In una zona di mare che fa venire in mente la Versilia, ma non so perché, ed è invece Ostia e dintorni, almeno nel film, e so perché, c’è una piccola città che vuole diventare grande.
O meglio, è un ragazzino che vuole farla diventare grande, e nel farlo, diventare grande lui stesso tutto d’un colpo: trasformare quelle poche case e quello snack bar in una Las Vegas.
È inverno, o almeno piove molto e il cielo è grigio. Con queste premesse l’ambientazione non è certo delle più allegre.
Lo chiamano l’Avvocato, è stato radiato dall’albo professionale perché ha preso a schiaffi un giudice. E quindi, si presume, è uno che conosce la vera giustizia, che sa ribellarsi. L’Avvocato vive allo Snack Bar Budapest – lavora per il Comandante, che il boss del locale racket. L’Avvocato ritira l’incasso delle macchinette e passa a consegnare il malloppo.
E una volta ad accoglierlo trova un sedicenne brufoloso, Molecola. Che come dicevo, ha grandi progetti. Forse, addirittura un sogno: vuole diventare ricco e potente, e per farlo intende trasformare quel cesso di posto in riva al mare nella Las Vegas de’ noantri.
Ma c’è di mezzo lo Snack Bar Budapest. Molecola lo vuole per sé, il proprietario non cede. L’Avvocato è stretto tra due fuochi, e deve anche far abortire la prostituta con la quale convive che è stata messa incinta dal Comandante. L’avvocato accetta la proposta di Molecola, e la sua lusinga. Sembrano padre e figlio. Mal gliene incoglie…
Mare d’inverno, puttane, fellini a go go. La trama è sgangherata, assemblata da film e libri altrui, un pastiche di altre e altrui storie. Ma ha il suo fascino.
Se non altro considerando che il film uscì solo un anno dopo il libro, cotto e mangiato: per i tempi del cinema, un anno è zero. A dirigerlo Tinto Brass, che per tanti anni abbiamo creduto bravo regista, per qualcuno perfino grande, e soprattutto, abbiamo ricompensato con un successo di pubblico a dir poco immeritato. È stato il prototipo di quell’orrenda lunghissima stagione del cinema italiano che dovrei definire inverno, se non che l’inverno è stagione che amo: invece quei trenta anni di cinema nostrano, io non li ho proprio amati: hanno prodotto solo cose brutte, brutte e insulse, brutte e volgari, brutte e impegnate, brutte e d’autore, brutte brutte.
Giannini, comunque, all’epoca aveva ancora carisma, era bravo (è bravo), era grande. Poi c’erano un po’ d’attori francesi perché quelli italiani non servivano mai per certi ruoli, non avevano mai l’età giusta (il dramma dei quarantenni!): e perché della presa diretta non fregava nulla a nessuno, tanto si doppiava tutti.
Silvia Bre ha scritto solo questo romanzo. Lo ha scritto a quattro mani, pratica non comune. Da allora si è dedicata a poesia e traduzione (dall’inglese). Marco Lodoli invece ha continuato a pubblicare narrativa, a scrivere le sue cose, che con Budapest e lo snack bar non hanno nulla che fare. Io non l’ho più letto.
non male, davvero non male: un noir in uno di quei paesini affacciati sul mare che ti chiedi come campino in inverno, personaggi votati alla sconfitta, atmosfere tristi e l'impossibilità di vedere un futuro in questa storia.
non l'ho visto, il film. o forse l'ho dimenticato. credo che mi avrebbe annoiato, o forse l'ha fatto. il libro no, è uno di quei libri di cui faccio fatica a non saltare le righe e andare alla fine del paragrafo. non perché mi piaccia, non per la fretta di vedere come va avanti. forse un po' di fastidio per i particolari, forse un po' di schifo per questi ricordi circolari nella realtà. dopotutto vent'anni prima, dopo, non sono niente.