Una città di provincia, una casa in cima a una scalinata, una stanza al piano di sopra. Nella stanza c'è un uomo, immobilizzato in un letto. Ester studia poco, frequenta un gruppo di amici con cui passa pomeriggi e serate a fumare dentro un baretto sul mare o a bere nelle cantine dei ragazzi delle case popolari. A scuola ha una sola amica, diversa da lei, una ragazza che legge e disegna, che esce poco, perché il padre la preferisce in casa, seduta a cena con la famiglia, una sera dopo l'altra. Ester sembra libera e indipendente, è capace di baciare e farsi sfiorare, sa concedersi e poi ritrarsi, sa scatenare e trattenere il desiderio feroce di un uomo più grande. E invece si è perduta, si è smarrita nel silenzio insostenibile della sua casa, nel verde acido di un divano invecchiato, nell'impossibilità di comunicare con la madre se non attraverso frasi veloci e sprezzanti. È affondata nell'incapacità di nutrirsi, nel disperato sgomento di quella stanza di cui non si può parlare: lì c'è il padre, da dieci anni, muto, congelato, sospeso tra la vita e la morte. La stanza di sopra è il primo romanzo di una giovane scrittrice italiana: cronaca appassionante della crudeltà e del desiderio, del possesso e della separazione, di chi non ha parole per misurarli ed esprimerli; anatomia emotiva del distacco doloroso e incolmabile che separa l'infanzia dalla maturità; ritratto di una ragazza che si guarda vivere, e che si getta nel mistero e nell'ambiguità dei rapporti umani.
di questo libro avevo sentito parlare bene e ora mi domando perché. sì, si parla di un dolore grande, di un'adolescente difficile e piena di rabbia (ma è una reazione), delle dinamiche difficili che si creano quando c'è una malattia in famiglia. argomenti importanti. e però. che accozzaglia di luoghi comuni, che compiacimento, che poco pudore nella scrittura! mi è sembrato di leggere un libro durasiano- non scritto dalla duras (che adoro). no, non ci siamo.
Toccante discesa negli inferi di una adolescente che ha perso tutto e si sente sola nel mondo. Mi è piaciuto nel modo in cui mi piacciono i romanzi di Banana Yoshimoto.
La storia di un corpo aperto, pieno di ferite. Un corpo che vorrebbe essere chiuso, protetto. Vuole un altro corpo che cicatrizzi le sue ferite, che lo abbracci e lo risani. Lo cerca ovunque, negli incontri infantili di corpi amici, in un padre rubato, in un corpo-oggetto. Lo ritrova solo nel punto da cui stava scappando. La Postorino alterna una scrittura ricca di immagini, volteggiante, ad una scrittura diretta, senza pudore. Tra il dolore e la tenerezza. Una storia di legami familiari, la storia di una figlia e di un padre; una storia di corpi. Un amore pesante come cemento e leggero come un bacio.
Un libro molto forte, chi lo ha letto prima di me mi aveva già avvertita di leggerlo in un momento favorevole... ma quest’anno ce ne ha offerto pochi. In questo romanzo ho ritrovato veramente il concetto ‘ogni parola è una cruda verità’, la Postorino riesce come poche a rendere in maniera vivida le più dure sensazioni. È la storia di un’adolescente il cui padre è rimasto immobilizzato nel letto, nella stanza di sopra, la cui madre cerca un equilibro fra i vari dolori... e lei si sente così fragile e indifesa. È la storia di un grande dolore e di un tentativo imparare ad accettarlo quando non si può cambiare. Forse questa è la nostra sfida più dura: accettare ciò che non si può cambiare.
Romanzo dell'esordio dell'autrice, di cui ho già apprezzato "Le assaggiatrici", fa già percepire il suo stile di scrittura fatto di ripetizioni, di frasi lunghe intervallate dalle virgole, che a volte ricordano il flusso di coscienza. Narrato in prima persona, racconta l'adolescenza in un'imprecisata città di mare di una ragazza di quindici anni che da dieci convive con il peso del padre, nella "stanza di sopra", immobilizzato in seguito ad un incidente; e della madre che si sgretola davanti a questa sofferenza, e non sa più fare il genitore. Racconta bene la fragilità e anche l'amicizia con una coetanea, che è una sorta di suo opposto (bravissima a scuola, oppressa dalla presenza di un padre autoritario che alla protagonista sembra desiderabile, in confronto all'assenza lasciata dal suo, che non ha più un ruolo attivo nella sua vita). Oltre al padre aggressivo dell'amica, anche un uomo conosciuto in un locale la attrae: figure maschili più adulte, a sostituire quella che c'è ma non c'è, e la cui mancanza non ha ancora imparato a gestire. Ho trovato alcune parti (la scena di violenza per esempio) non necessarie, altre poco sviluppate (il rapporto con i coetanei al di fuori della compagna di classe), ma il potenziale della scrittrice si vedeva già più di vent'anni fa!
La spiaggia in primavera conserva il gusto dell’inverno. C’è ancora un residuo di quella solitudine definitiva. Il posto in cui tutti dovremmo essere. E poi preannuncia l’estate. Il riflesso del sole sull’acqua come una macchia di olio, brillante, pastosa. Preannuncia la solitudine che si frantuma, il corpo che si libera, la sabbia popolata di corpi e di entusiasmo. Il sole scolpisce i palazzi, modella le cose le persone i gesti, prende il posto, finalmente, delle parole. Non posso stare in spiaggia d’estate, ma sospesa in questo limbo di attesa sì, vorrei stare qua, tra la nostalgia dura, tagliente, e il caldo limaccioso, estenuante. Sospesa qua. Da sola.
La fatica di continuare a vivere, nonostante tutto. Sembrerebbe un esercizio stilistico inutile e invece il lettore che è in grado di immergersi senza pudore nella storia di Ester e di quello che rimane della sua famiglia proverà emozioni forti lasciandosi coinvolgere: penso che sia il sogno di ogni scrittore, riuscire ad emozionare i propri lettori. Questo piccolo scritto è intriso di tristezza ma racchiude una speranza, quella di essere finalmente capiti e compresi da qualcuno.
Un romanzo intenso, costellato di dolore e in grado di affrontare temi importanti ed attuali come la solitudine, la relazione con il cibo e il corpo, l'adolescenza e i rapporti familiari.
Rossella Postorino mi aveva conquistata con "Le assaggiatrici" romanzo che le ha fatto raggiungere il successo grazie a una storia forte, uno stile fluido e una trama avvincente. Non si può dire lo stesso de "La stanza di sopra", pubblicato all'inizio della carriera da autrice. I presupposti per una storia appasionante c'erano tutti: adolescenza, malattia, perdizione, paura e sofferenza, ma anche un conflittuale rapporto con la propria madre. Il lettore è catapultato all'interno di un libricino in cui si toccano tanti temi importanti, si deduce tanto, si presuppone e si immagina quale sia il passato e cosa succederà nell'epilogo della storia. In particolare, la forza della storia sta nei dissidi interiori di Ester e nel rapporto della protagonista con la madre, completamente assorbita dal lavoro e dal padre infermo che abita ne "la stanza di sopra": ognuna vive un inferno personale fatto di mancanze, perdite, vuoti e pieni, luci e ombre. Eppure, nonostante il potenziale della storia, l'eccessiva pomposità dello sile e il susseguirsi a tratti artificioso e confusionario degli eventi non permettono alla storia di decollare e di scivolare via, facendole perdere quella potenza e naturalezza che si presupponeva solo leggendo il riassunto della trama in quarta di copertina.
“Entro in cabina e provo a raggiungere l’uomo della festa che in questo momento, forse, è l’uomo nella sua casa, quella che non ho mai visto, e che non mi sono nemmeno trovata ad immaginare. Sono distratta dai dettagli di quest’uomo. Conosco solo la violenza delle sue labbra. I suoi odori a cui il mio olfatto si è abituato, che mi turbano, mi inquietano. Mi sembra di non poterne fare a meno. Mi disgusta l’uomo della festa. Mi è necessario, fa significare il mio corpo. E forse lo amo.” (La stanza di sopra di Rosella Postorino, Neri Pozzi editore, pag. 131) Quello che colpisce a prima vista di questo romanzo è che le pagine sono spesse e non ritagliate, come nei vecchi brogliacci di fogli messi insieme alla bene e meglio. Un po’ come certi diari e, in fondo, di un diario si tratta. La scrittura è spezzata in frasi singole e violente. Ha una sua potenza evocativa, anche se alle volte mi da l’impressione di una certa indulgenza nel cercare l’effetto. La lei del piccolo brano che riporto è Ester, ha 15 anni, un padre in coma vigile da dieci anni, una madre alla quale non perdona di soffrire per questa vedovanza bianca fino alla propria autodistruzione come donna. Che è poi la stessa cosa che fa Ester, anoressica, fumatrice incallita di sigarette e spinelli, bevitrice di birra, sperimentatrice dei sentimenti altrui visto che i propri sono rimasti incastrati nel giorno in cui ha scoperto di essere stata privata dell’amatissimo padre da un incidente di lavoro. Il lui cui si accenna nel brano (l’uomo della festa) ha relativa importanza, ha 39 anni, presumibilmente sposato, ad Ester fa praticamente schifo, ma questo non le impedirà di concedersi a lui. Un’adolescente come ce le dipingono praticamente tutti i romanzi contemporanei: aggressiva, violenta, spudorata, autodistruttiva a tutti i costi, assolutamente incapace di amarsi e quindi di amare. Il libro è di quelli che si fa leggere e questo è un grosso pregio. Immagino abbia molto di autobiografico, ma forse è solo una mia impressione. Il problema è che non mi ci riconosco, è un viaggio che non potrei (non avrei potuto) fare mio perché sono convinta che le adolescenti non siano così, non tutte, ma neanche molte. La ricordo la mia adolescenza, con i turbamenti, le angosce, le ribellioni, le ideologie, le convinzioni totalizzanti, la disperazione del proprio essere incompiuta. Ma niente di tutto questo sfociava nel rifiuto del cibo, nell’autoumiliazione, nel disprezzo della propria dignità di donna, nel rifiuto della comunicazione con l’altro. In La stanza di sopra l’incomunicabilità è elevata a stile di vita da Ester. E’ stata costretta dal tragico evento che ha segnato la sua vita? Forse, ma i suoi comportamenti mi rimandano ad altre adolescenti letterarie, ad altre scelte narrative che non riescono a nascondere uno scopo assolutamente commerciale. Da Lolita in poi, l’adolescente problematica, sofferente, viziata e un po’ viziosa ha attratto schiere di lettori. Ma, sia chiaro, Ester non è Melissa P. Per concludere, ho letto questo libro di getto, mi ha colpita, mi ha fatta riflettere. Quindi è un buon libro. Ma io che rileggo i libri che ho amato, questo non lo rileggerò.
Sono perplesso, anche alla luce del seguito e del successo riportato dal libro. La narrazione, in forma di diario sciolto, scorre veloce e senza intoppi, ma non arriva mai in profondità a trasmettere vibrazioni più che momentanee, che lascino durevole traccia nel lettore. E dire che il tema trattato non è banale: la rabbia e l'autodistruttività di un'adolescenza difficile e sofferta. L'impressione è che l'autrice faccia un facile e ruffiano ricorso ad abusati luoghi comuni, ad accessibili banalità sul corpo e la sensibilità delle donne che non facciano rompere la testa ad "uomini ottusi" o ad un pubblico letterariamente sprovveduto. Una brutta lettura adoloscenziale, condita da una scrittura a tratti eccessiva, forzatamente retorica e provocatoria. Peccato! un'occasione sprecata... un'ispirazione felice trattata con grossolanità e senza misura, alla ricerca del consenso facile ed allargato.