Perché la parola "io" è diventata un'ossessione? Perché fare spettacolo di ogni istante del proprio vivacchiare? Giulio non lo sopporta, e soprattutto non lo capisce. Si sente fuori posto e fuori tempo. Ma di questa sua estraneità non si sospetta di essere un "rompiballe stabile", come lo definisce la fidanzata Agnese. In un'imprecisata pianura che fu industriale e non è quasi più niente, Giulio si aggira in attesa che qualcosa accada. Per esempio che qualcuno gli spieghi a cosa servono, se non a perdersi meglio, le rotonde stradali; o che qualcuno compri il capannone di suo padre, che fu un grande ebanista. Una bottega un tempo florida e adesso silenziosa e immobile, come un grande orologio fermo. Scritto quasi solo al presente, come se passato e futuro fossero temporaneamente sospesi, "Ognuno potrebbe" è il rimuginare sconsolato e comico di un vero e proprio eroe dell'insofferenza. Un viaggio senza partenza e senza arrivo che tocca molte delle stazioni di una società in piena crisi. Nella quale la morte del lavoro e della sua potenza materiale ha lasciato una voragine che il narcisismo digitale non basta a riempire.
mi dispiace leggere libri che poi non mi piacciono, e stavolta pensavo di aver scelto meglio. Di Serra avevo letto solo Gli sdraiati, e mi era piaciuta questa storia di padre-figlio e della loro incomunicabilità, del loro affetto silenzioso e a prescindere. Perciò mi sono detta che ci avrei riprovato con quest'altro. Ma a me gli uomini che parlano di uomini che si sentono ancora ggggiovani e che non sanno come crescere proprio non piacciono. Digerisco meglio tre chili di cozze, guarda. Insomma quello che mi è sembrato questo libro è una "fabiovolata" in tutto e per tutto. Per carità.
Se all'inizio mi pareva una profonda, seppure scoraggiata, riflessione sul l'oi nei tempi moderni; continuando a leggere la verbosità stilistica diventa pedante all'inverosimile. La tensione del protagonista tra due possibilità opposte (la negazione dell'io e la ricerca di un io più forte) potrebbe essere interessante in linea di principio, ma il pessimismo sempre più fitto rende il tutto deprimente, e sterilizza tutte le sue riflessioni. É stato difficile finire questo libro, mi deprimeva.
Una o uno che riproduce la propria immagine dieci o venti volte al giorno, da quando si lava i denti a quando mangia la pizza con suo cugino, e di ciascuna di queste dieci o venti immagini fa pubblicazione così da essere, ogni giorno, diecimila o ventimila volte percepito e magari altrettante volte ritrasmesso; una o uno che dice e scrive "io" a raffica, dappertutto, sempre, praticamente usando gli "io" come i punti del puntocroce che crivellano pian piano la tela; le due ragazze americane in jeans che nel forno crematorio di Auschwitz – le ho viste con i miei occhi – si fanno un selfie...
E altre cose che danno quel misto di fastidio e di imbarazzo (la parola che sto cercando è fremdschämen) al protagonista e, che diamine, anche a me. Di conseguenza questo romanzo mi è piaciuto. Eccome se mi è piaciuto. Riconosco che il protagonista, Giulio Maria, per certi versi sia un po' pesante e pedante: chiama lo smartphone egòfono, e non una volta o due ma sempre. Ma sa fare autocritica, a partire proprio da questo suo termine ricorrente. Ma al di là di tutto fa un'analisi probabilmente incompleta però esatta, ironica eppure dolorosa della realtà che lo circonda, quel disordinato conglomerato di rotonde, aree industriali più o meno dismesse, centri abitati di recente costruzione e altre brutture senza passato né futuro a cui si cerca di dare una patina fashion chiamandole non luoghi. E ovviamente dell'umanità che le popola. Può non far piacere sentirsi messi sotto accusa, avere il sospetto che i cinghiali in realtà siamo noi, per questo non mi stupiscono le critiche e le stroncature di "Ognuno potrebbe" che ho letto qua e là. Ma siamo onesti: possiamo dire che Giulio Maria esageri? Metto 4 stelline per quella cosa della pedanteria e perché, se proprio devo dirlo, non ho capito bene la metafora "astronomica" del capitolo finale.
Prima di iniziare questo libro, ero piuttosto scettica. Mi sono fatta (sbagliando) influenzare dalle recensioni mediocri e alcune addirittura negative. Eppure, mi ha piacevolmente sorpresa affezionarmi ai personaggi, a Giulio Maria, ai suoi genitori, ad Agnese, alla professoressa Oriani... Ho apprezzato anche lo stile leggero ma pungente di Michele Serra, che ti accompagna pagina per pagina. Per quanto ne riguarda il contenuto, niente di eclatante! ma comunque quasi mi dispiace che l'abbia già terminato. Tre stelline.
In questo libro ho ritrovato lo stesso stile ironico e spigliato che avevo riscontrato ne "Gli sdraiati": non ha una vera e propria trama, perché qui il protagonista disquisisce sul suo stato precario di giovane trentaseienne, ricercatore mal retribuito e sfiduciato del mondo in cui si trova a vivere ancora a casa dei suoi. Un mondo popolato da ''ego'', ''io'' e tecnologie fuori controllo, nel quale è più facile condividere con chi è lontano piuttosto che con chi ti è accanto. È uno spaccato sociale quanto mai reale.
''Do un’occhiata alle mail, dice Agnese sfiorando l’egòfono appoggiato sul tavolino del bar. Le dico: devi farlo proprio adesso? Perché, dice lei, che differenza c’è tra adesso e dopo? Che adesso sei con me, siamo seduti allo stesso tavolino dello stesso bar della stessa città alla stessa ora della stessa giornata. Volendo, possiamo parlare un poco tra di noi. O addirittura di noi. Proprio come fanno gli innamorati. Le dico.''
Avrebbe potuto presentarsi come una profonda riflessione sulla condizione dei giovani nella realtà contemporanea, perennemente sottoposti alla pressione sociale del “dover essere” e “dover apparire”. Purtroppo l’ho trovato essere, oltre che eccessivamente pessimista, un’analisi superficiale e approssimativa, condotta attraverso il qualunquismo della generazione di mezz’età che più di “ah ma i giovani d’oggi non hanno più i veri valori” non sanno dire. Ok, boomer.
Acquistato per la pura curiosità di conoscere un nuovo autore (tra l'altro molto apprezzato, per quanto ne so) e facilitata nella scelta dell'acquisto da uno sconto non male. Francamente, da uno che "non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere", mi aspettavo molto di più. Non l'ho ancora terminato, ma credo sia indicativo il fatto che ho sottolineato unicamente frasi, parole o espressioni che ho ritenuto troppo pretenziose, assurde (in senso negativo), scritte male, estremamente banali o quasi incomprensibili (per la scelta della punteggiatura o dell'ordine delle parti del discorso) piuttosto che le più interessanti, belle, evocative o significative (come invece faccio di solito). Il protagonista ha 36 anni, ma a me sta dando l'impressione di essere in realtà un ragazzino di 16. Non tanto per ciò che esprime, che fa notare un senso di "disadattamento" generale che "ci sta", ma più per i modi. Raramente un libro è quasi totalmente privo di attrattiva per me, ma questo... Non so, forse avevo aspettative troppo alte.
Non sono particolarmente amante della scrittura di Serra. Il libro si fa leggere ed anche scorrevolmente, su questo non c'è dubbio. I personaggi non sono riuscito a visualizzarli quasi per nulla, soltanto accennati, suggeriti. L'analisi/critica al modo di vivere contemporaneo l'ho trovata a tratti uno spunto interessante e a tratti approssimativa e.. Facile. Insomma, niente di nuovo o elaborato. È stato come leggere un lungo articolo da viaggio in metro. Senza nulla togliere a quel tipo di lettura che, però, mi aspetto da un altro tipo di pubblicazione.
Quanto pessimismo scorre in queste pagine devastate dalla mediocrità: dei luoghi, delle persone, delle esistenze. C'è, nell'avversione di Serra per l'individualismo contemporaneo, una rassegnazione non redimibile che allenta persino il piacere della lettura. Ma se siamo succubi della dittatura dell'egofono, non è colpa della tecnologia. E siamo ancora in tempo a raddrizzare il timone dell'umanità.
Per la legge dei grandi numeri, anche a me capita di leggere libri che non mi piacciono. O li abbandono, oppure gli dò un'ulteriore possibilità... e poi gli dò una stella.
E’ più che evidente che la “capannonia” di cui si parla in questo libro, un oceano scomposto di casette, strade dal destino imperscrutabile, bar, scampoli di campagna degradata e, ovviamente, capannoni di aziende per la più parte abbandonate e in crisi, corrisponde al mitico nordest italico, storica bestia nera di Michele Serra, di cui più volte, nei suoi articoli di fondo, ne ha parlato in termini tutt’altro che elogiativi: in particolar modo riferendosi al prezzo folle da pagare per l’arricchimento, fatto soprattutto di uno spaccarsi la schiena senza requie né limiti e di un degrado ambientale ugualmente devastante. Qualsiasi riferimento è taciuto, ma gli elementi da cui si ricava questa localizzazione sono moltissimi. In Capannonia si aggirano alcuni personaggi ben caratterizzati con pochi tratti di penna: il protagonista-io narrante, Giulio, un antropologo sociale di 35-40 anni, ovviamente privo di qualsiasi lavoro vero e qualsiasi prospettiva di ottenerlo, impegnato in un assurdo progetto di ricerca – per il quale, altrettanto assurdamente, l’università gli ha concesso finanziamenti – sull’esultanza post-goal dei calciatori; la di lui fidanzata, Agnese, una giovane barista dalla bellezza scolpita in bianco e nero, grande pragmatismo e poche questioni; l’anziana madre, vedova di un artigiano ebanista vecchio stile, di quelli per i quali il lavoro trovava in se stesso il suo perché, piuttosto che non nei soldi e nel profitto; l’anziana professoressa Oriani, accademica coscienza critica dello sfacelo, ma ancora capace di intimidire il suo cresciuto ex allievo che se la trova come inquilina in un appartamento ricavato nella villetta di famiglia; “le” Kaumakis, un’agente immobiliare venuta dall’Est europa, dall’identità quasi sdoppiata (da cui il plurale), una allegra e ottimista, l’altra triste e tragica. E soprattutto Squarzoni, l’anziano artigiano, vicino di capannone del padre, l’ultimo portavoce di quella cultura del lavoro inevitabilmente in estinzione nell’oceano di capannoni abbandonati, prima soppiantata dalla subcultura del profitto, e poi dal nulla della crisi, su cui allungano lo sguardo enigmatici imprenditori cinesi. Il libro è scritto piuttosto bene; forse è il primo vero romanzo che vedo uscire dalla penna di Michele Serra, nel quale c���è uno stile personale che rifugge dal tentativo di imitare Stefano Benni, e che nello stesso tempo trova il modo di dire le cose pensate creando situazioni e personaggi assurdi e allo stesso tempo realistici. A questo proposito, ecco un perfetto esempio del Serra-pensiero sul Nordest, da lui messo in bocca all’anziana professoressa Oriani: “Quando li senti latrare come cani tu guardali bene, Giulio. Se la tirano da padroni, ma hanno lo sguardo del servo. Se sono così arroganti, così furiosi, è perché sanno di essere servi per l’eternità, e più diventano ricchi più rimangono servi, e più rimangono servi più la loro ricchezza, invece di sollevarli, li fa sentire a terra”. Quanta differenza dal Nordest colto e signorile descritto da Claudio Magris nei suoi “Microcosmi”…
Carino ma non troppo. Non sono sicura che servisse un altro libro che tratta, in maniera anche parecchio superficiale, del fatto che la miseria sociale, lavorativa e strutturale del giorno d'oggi riesca ad essere riempita egregiamente dall'ego di ogni singola persona. Giulio è lo stereotipo del figlio di papà con un lavoro fuffa, lo specchio di tantissime realtà reali sul serio ma per davvero, dove il lettore si trova a spronare questo ragazzo senza arte nè parte nè voglia di cambiare, troppo pigro per fare un lavoro di fatica, troppo studiato per fare un mestiere umile, troppo poco studiato per avere un lavoro prestigioso, troppo disilluso, troppo fermo, troppo igniavo, troppo misero, troppo poco di tutto. In se e per se è anche scritto bene, si fa leggere, giulio ha anche dei momenti di simpatia dove riesci ad empatizzare con lui, ma la mancanza di prospettive finali è molto avvilente. Simpatica la scelta del cinghiale come "spirito guida" ruvido e sgraziato, che rispecchia perfettamente la disillusione di una generazione che non crede più nelle fiabe a lieto fine. Il soffice e buffo coniglio bianco che doveva farti riflettere sulla fugacità del tempo qui diventa un grosso cinghiale setoloso (cit.) che viene pure investito da una macchina e ti lascia lettermente a piedi. Ti devi arrangiare, ma al protagonista non riesce molto bene la cosa, se la caverà solo attraverso un deus ex machina personificato dal ricco cinese di turno che gli salva il culo. Giulio alla fin fine non sembra avere proprio nessun merito.
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Penso che "Ognuno Potrebbe" sia un libro mediocre, niente di più. Leggendo alcuni passi, mi sono rivista almeno in parte in alcuni comportamenti del protagonista (i capitoli 17 e 18 mi hanno colpita particolarmente), però questo libro non è riuscito a conquistarmi nemmeno per un istante. Capisco lo stato d'animo del protagonista (purtroppo, aggiungerei), ma per qualche strano motivo Giulio non è riuscito a guadagnarsi la mia simpatia e il mio supporto. Per il resto, molti episodi mi sono sembrati improvvisati e buttati sul foglio come capitava. In altre parole, non sono riuscita a estrapolare nessun significato preciso e nessuna morale (se così posso chiamarla).
"Ognuno potrebbe" di Michele Serra mi ha lasciato con una sensazione di distanza. Lo stile, per quanto scorrevole e ben costruito, mi è apparso meccanico, privo di quella spontaneità capace di coinvolgermi davvero. I temi trattati toccano corde che in parte mi appartengono, ma vengono affrontati in modo così distaccato da non riuscire a suscitare emozione. Ho proseguito nella lettura più per dovere che per piacere (ciò che si inizia va sempre finito). Nel complesso, un libro che stimola qualche riflessione, ma che non è riuscito a lasciarmi nulla di significativo.
Una perdita di tempo. Scrittura boriosa, a tratti sgrammaticata, libro sciapo, pieno di benaltrismo (davvero il signor Serra pensa che il problema dei giovani attaccati ai cellulari siano i giovani in sé e non la società, la politica, gli adulti?) e megalomania (egoriferita, forse?).
Comprato nel 2017, iniziato tre volte e poi abbandonato. Alla quarta l’ho finito e me ne sono pentita.
Serra è sempre capace di creare un po’ di magia nel suo racconto sempre così pessimistico. Nella sua rassegnazione rispetto ad un mondo che non va come vorrebbe. Ci prova sempre con un guizzo a reinvertire la lettura ma non ci riesce mai (questa volta dicendoci che ognuno è sulla terra per fare qualcosa di unico). Ma lasciandoci così. Solo con lo sguardo triste su questo mondo moderno uguale, narcisista e senza contatto umano.
''E quale sarebbe la sostanza della questione? Mi dice. La sostanza della questione è che il lontano sta diventando molto più importante del vicino, le dico. E siccome il vicino è la realtà materiale, e il lontano è solo un'astrazione, noi stiamo facendo deperire ciò che abbiamo a vantaggio di ciò che ci illudiamo di avere.''
Romanzo sotto tono di Michele Serra. Ho sempre pensato che Serra dia il meglio nei racconti brevi, ma GLI SDRAIATI era un libro riuscito. Questo non molto: troppi giri di testa del protagonista (anche se molte delle sue critiche alla società attuale sono condivisibili, perciò gli do una stellina in più) ed una trama piuttosto inconsistente.
L'ho letto in pochi giorni, scrittura scorrevole e riflessioni profonde e interessanti. Su alcuni punti l'ho trovato esageratamente polemico e pedante e non ho apprezzato particolarmente i personaggi, a mio parere, un po' troppo stereotipati
Sebbene non sia proprio il mio genere, è stata una lettura scorrevole e piacevole oltre che un' ottima lettura della società contemporanea in chiave tragicomica, 3.5 stelline!
Brevemente parla di un boomer che si arrabbia con la tecnologia e si sente la persona più intelligente del mondo a chiamare “telefono” “egòfono”. Dire che mi ha imbarazzata è poco