigo,lasciare Uno Spazio Bianco tra il passato ed il presente. Per ricominciare. Perché a volte è necessario fermarsi un poco, prendere fiato, cambiare il tempo della frase e non usare più i verbi al passato ma al presente. Perché questo presente sono io. Ora.
Questo romanzo, breve, doloroso, bello, mi ha scavato dentro. La scrittura di Parrella è precisa, disegna come raramente accade in lingua italiana, non solo i contorni delle cose ma quello che vi è dentro, quello spazio bianco del titolo. La storia è quella di Maria, insegnante in una scuola serale di Napoli che a 42 , incinta al sesto mese si trova a dare al mondo una bambina che decide di chiamare Irene prima ancora di sapere se la bambina sarà morta o vivrà e se vivrà, come vivrà! Il romanzo disegna quello che si trova nell'attesa delle cose, quando le cose hanno così chiaramente un inizio. E la fine è tutto ciò che fa la differenza. Le parole della scrittrice mettono in scena le infinite possibilità della vita e il dolore che c'è nel non poter sapere. Nell'aspettare e sperare. Che sembrano due cose così banali, dette così! Ed è invece in quello spazio bianco dell'attesa e della speranza che ci divora il dolore, che si annida la bellezza.
The fact is my daughter Irene was dying, or being born, I didn't really understand which—for forty days it was like saying the same thing.
Maria, a teacher in a Neapolitan night school, has given birth to a daughter three months early, and now must try to get on with her life as she waits to see if the child will be able to breathe on its own and leave the hospital. Isolated from her regular family and friends, she slowly comes to form new bonds with her immigrant students, a young doctor, and the other waiting mothers. Really beautiful, minimally sentimental book about overcoming solitude and moving on to a new phase in life.
Più racconto che romanzo, 110 pagine del "solito" (per chi conosce l'autrice) spaccato di napoletanità al femminile. Il dramma della maternità difficile della protagonista mi è suonato un po' vuoto, quasi un esercizio di scrittura che una urgenza narrativa. Ma non c'è che dire, Parrella è proprio brava ed è un piacere da leggere.
Delicato e coivolgente senza dimenticare il mondo intorno, n� la propria storia. Bianco come il rumore bianco dei propri pensieri di fronte a una cosa pi� grande. Bella anche la copertina minimalista.
non so, non mi ha soddisfatta. mi pare che bussi senza aprire del tutto, e le porte sono tante - il reparto di terapia intensiva neonatale, la napoli suburbana, la scuola serale, i sentimenti. forse sarà che mi piace troppo che mi si spieghi, quando leggo. forse è colpa mia. forse.
Una scrittura forte e delicata al contempo per l’attesa di una donna nella terapia intensiva neonatale, forte e delicata come il suo personaggio. Molto bello.
Plot Maria is a 42-year-old woman who lives in Naples. She teaches literary subjects in a night school to foreign people. She is afraid of waiting and making choices. When she discovers that she’s pregnant she’s forced to stay in hospital for some months. Born prematurely, her baby is put in an incubator. In the hospital Maria meets a lot of people and in front of the incubator she starts thinking about her life and the future of her baby. She has a question for the doctors, but they seem to avoid her: “Will her daughter survive or die?
Review “Lo spazio bianco” is a book by the Neapolitan writer Valeria Parrella. The main characteristic of this book is the anguish of waiting for bad or good news. Maria lives in a suspenseful state. She would like to have her baby, but she is afraid of hoping. In those moments in front of the incubator, she thinks of her past. Her father worked at Cirio, a famous canning factory, and he participated in a lot of strikes to defend the rights of the other workers. When he was on strike, he didn’t receive any money. It was his wife who took care of the family, saving money. This is the reason why Maria is able to cope more with a defeat then with a victory. Her task is to take care of the losers. Meeting other people in the hospital and sharing their desperation and expectations will make her move to another phase of her life.
Conclusion In conclusion, a surprisingly well written book with a very good description of the characters. In the background there’s Naples with its beauty and its problems. What does the white space of the title mean? It is the blank spot in a note or on a paper. Apparently, there’s nothing in it. For Valeria Parrella it’s a space which contains all the other colours. You can write your future on it.
🖋️ Valeria Parrella 📘 L'agulla daurada 📖 112 pàgines 🏠 Regal de St Jordi
Vaig començar a veure aquesta novel•la per xarxes farà uns mesos i em va cridar l'atenció perquè parla de la vivènça d'una mare que pareix prematurament la seva filla.
Com a mare de bessonada que sòc i que vaig patir una amenaça de part a les 27 setmanes, que vaig aguantar fins a les 36 fent respòs i que tot i així vaig parir criatures de baix pes que van passar per nounats en menor o major mesura, tenia ganes de llegir aquest llibre.
La Maria es troba, amb 42 anys i sola, parint una nena, la Irene, 3 mesos abans del previst. De cop, la seva vida es posa de l'inrevés i les seves rutines passen de ser mestra en una escola d'adults a girar al voltant d'una incubadora i amb tots els neguits que suposa tenir una bebé tan prematura.
La pregunta constant de "Ho sap, vostè?" del personal sanitari cap a ella han aconseguit crispar-me de valent perquè m'han fet pensar en la de vegades que et fan creure que has validat un consentiment informat quan no saps ni què t'han dit, què faran ni què cal esperar-ne.
La Maria i la Irene estan envoltades d'incerteses, perquè ningú com se'n sortirà la petita, però la vida a nounats fa crear una xarxa d'ajuda mútua que et salva allà dins. I una bona mestra acaba trobant també una bona xarxa entre el seu alumnat.
✅ Passa el test de Bechdel ♀️ Posa en valor el recolzament entre mares que viuen una mateixa situació
Una storia straziante, dolorosa, commovente. Uno spazio bianco, qualcosa di sospeso, qualcosa che può essere riempito da mille emozioni, da mille parole, da mille silenzi. Per fortuna non ho vissuto questa esperienza ma, come mamma, mi sono sentita toccata nel profondo e questa attesa di morte o di vita di una creatura nata troppo presto, troppo presto strappata dal caldo involucro dell'utero, impreparata e sgomenta come la sua mamma ad affrontare la dura lotta per la sopravvivenza, mi è entrata nel cuore e lì la tengo al caldo e al sicuro. Anche tenere Irene in braccio per la prima volta non è stato difficile, doveva esserci un' istruzione genetica da qualche parte. Mi hanno detto "Si sieda", poi mi hanno passato i fili degli elettrodi, l'hanno avvolta in un lenzuolo e me l'hanno messa tra le mani. Senza pensarlo, senza pensare, io ho sentito che non avrei avuto più né fame né sete, che non avrei più avuto bisogno di fare l'amore. E che sarei potuta restare in quell'istante per quindici anni senza temere di aver perso tempo un solo giorno. Poi mi è venuto sonno.
Lo spazio bianco tra le righe, uno spazio di sospensione, una pausa che decreta la fine di un periodo e l’inizio di una nuova frase, di un nuovo presente. È li, in quel luogo di attesa, che si trovano Maria, un’insegnante quarantenne, e la sua bambina, Irene, nata prematura e ricoverata nel reparto di terapia intensiva neonatale. Così, tra una sigaretta fumata di nascosto, i piccoli momenti di condivisione con le altre mamme e l’osservazione della sua bambina dall’incubatrice, Maria aspetta che sua figlia muoia oppure decida di venire al mondo.
Un libro breve, ma molto intenso e doloroso, che parla di fragilità, speranza e lotta, affrontando un tema estremamente delicato e complesso.
“Abbiamo avuto confidenza con la morte, quella che imparano i soldati in guerra. Io me la sono augurata a volte, che venisse a mettere fine all’angoscia, che arrivasse riconoscibile e chiara, senza più dubbi né tentennamenti. E questo pensiero viveva nello spazio della speranza.”
Avevo visto il film molti anni fa, al cinema. Ho letto il libro solo recentemente dopo aver vissuto una esperienza non proprio simile ma quasi. Ricordavo la storia per sommi capi, ma leggerla dalle parole della Parrella è stata una breve e intensa esperienza, ché ti mette un in pace con il Mondo attorno a te. La capacità viscerale di saper raccontare l'animo di una persona in modo profondo, interconnesso con il contesto e senza mai cadere nella banalità o nella retorica, fanno dì questo romanzo una perla che assolutamente non può mancare nella vostra biblioteca, ma prima di tutto nella vostra memoria. 5/5
“Non ho neppure capito bene se Irene mi mancava, la notte. Non avevo mai conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un'assenza che non sapevo riconoscere. La cercavo in come me la sarei immaginata, e non potevo. Non potevo guardare la parete della camera da letto e proiettarci l'immagine di una culla, finché il suo unico spazio era dentro la terapia intensiva. Io non avevo immagini.”
“Mi sembrava che gli altri si lasciassero scorrere, mentre io ero come uno scoglio che dava intralcio alla corrente e da essa con odio si lasciava corrodere. Sono stata questa inutile fatica, e questa fatica non si è mai sciolta.”
Un libretto davvero breve e concentrato che non sono riuscita ad apprezzare. Il tema della maternità mi sembra trattato in maniera quasi morbosa, con un ritmo lentissimo; le pagine sono pesanti come macigni nonostante siano poche. In più l'autrice inserisce talmente tante sottotrame, storie parallele, flussi aperti che poi rimangono in sospeso, da creare uno scritto che parla di tutto e di niente. Non mi era piaciuta la Parrella di "Mosca + balena" e torna a non piacermi qui, mentre ho apprezzato molto "Almarina".
Finito ieri sera, credo sia un libro che necessita di una certa "digestione" per essere elaborato. Maria ha scelto per sé una vita libera da vincoli, ma si ritrova sola e incinta. La bambina nasce prematura e inizia così un periodo sospeso, di attesa, nel quale nessuno sa cosa accadrà. Maria va e viene dall'ospedale e vive un periodo sospeso, nel quale ricorda la sua vita. Poi, in fondo al tunnel, compare la luce. Così, si può lasciare uno spazio bianco e ... Ripartire a raccontare, ripartire a fare svolgere la vita che verrà.