Prigioniero in Germania nell'ultima fase della Seconda guerra mondiale, vittima in prigionia di tubercolosi polmonare e tormentato fin dall'infanzia dalla inguaribile malattia della solitudine, quando viene assunto da una grande fabbrica del Nord, Albino Saluggia si illude di poter cambiare vita e finalmente di guarire da tutti i suoi mali. Ma l'ingresso nel mondo del lavoro si rivela per lui ben presto un guaio peggiore della disoccupazione e da questo momento l'esistenza di Saluggia si complica diventando un nodo di inestricabile follia. "Memoriale" (1962) è il capolavoro che sbaragliò le discussioni degli anni Sessanta sui rapporti tra letteratura e industria. La storia dell'operaio Saluggia si sottrae a qualsiasi modello ideologico e diventa, a distanza di anni, un capitolo della nostra storia.
Paolo Volponi was an Italian writer, poet and politician. He is the only author to have won the Strega Prize twice, in 1965 for La macchina mondiale (trans. as The Worldwide Machine) and in 1991 for La strada per Roma. In 1960, he won the Viareggio Prize for Le porte dell'Appennino and in 1986 the Mondello Prize for Con testo a fronte.
Primo romanzo di Paolo Volponi pubblicato nel 1962.
La storia si svolge all’indomani della Seconda Guerra. E’ il 1948. In un paesino piemontese vive un uomo triste con un nome triste (Albino Saluggia…). Reduce dalla prigionia in Germania, tubercolotico, ossessionato da manie di persecuzione e assolutamente solo. Non ha una nessuna relazione d’amore (e mai ne ha avute!), non ha amici e vive con la mamma, donna rinchiusa nel suo silenzio. Silenziosa, però, non è la fabbrica dove trova lavoro. Il rumore delle macchine sovrasta non solo le parole ma i pensieri.
” Il rumore mi rapiva; il sentire andare tutta la fabbrica come un solo motore mi trascinava e mi obbligava a tenere con il mio lavoro il ritmo che tutta la fabbrica aveva. Non potevo trattenermi, come una foglia di un grande albero scosso in tutti i suoi rami dal vento. La gente non esisteva più ed io pensavo che per quanto nella fabbrica si lavori tutt’insieme, stretti nei reparti, con le fresatrici su tre file ad intervalli regolari, e così i torni e le presse, o tutt’in fila nelle catene di montaggio o nei controlli, o si mangi in tanti alla mensa e si viaggi tutti sulle corriere, è difficile poter avere delle compagnie e degli aiuti dagli altri.”
Sicuramente un romanzo importante come testimonianza della crescita industriale del dopoguerra ma anche come metafora della condizione umana. Lettura per me sofferta. Triste, ripetitivo nelle sue ossessioni ed alienante come due ore alla catena di montaggio (di più non sopravvivrei). Tiro un sospiro di sollievo: il turno è finito.
E’ sempre capitato che in fabbrica io mi dimenticassi di casa mia e perfino di mia madre e mai che a casa io potessi dimenticarmi della fabbrica e del dottor Tortora.
Bellissima opera di “letteratura industriale” dove il passaggio conflittuale dalla civiltà contadina a quella industriale viene raccontato da un operario, reduce di guerra, malato fisicamente e mentalmente. La sofferenza, la solitudine, l’alienazione e il delirio di persecuzione si trasformano spesso in parole dettate dallo sguardo di un vero poeta.
L’importante è che le fabbriche, così come sono fatte oggi, annullano piano piano per tutti quelli che vi sono il sentimento di essere su questa terra, da solo e insieme agli altri e a tutte le cose della terra. Così si dimentica qual è il destino degli uomini e subentra un orgoglio sempre più profondo per l’organizzazione nella quale si è, per le macchine e per tutto l’ingranaggio che riesce a fare cose mai viste e pensate da un uomo.
Lo sguardo del poeta l’aveva colto, all’uscita del romanzo, Pier Paolo Pasolini, che scrisse in un suo articolo di giornale: “Io penso che nessuna voce di romanziere, in questi ultimi anni, abbia trovato la propria fisionomia con tanta precisione, con tanta purezza, con tanto potere di rivelazione”.
Uno dei primi giorni di ottobre, nel pomeriggio, scoppiò un temporale con molti tuoni, grandi per tutto il cielo e scrosci di pioggia a raffica. Eravamo ancora al lavoro e il temporale sembrava un guasto enorme della fabbrica, anche perché era saltata la corrente elettrica. Tutte le vetrate vibravano ed avevano preso un colore rosso fuoco; all’interno un buio verde avvolgeva le macchine e i reparti. I lampi facevano risaltare i telai del soffitto, i cavi, gli ingranaggi. Il temporale ci faceva vedere il corpo orribile della fabbrica, indifferente, alto, costruito e in piedi non per noi.
Scrissi di là il 27 marzo 2015, un venerdì alle 13.40
“ A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”scrive l’operaio Albino Saluggia nell’ultima riga del suo memoriale. A quel punto l’impressione di trovarmi di fronte a un capolavoro (sottovalutato) era una certezza assoluta. Che Volponi fosse stato un sinistrorso l’ho saputo (l’ho ricordato) solo dopo aver preso in mano Memoriale, perciò non mi si può imputare la faziosità. È certo che durante il tempo della lettura sono stata costantemente sovra-pensiero come se le sensazioni(forti) e la loro elaborazione non avessero la benché minima intensione di lasciarmi a sfaccendare in pace, con conseguenti frittate bruciacchiate e affannate ricerche degli occhiali “casa casa”. Ho incrociato casualmente Volponi nel 2002, credo in seguito alla recensione sulle pagine culturali del Manifesto per l’uscita dei suoi Romanzi e Prose, nella NUE (meravigliosa collana Einaudi, scomparsa all’arrivo dei nuovi capitani d’industria, perché con la cultura non si mangia). L’ho comprato e messo in lettura e poi abbandonato e infine dimenticato. Erano anni in cui, il mio essere una fetta di prosciutto tra due di pancarré (figli adolescenti e genitori anziani) e per giunta e fortunatamente lavoratrice, non mi permettevano di andare dietro all’illusione di essere una forte lettrice. Quando un gdl lo propone, corro agli scaffali del settore “Italiani”della libreria, ma tanta è la confusione sotto quel cielo che è stato più semplice comprare il tascabile. Chissà se allora sapevo qualcosa di più di più di Volponi al di là d’essere stato deputato del partito di cui avevo la tessera. Ne dubito, altrimenti non mi sarebbe sfuggito dalla mente così facilmente. Maturità nel ’70, e non era allora nel novero dei grandi della letteratura italiana e non lo è diventato neanche in seguito, come ho scoperto, rubricato già dal “famigerato” Menabò come uno scrittore della civiltà industriale. Limite e peccato originale di uno scrittore colpevole d’essersi tenuto alla larga dai postmodernisti e dalla loro stucchevole leggerezza dell’essere; condita anche, che non guastava, da una tenace volontà a rendersi incomprensibili al di là della mera analisi logica del periodo. Volponi non è un intellettuale astratto, per lui la cultura è lavoro e humanitas. La sua scrittura è complessa, pastosa, a tratti lirica o meglio epica, quell’epica che ci ha dato i primi e più bei romanzi dell’umanità. Mai involuta e aggrovigliata. Agli austeri critici e ai severi militanti della letteratura elitaria, guida del pensiero unico, mancava l’umiltà di riconoscere che l’unico sistema di segni per comprendere “la storia come realtà materiale” è proprio la letteratura che non deve temere di sporcarsi le mani. La storia è il set in cui si gira il film della vita di miliardi di esseri umani. A volte sta sullo sfondo, a volte interferisce pesantemente, ma nessuno si farà carico di queste vite anonime sbatacchiate dalla storia, ma carne e sangue, se non gli artisti. Lo sfondo del Memoriale di Volponi è il mondo di Volponi: l’Olivetti dove lui era una specie di direttore delle risorse umane. Il povero Cristo che il memoriale lo scrive è l’operaio Albino Saluggia affetto da un disturbo paranoide. Lo scrive in una lingua che è “colta” nella misura in cui ci si è dimenticati che la lingua non omologata, anche quella dei cafoni, si esprime attraverso metafore. Quella di Albino è prevalentemente metaforica tanto da farci sorgere il sospetto che Volponi si fosse messo a scrivere sotto dettatura del suo personaggio. Chiariamo subito che il poveretto non è pazzo, come comunemente viene inteso il paranoico, cioè de-realizzato e allucinato. E’ in grado di ragionare, di condurre gli atti quotidiani, capire la realtà che lo circonda e interpretarla come tutti facciamo ma distorcendola a uso e consumo della sua mania: quella di persecuzione. Tanto da farlo etichettare da coloro il cui ombelico è il centro del mondo come irriducibile e piagnona vittima del male di vivere. Albino non è il campione dell’alienazione nata nella catena di montaggio. Non è un personaggio esistenzialista. Non sogna di ritornare alla vita dei campi per sfuggire all’industrializzazione ma piuttosto ai suoi nemici, che ha individuato nei membri dell’infermeria della fabbrica. Alle fantasie di fuga si alternano quelle di spasmodico desiderio di ritornare in fabbrica sano, per rivalsa sui suoi persecutori servi dei padroni che, con la falsa diagnosi di tubercolosi, si prestavano al loro disegno di annientamento non della classe operaia, ma dell’operaio Albino. Lui è un caso clinico, lo sarebbe stato in qualsiasi caso anche se rappresenta la condizione dell’operaio nella fabbrica neocapitalistica. Alla reificazione industriale si sovrappone la paranoia, e quella è vista e esperita attraverso quest’ultima. Non è un donchisciotte che lotta contro la disumanizzazione della catena di montaggio, né la subisce. E’ l’uomo del sottosuolo, il misogino, paranoide uomo del sottosuolo di Pietroburgo. Ciò che dice sono verità ma sue verità. Senza perdere però lo sguardo lucido sul resto della realtà. La fabbrica è quello che è. Anche quella di Ivrea, un modello, non riesce a essere quello che vorrebbe. I tempi e i modi del capitalismo la travolgono; arrivano gli scioperi e anche i celerini, convincendo finalmente Albino di non essere il solo perseguitato. Il linguaggio del volantino della Fiom – simile a quelli che negli anni del reflusso avrebbero bollato col termine “ deliranti” - lo fanno sentire per una volta parte di un tutto:” … mi pareva di averlo scritto io, parola per parola, in tanti anni di lotta in fabbrica, con ognuna di quelle parole sgualcite e nere … quindi tanti altri erano nella fabbrica nelle mie stesse condizioni”. Scopre in sé solidarietà e voglia di lottare ma per poco. La sospensione dal lavoro lo fa ricadere nella paranoia: nessuno potrà salvarlo. Niente di più vero nel disturbo paranoide. P.S. Ringrazio di cuore e mi scuso- con chi è arrivato fino alla fine.
Non era il momento giusto, credo. Mentirei se dicessi di non averlo apprezzato, ma farei altrettanto dicendo d'averlo amato. Eppure aveva tutte le carte in regola per farmi innamorare: secondo Novecento italiano, autore olivettiano e un po' irregolare; la fabbrica, l'alienazione, la malattia.
Non sono riuscito a entrarci in sintonia; a momenti ho quasi fatto fatica ad andare avanti, anche se interromperlo mi pareva troppo. Infatti l'ho finito, ma senza eccessiva soddisfazione, sebbene ci abbia trovato dentro delle splendide pagine, mentre altre mi sono parse 'di troppo', che nel complesso me l'hanno fatto diventare un po' respingente: forse voleva anche esserlo, non lo so. O magari è semplicemente più invecchiato di altri romanzi a lui coevi.
Di certo è un libro che va letto, e un giorno ci ritornerò senz'altro, come ritornerò su qualcosa del Volponi, che sono certo avrà in serbo qualcosa di scritto apposta per me.
Pessimo. Questo libro sulla vita di un reduce di guerra nel nord Italia che va a lavorare in fabbrica sprigiona un’energia negativa che manco un picnic sotto il reattore di Chernobyl nel ’86 ti farebbe ingoiare tanto veleno.
Il protagonista è un ipocondriaco flaccido, senza un briciolo di spina dorsale, che passa il tempo a frignare e a fare la vittima come se fosse il re dei martiri. Uno così farebbe perdere la pazienza pure a uno psichiatra con trent’anni di esperienza.
So che era di moda lo stile “uomo pieno di problemi” negli anni 60… ma avete presente quei conoscenti che vi attaccano bottoni sui loro acciacchi? Ma perché caspita uno dovrebbe leggersi tutto un libro così?
Ma dico io… non ti va di sudare in fabbrica? E allora piantala di piagnucolare e vai a zappare un orto, che ti fa pure bene all’umore! Soprattutto se siamo nel 1946 e non hai moglie, figli o un cane che ti aspetta a casa.
Macché. Questo Zeno Cosini dei poveri si trascina per i capitoli facendosi delle pippe mentali così enormi che Leopardi, al confronto, sembra uno spensierato zuzzurellone.
Certo, capisco l’autore, documentare la vita operaia ha il suo perché, è storia, è cultura, ed è importante.
Ma non così, per favore, non attraverso gli occhi di questo mollusco umano. Scegli un eroe con un po’ di fegato, non un lamento con le gambe…
Non capisco il perché di questa scelta, che in verità si inserisce in tutto un filone letterario, sia italiano che francese, popolato di protagonisti dalla lagna facile.
Il linguaggio è snello, elegante, un piacere da leggere. Le descrizioni dei paesaggi sono spesso liriche, ti viene quasi voglia di incorniciarle.
Ma il romanzo, nel complesso — come la corazzata Potemkin — è una cagata pazzesca.
Mi fa sorridere che quelli a cui è “piaciuto”, nelle loro recensioni qui su Goodreads, mettono tutti pezze e dicono: “eh be’, insomma, ammetto che ho fatto un bel po’ di fatica” …. oppure: “è molto pesante, però bellissimo!!”.
Insomma… Una palla mostruosa.
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Awful. This book about a guy who comes back from WWII and goes to work in a factory in northern Italy oozes a negative energy so toxic that not even a picnic under the Chernobyl reactor in ’86 would pump this much poison into you.
The protagonist? A flabby hypochondriac with not a shred of backbone, whining and playing the victim like he’s the king of martyrs. A guy like that could drive even a psychiatrist with thirty years under their belt up the wall.
I mean, come on—if you don’t want to sweat it out in a factory, quit your griping and go dig in a garden! It’d do wonders for your mood, especially if it’s 1946 and you’ve got no wife, kids, or even a dog waiting at home. But nooo!
This poor man’s Zeno Cosini—who’s about as “proletarian” as I am an astronaut—drags himself through the chapters with mental gymnastics so colossal that Leopardi looks like a carefree goofball by comparison.
Sure, I get it—documenting working-class life has its value, it’s history, it’s culture, it matters.
But please, not through the eyes of this human jellyfish. Pick a hero with some guts, not a walking complaint!
I don’t get why they went with this choice, though it fits into a whole literary trend—Italian and French—stuffed with protagonists who can’t stop moaning.
The language? Lean, elegant, a joy to read. The landscape descriptions? Often poetic, almost frame-worthy.
But the novel as a whole—like the Battleship Potemkin—is an absolute stinker.
Even the folks who liked it, in their Goodreads reviews, go, “Well, uh, it was a bit of a slog…” or “It’s really heavy, but so so beautiful!!”
L’esordio di Volponi, pubblicato nel 1962, è un romanzo nevrotico, complesso, senza speranza, filtrato attraverso l’ottica straniante e paranoica del protagonista. Il racconto in prima persona è in bilico tra lucidità e follia, tra realistico e paranoico, con un’intensità espressiva memorabile. Non una lettura del tutto agevole per il carattere ripetitivo/ossessivo che talvolta mi ha anche un po’ annoiato, ma che ripaga con ampi frangenti di meraviglia narrativa e una marea di sottolineature. Ottime in particolare le descrizioni dei paesaggi, che si infilano tra le trame oscure della congiura, le manie di persecuzione e le storture del sistema sociale. Può avere vagamente a che fare con La coscienza di Zeno, Il male oscuro, La paga del sabato; ma secondo me anche con Houllebecq, per il racconto della solitudine, dell’incomunicabilità e in generale della difficoltà delle relazioni nella società contemporanea.
”Il lavoro stesso non dava alcun aiuto; non richiedeva l’accompagnamento del pensiero, andava avanti per conto suo tirando le nostre mani perché nella fabbrica non era possibile fare altro. I discorsi che si facevano erano anch’essi un’abitudine, sempre gli stessi. Solo quando il lavoro stava per finire e s’aspettava l’uscita pulendo le macchine e riordinando i posti, si allentavano le smorfie e i discorsi diventavano diversi, più larghi, anche se solo di due parole. Soltanto dopo l’uscita sembrava di vedere nella fabbrica finalmente degli uomini; […] Adesso posso dire che a forza di pensare a me e alla fabbrica ho fatto molte riflessioni che mi sembrano giuste, anche per tutti gli altri che lavorano con me. Solo ora capisco che i problemi della paga oraria, del cottimo, del posto qui o là, contano relativamente poco e non sono quelli che dispongono della nostra vita nella fabbrica. L’importante è che le fabbriche, così come sono fatte oggi, annullano piano piano per tutti quelli che che vi sono il sentimento di essere su questa terra, da solo e insieme agli altri e a tutte le cose della terra. […] Tutta l’industria, cioè, deve essere controllata, o invece di essere un mezzo per stare bene su questa terra, potrà essere il fine di starci male o il mezzo di uscirne.”
Albino Saluggia, l’estensore di un memoriale a posteriori, coglie l’essenza alienante nel lavoro di fabbrica, nonostante abbia riposto in questo, almeno per un certo periodo, fiducia nella possibilità di migliorare la propria condizione; ma Albino Saluggia non è propriamente un uomo lucido, bensì un uomo malato di tubercolosi, paranoico e con un problematico rapporto con la madre e con le donne in generale. È convinto di non essere malato e che i medici della fabbrica lo facciano passare per tale, in un delirio persecutorio. Siamo nell’immediato dopoguerra e il Saluggia è reduce dalla prigionia durante la quale, probabilmente, ha contratto la tubercolosi; ottiene un posto di lavoro in una industria di X, presumibilmente Ivrea, e sviluppa per esso un rapporto ambivalente. Da un lato, l’azienda sottopone Il Saluggia a continui esami e cure e prolungati ricoveri in sanatorio e soggiorni estivi in montagna, mantenendogli in buona parte stipendio e indennità, dall’altro questo attenzione sembra assumere connotati anche vessatori e di controllo personale: alienazione non solo per il lavoro, ma anche dalla salute. Saluggia è un uomo terribilmente solo, che non riesce a stabilire relazioni amicali proficue con gli altri operai, ma neppure relazioni affettive con le donne, a partire dalla madre con la quale sviluppa un comportamento ambiguo. Volponi si ispira a un episodio realmente accaduto, nel periodo in cui lavorava alla direzione del personale della Olivetti di Ivrea, e ne trae un libro intenso e angosciante.
Potrebbe essere la storia di un paranoico qualunque, di quelli legatissimi alla madre e misogini, reduce dalla guerra e incapace di reintegrarsi nella società e invece c'è tutto un ambiente, intorno, che amplifica la solitudine, non solo perché l'ambiente di fabbrica sarebbe alienante di per sé, ma proprio perché questa fabbrica ha una parvenza di volto umano. A me ha messo molta tristezza, ora, che gli operai quasi non ci sono più, che quel sogno industriale si è schiantato, leggere di quell'ambiente che sembra così lontano nel tempo. Ma non è una critica a quel mondo, è solo la storia di una lucida ossessione, narrata con toni lirici e accorati
Una narrazione in prima persona, forse iniziata come curioso esperimento letterario (cosa succede se mettiamo un tisico eroe romantico nell'Italia del dopoguerra? ), che esplode in un crescendo di fiammate iperrealiste - un caleidoscopio rivelatore in cui attraverso la paranoia del protagonista, prolungamento di un'adolescenza distrutta, e l'impermeabile follia del mondo intorno, si percepisce la filigrana di una realtà terribile e grottesca
Un romanzo duro e straziante, una discesa nel buio di una mente sconnessa che lascia lividi e ferite anche nel lettore più tosto. La fabbrica, la condizione operaia sono ormai temi svaniti da ogni orizzonte culturale, quindi questo grande libro di Volponi vale ancora di più, perché ci mette davanti al problema esistenziale e umano della fabbrica. La fabbrica come luogo inumano, impossibile da vivere anche con le migliori intenzioni e le migliori strutture - forse una velata critica all'utopica azienda di Adriano Olivetti, per la quale Volponi lavorò? In ogni caso più che un romanzo sulla condizione operaia, questo è un romanzo sulla condizione umana e sullo iato traumatico tra società contadina e antica e mondo moderno e industriale.
Un libro faticosissimo. Perché faticosissimo è il percorso che fa Albino Saluggia, protagonista del primo romanzo di Paolo Volponi del 1962, durante tutto il romanzo. Non credevo di arrivare alla fine ma invece il libro è bello. E lo capisci dalla poesia delle parole, dalla profondità dei pensieri di Albino, dall'intensità dei sentimenti. Che alla fine arriva. Arriva. E inizi a seguire il suo percorso e piano piano come lui arrivi, lentamente e faticosamente, ma arrivi.
• Memoriale di Paolo Volponi racconta la vicenda di Saluggia, reduce di guerra fragile nel corpo e nella mente che cerca nella fabbrica un nuovo inizio e trova invece il luogo della sua condanna.
• L’ingresso in quel mondo segna un trapasso definitivo. L'ambiente industriale diventa organismo ostile, chiuso e ferreo che genera angoscia e sospetto.
• "La fabbrica è chiusa, di ferro: dentro passa il tempo dalle sette alle diciannove; ma tutto è fermo come tutto è di ferro" scrive Volponi con precisione, dando al tempo della produzione un senso di immobilità disumana.
• Il ritmo di lavoro è ossessivo e dettato dal meccanismo che riduce l’uomo a funzione ripetitiva. "Tre pezzi due minuti. Novanta all’ora. Oltre mille al giorno […] il lavoro pesa. Anche a macchina pesa". Così ogni gesto si annulla, il corpo si fa ingranaggio, il pensiero si frantuma.
• Da qui prende forma una parabola di dissoluzione. La malattia fisica e quella mentale si intrecciano fino a sovrapporsi, come se il lavoro stesso inoculasse follia.
• La campagna rimane memoria fragile, immagine di un mondo che sembra remoto e irraggiungibile. L’incipit la restituisce con naturalezza domestica: "Scrivo, stando a casa mia, a Candia nel Canavese, in provincia di Torino. Questa casa è fuori del paese, verso il piccolo lago di Candia; ma un poco spostata a sinistra, tra paese e lago, verso la collina; è una casa di campagna con un poco di orto, la sua loggia di mattoni rossi, il fienile e la stalla abbandonati, dove vivono in disordine alcune galline, due galli e una famiglia di conigli, quasi selvatici". Il lago e l’orto e la collina sono segni minuti che assumono il valore di reliquie, presenze di un altrove che si vela di malinconia.
• La prosa di Volponi non indulge mai in sentimentalismo retrospettivo. È tesa, scabra, non consolatoria ma anche lirica.
• In questa tensione tra corpo e macchina si gioca il destino di Saluggia. La modernità industriale promette rigenerazione ma si rivela catena. L’alienazione non è solo psichica ma anche materiale, imposta da un ordine che inghiotte l’individuo. La paranoia del protagonista è la risposta a una prigionia reale e non una deformazione della sua mente fragile.
• Una riuscitissima fusione tra eleganza espressiva e denuncia sociale. L'Italia che ne esce è un paese che entra nella modernità industriale ma sacrifica il legame con la terra e con se stesso.
”My troubles began...” are the first words in the book and, for the luckless narrator, you just know they are never going to end.
Originally published in 1962, Memoriale (The Memorandum) was Paolo Volponi’s first novel and concerns itself with the young Albino Saluggio, newly released from a prisoner of war camp and about to start work in The Factory. Things are not so bad to begin with, but the factory doctors insist Albino is not a well man, leaving him to fight hopelessly against the doctors, The Factory, and an ever-increasing tide of lies, plots, and conspiracies.
It may sound like a political novel, or a dystopian fantasy, or a satire, or an existentialist tract, but The Memorandum defies any easy interpretation, since poor Albino is neurotic, increasingly paranoid, and in denial about his real troubles with tuberculosis. As far as we can make out, The Factory and its doctors are entirely benign, guilty only of sending him on expenses-paid holidays in alpine sanatoria. But Albino is having none of it. The plots and conspiracies are clearly fantasies...but not to Albino.
It’s an ambiguous novel and of some interest for that reason, but being stuck with Albino and his incessant complaints does become a little tiresome – at least for this reader. I did, however, like his occasional, slightly offbeat perceptions. Here’s an example:
“It was an ugly winter, dark and nervous, a winter of ugly watery snow and fog. The factory remained clean, with its shiny heavy doors and corners where neither winter nor night could ever penetrate. I was the only one in the factory aware of that hostile winter but more than hostile, barren and unreal. Perhaps there were others who were also aware. I was nearly convinced of their existence when I caught sight of someone with staring eyes and still hands. Then I would begin my winter song, the wind, the snow, the rain, the creaking cold. I discovered the notes in all the noises and sounds of the factory. This is how I spent my winter and managed to bear the passing days. The women brought me the snow in the small lost silver sounds of their drills. I could even distinguish the sound of the lake as it tumbled noisily about my head and cascaded down from the upper level of the Assembling Department.”
Good stuff. Wish there were more of it...but sadly very few of Volponi’s later works have yet been translated into English.
Mannaggia a te Marco Damilano che quella sera quando per caso guardavo propaganda ti sei portato dietro questo libro nel tuo “spiegone” e lo hai citato quando quella giovane ragazza è morta in un macchinario a Prato. Mannaggia a te che mi hai lasciato la curiosità di leggere quel volume con quella copertina così cupa. E mannaggia a me che l’ho letto adesso, in un periodo della mia vita in cui questo libro chiaramente non lo dovevo leggere nemmeno da lontano perché troppo pieno di pensieri, di incertezze, di pessimismi e paure. Mannaggia a me che ogni volta che leggevo la discesa all’inferno di Saluggia mi sentivo aggrovigliare dentro nella sua solitudine, nel suo pessimismo, nei suoi complottismi. Come delle sabbie mobili da cui non riuscivo ad uscire. Ho anche pensato di mollarlo (e allora avrei davvero detto mannaggia a me, non si mollano i libri a meno di casi eccezionali) ma alla fine l’ho finito, ho dovuto finirlo e posso dire senza dubbio che sto pure peggio di quando ho cominciato a leggerlo. Quindi mannaggia anche a te Paolo Volponi che l’hai scritto.
Il sistema ti logora con i suoi ingranaggi, prende di mira i tuoi punti deboli e ti lascia inerme di fronte a ciò che per altri è solo vita, mentre per te un’eterna prigionia.
Il ritmo si alterna e ritorna sempre lo stesso in questo romanzo che già racconta molto di ciò che il capitalismo ha fatto, fa e farà alle persone: le renderà schiave di un meccanismo da cui pare impossibile liberarsi.
Per quanto il protagonista possa sembrare esorbitantemente paranoico e impaurito dalla vita, i suoi sguardi sul mondo, sulla natura e sulla tristezza della sua esistenza sono altamente profondi. Albino è un uomo sopravvissuto al secondo conflitto mondiale. Un uomo che ne ha viste e ne ha vissute rinchiuso in un campo di prigionia, e si ritrova a rivivere in un'Italia che offre lavoro e dolore insieme. Non c'è giustizia nella vita, dice Albino, e non c'è giustizia nel lavoro: non c'è uguaglianza tra lavoratori. Ma gli stessi, vengono sempre suddivisi in lavoratori di classe A, principalmente spioni e venduti, e lavoratori di classe B, coloro che magari lavorano rompendosi le mani per portare pane in casa. Ho amato e apprezzato l'ultima parte del libro, in cui finalmente Albino capisce che "nessuno può arrivare in suo aiuto" e mi piace pensare che questa frase venga detta da un lavoratore che si sente abbandonato al suo destino, e non solo da un uomo perseguitato dai suoi Mali. Albino ha racchiuso dentro se il dolore e l'urlo di tutti gli UOMINI, costretti a subire ancora oggi, dopo anni, le ingiustizie della vita lavorativa.
A very slow read...but worth the effort for its first-person tale of a tubercular peasant in the immediate post-war economic boom of Italy...in this case, a factory in Turin...& his obsessive struggles with unreliable doctors, awkward fellow-workers & his traditional mother! Volponi writes lucidly about both his hero's rural roots, the countryside & traditional Piedmontese manners, & the stultifying & life-altering effects of the new, factory-oriented, politically-charged mentality of Italy's working-classes, torn from their rustic roots by the modern, consumerist consensus. It's a battle the protagonist, Albino Saluggio is destined to lose. Painfully self-flagellating in parts, it captures the terrible years of a sick man's eventual surrender to forces more uncompromising & unsympathetic than he can ever be.
Ambientato negli anni che seguirono la seconda guerra mondiale, il racconto dell’operaio Albino Saluggia, psicotico paranoico, è per qualche aspetto interessante, ma perlopiù ridondante, pesante, stancante…
2.5/5 stars. This just wasn't really my book... Also, in general I'm not a big fan of these Italian books from the 60s in which men profess their hate towards women (mind you, most of them are not married. Now why would that be?)
Volponi trovò ispirazione in una lettera inviata da un operaio torturato dalle proprie manie di persecuzione, e così scrisse di Albino Saluggia, reduce di guerra che trova lavoro in una fabbrica, molto simile alla Olivetti di Ivrea, presso la quale lo stesso Volponi aveva lavorato. E' un romanzo geniale, con tutte le ansie, i nervosismi, gli atteggiamenti maniacali e le ossessioni del protagonista, che in prima persona racconta la sua vita, l'alienazione dell'operaio, la malattia che egli crede di non avere e che i medici gli attribuiscono nel tentativo di torturarlo. Il lavoro di Volponi è splendido, magistrale, ma sicuramente non piacevole. Le nevrosi di Albino Saluggia non sono piacevoli, non è piacevole il suo essere infantile, credulone, menefreghista ed ingrato. Eppure c'è qualcosa che tiene il lettore incollato alle pagine, forse la speranza di una rendenzione del personaggio, o perlomeno della fine di quelli che egli chiama "i miei mali".
4.5 Letto anche questo per Letteratura italiana contemporanea, una piacevole sorpresa! La storia di un contadino che soffre di nevrosi e di tisi che, dopo essere tornato dal fronte, cerca di farsi una nuova vita entrando a lavorare in una fabbrica. Nonostante sia molto introspettivo, non l'ho trovato per nulla pesante e, anzi, mi ha catturata da subito.
Lamento di Saluggia. Il conflitto tra mondo contadino e città industriale nelle memorie paranoiche e allucinate di un emarginato in cerca di appartenenza. La fabbrica peggiora le cose. E allora c’erano anche i diritti. #TweetReview
Un libro di cui ho compreso e apprezzato il valore storico-letterario, ma che ho trovato un po' faticoso per la ripetitività dei temi, delle azioni e dei pensieri del protagonista.
Secondo dopoguerra, provincia di Torino. Albino Saluggia, sopravvissuto a un campo di prigionia in Germania durante la guerra, desidera disperatamente di essere assunto in fabbrica: diventare un operaio qualificato significa per lui riscattarsi da un'esistenza sofferta, inquieta; la fabbrica diventa una promessa di normalità, un'occasione per sentirsi nuovamente sano, finalmente guarito dai mali che lo angosciano (dalla tubercolosi, certo, ma anche dalla profonda solitudine che lo accompagna sin dall'infanzia). La fabbrica dunque cura, risana, restituisce un'integrità perduta. Contemporaneamente, però, essa rovina, disgrega, spersonalizza. Albino, infatti, sprofonda presto nella più cupa alienazione: "[...] le fabbriche, così come sono fatte oggi, annullano pian piano per tutti quelli che vi sono il sentimento di essere su questa terra". Trascorrono i mesi e il rapporto con la fabbrica si fa sempre più ambiguo: mentre descrive con grande lucidità la spersonalizzazione del lavoro operaio, continua a considerare quel lavoro l'unica possibilità per vivere una "vita completa" e si angoscia all'idea di essere allontanato dalla fabbrica a causa della sua salute precaria. I medici diventano così i suoi aguzzini: è convinto che essi abbiano ordito un complotto a suo danno, che falsifichino le lastre per impedirgli di prendersi la sua rivincita contro tutte le ingiustizie subite. I suoi pensieri scivolano vorticosamente in un delirio paranoide, si avviluppano su se stessi, si ripetono ossessivamente. Alla fine, viste le sue gravissime condizioni di salute, gli viene assegnato il ruolo di "piantone":
"Mi misero così fuori della fabbrica a guardare l'ombra sui muri. Un uomo ancora giovane con la consegna di guardare uno spigolo, nemmeno come una guardia ma come un piantone, che non è una pianta che vive ma un paletto secco piantato. Nessuno mi avrebbe dato un altro lavoro ed io ormai, io e le mie sventure, appartenevo alla fabbrica che aveva sempre continuato a rovinarmi e a curarmi".
Non una pianta che vive, ma un paletto secco: viene meno, in queste righe, anche la possibilità di risignificare la propria esistenza nel rapporto con il mondo naturale, che per tutto il romanzo fa da controcanto lirico all'aridità della vita in fabbrica. Ormai Albino è "proprietà della fabbrica" e nessuno può arrivare in suo aiuto.
L’elemento di maggior pregio del libro è a mio parere anche il suo più grande limite. Mi ha colpito molto infatti (in positivo e in negativo) l’incredibile coerenza stilistica, narrativa e tematica. In questo modo Volponi riesce a rendere in maniera eccellente la vita alienata e isolata di un operaio, reduce di guerra, e dell’aggravarsi dei suoi mali veri o presunti a causa della spersonalizzazione del lavoro in fabbrica durante il periodo del boom economico. Per il protagonista Albino Saluggia la fabbrica era una speranza,una redenzione dai mali fatti e subiti in guerra. E invece i “mali” veri o inventati,fisici o mentali che lo attanagliano non solo si aggravano ma rendono più lucida (anche se grottesca e paranoica) la sua continua analisi della situazione lavorativa e esistenziale propria e dei compagni,sempre soli nonostante lavorino tutto il giorno assieme. L'unica consolazione che Albino Saluggia trova (per un momento) è nella scrittura di alcune poesie durante il secondo ricovero in sanatorio,tentativo di far uscire i suoi mali allo scoperto. D’altra parte il ritmo ossessivo e monotono degli avvenimenti rende ostico per il lettore interessarsi veramente alle vicende. La scrittura, anche nei suoi momenti più lirici, non riesce a carpire,non è suggestiva, non riesce a smuovere nessun sentimento. Volponi si astiene dal fare leva sull’emotività, ma lascia il lettore solo e pensoso. Forse per rendere le idee e la situazione di cui ho detto sopra era necessario scrivere l’opera in questo modo, e bisogna dargli atto di essere riuscito a non cadere mai in pietismi facili e psicologie spicciole (nonostante le paranoie esistenziali del protagonista), ma ho sempre pensato che la monotonia non sia una qualità, soprattutto in un libro. Magari è un problema mio,e ho la sensazione che qualcosa mi sfugga. Per questo per adesso preferisco non votarlo.
Memoriale è la confessione, all'inizio malinconica, poi lucida, poi delirante di Albino Saluggia, operaio a X (Ivrea? Mirafiori?) Un anti-eroe malato fuori e dentro, ammaccato e inverosimilmente ingenuo. Tornato dalla seconda guerra mondiale ammalato di tubercolosi, cerca nella fabbrica una nuova vita, la vita felice. Quella che le campagne del Canavese non gli hanno mai dato.
Albino nega la sua malattia e cerca ad ogni modo di sottrarsi alle cure che la fabbrica offre (impone!) vedendo nei medici - Tortora, Bompiero - i suoi persecutori. Essi incarnano, infatti, l'autorità travestita di benevolenza - un paternalismo violento che incalza Albino. La fabbrica stessa, del resto, da prospettiva di riscatto si rivela in breve un luogo concentrazionario - un paese grigio e rumoroso che fagocita i suoi lavoratori somministrando loro ritmi, tempi, amicizie, amori, discorsi, cultura. Fino alla fine dei loro giorni.
«Come potevo considerare la fabbrica un paese? A Candia io avrei potuto vivere in tanti modi, ma in fabbrica nell'unico modo comandato»
Albino non ci sta. Difende il suo essere a parte. Fuori dal sindacato, dalle battute dei compagni di reparto, da ogni connotazione politica. Trincerato in una solitudine maestosa, combatte una guerra individuale destinata allo scacco. In realtà non vuole crescere, separarsi dai suoi ricordi d'infanzia, dalla madre che pure maltratta, di cui non accetta la vecchiaia e la debolezza. E ha paura delle donne. Le idealizza romanticamente finché queste non manifestano un'intenzione sEssUale. Allora fugge, disgustato, eterno bambino. Alieno.
Le pagine finali sono struggenti. La fine, a minore, amara. La scrittura perfetta. Consigliato.
Il male di vivere (o forse sarebbe meglio dire di sopravvivere?) ho incontrato, e il suo nome è Albino Saluggia.
Memoriale si presenta come un libro di lettura scorrevole da un mero punto di vista sintattico: la prima persona avvicina il lettore al protagonista, e la voglia di questa stessa voce narrante di essere compresa facilita ulteriormente il tutto. Quando invece si considerano la lunghezza dei periodi, il senso di scoramento che aleggia costante in ogni pagina e la dovizia nel riportare le minuzie del mondo circostante...beh, questo rende tutto molto più complesso.
Il racconto della vita di Saluggia dopo la guerra, dopo la prigionia, sono un boccone amaro da digerire, soprattutto considerando la malattia e le manie di persecuzione del protagonista, che si sente al centro di una cospirazione ordita da medici malvagi che, in seguito, arriva a comprendere anche il mondo della fabbrica, sua madre e la chiesa.
Da un punto di vista storico, invece, ho personalmente trovato molto interessanti le descrizioni dettagliate relative al mondo delle fabbriche di quel primo dopoguerra. Agli occhi di un inesperto Albino, il mostro industriale si presenta dapprima in tutta la sua maestà fatta di ordine, pulizia e scopo, per poi assumere continuamente nuove facce con il passare dei mesi, lo spostamento nei vari reparti e l'aggravarsi delle condizioni (oserei dire più psicologiche che fisiche) del protagonista.
Un romanzo pubblicato nel 1962 tuttora attuale. Un romanzo nella forma di memoriale appunto che fa male e fa riflettere. Un autore Paolo Volponi che è stato un politico illuminato, collaboratore di un genio come Olivetti, attento osservatore delle dinamiche sociali lavorative. Il protagonista Albino Saluggia reduce dalla prigionia in Germania rientra in Italia con l'aspettativa di una vita normale, di un lavoro in fabbrica, ma ad attenderlo la vita che nel frattempo non lo ha aspettato, la vita per lui così difficile da affrontare. Paranoie, manie di persecuzione in un ambiente lavorativo di per sé alienante. Un personaggio ingenuo, cresciuto in un ambiente vicino alla Chiesa, coi suoi limiti e i suoi obblighi, legato alla madre più per abitudine che per necessità.
"Guardavo quei punti, quadrati e a strisce, dove la campagna è attaccata dalla fabbrica e dalle case intorno agli stabilimenti. Vedevo quanto perde la povera campagna, nata insieme all'uomo; quanta vita le viene raschiata per le scorie, i sassi, la polvere, i metalli, le stradacce. E gli uomini stanno tutti proprio su quei quadrati e strisce, come s'ammucchiano le mosche proprio sulle ferite." (p. 210)