Avventure boccaccesche, giocatori forsennati, ozi logoranti nel delirio della provinciaA pochi anni di distanza dalla prima pubblicazione, Il piatto piange, uno di quei libri inaspettatamente felici che fanno storia a sé, è divenuto già un piccolo classico. In perfetto equilibrio fra la ricostruzione oggettiva e la trasposizione fantastica, è la smaliziata "recherche" del tempo fra le due guerre sul palcoscenico minimo di un paese lombardo assunto dall'autore a luogo immaginario, ad angolo prediletto della memoria e della favola. Chiara compone i suoi racconti intrecciati intorno a un unico tema - l'esistenza provinciale con le sue colorite manie, il gioco le donne gli ozi gli amori e in fondo il rimpianto, fra deluso e divertito, delle occasioni perdute - con l'humour istintivo, che è ora prepotente allegria ora contenuta amarezza, e insieme con la misura, il segno icastico del prestigioso narratore di storie. Dietro allo stregonesco incantesimo delle carte che per intere nottate incatena al tavolo verde i giocatori luinesi, dietro alle loro imprese si muove una galleria di personaggi di minore destino, brulicanti e vivi, sullo sfondo di un preciso paesaggio storico, oltre che naturale, solo in apparenza quello stesso in cui Chiara avrebbe ambientato poi la commedia grottesca della Spartizione.
Pierino Angelo Carmelo "Piero" Chiara (Luino 1913 – Varese 1986) è stato uno scrittore italiano, tra i più noti della seconda metà del XX secolo.
Piero Chiara was an Italian writer. He was born in Luino, on Lake Maggiore (northern Italy) into a family of Sicilian origin. Sought by the Fascist milice during World War II, he fled to Switzerland in 1944. He returned to Italy two years later, starting the activity of writer.His most famous work is La stanza del vescovo of 1976, which was turned into a film by Dino Risi soon afterwards. He died in Varese in 1986.
Uno di quei nomi che mi rimbalzano dall'infanzia (le avventure di Pierino), e che avendo ritrovato nell'epoca dei social network per di più con un ottima fama, non potevo non affrontare. E questa indiscutibilmente ottima penna mi ha rituffato un'altra volta nell'Italia rurale, quell' Italia a cavallo tra fascismo e dopoguerra che si apprestava al boom economico, e che ha popolato così grande parte della nostra narrativa del Settecento.
Questa volta siamo sul lago maggiore, alle porte della frontiera. Ma quello che colpisce non è tanto la locazione quanto la grande capacità di raccontare cose importanti con un sorriso, con un umorismo raffinato che non sarebbe dispiaciuto a Luigi pirandello, almeno in alcuni passi. Perchè il piatto piange? Piange perchè mancano i soldi. Perchè sesso e gioco d'azzardo, più in generale il vizio, sono i soli strumenti della piccola borghesia di Luino (cittadina immaginaria sulle rive del lago) per poter vincere una piatta, vuota, insopportabile vita di provincia tra una guerra e l'altra.
Non si può non provare simpatia per questi improbabili casanova o altrettanto improbabili Assi alle prese con avventure più o meno strampalate e picaresche, ma è una simpatia che si intristisce di fronte all'ombra della tirannide nazifascista che anche qui arriva a mietere la sua messe di sangue, e persino l'arguzia dell'autore fatica ad irriderne i tronfi atteggiamenti.
Una lettura brillante e veloce sulla falsariga di Guareschi; un classico non direi. Perchè questo è un libro che invecchia, e lo fa velocemente. L' Italia di Chiara non esiste più da tempo, ci parla di lotte, vittorie e sconfitte di uomini che non ci sono più. Il ventunesimo secolo ci consegnerà una penna del talento umoristico di Chiara per parlare della crisi, dell'impoverimento, della mancanza di prospettive, della globalizzazione, del disastro ecologico, della feroce ricerca di un capro espiatorio? Per il momento sembra di no, ma spero di essere smentito.
Piero Chiara è un narratore di razza, che sa cogliere e descrivere con immediatezza le atmosfere sonnacchiose e torbide della provincia italiana a cavallo tra le due guerre. Il romanzo è ambientato nella provincia varesotta, sul lago Maggiore, a Luino, ed è una carrellata di personaggi del luogo, giovani maschi nullafacenti dediti a trascorrere le giornate tra il sesso boccaccesco e le interminabili partite a poker o chemin de fer. Pertanto il casino di Mammarosa e il bar Metropole o l’appartamento del Rimediotti sono i luoghi di riferimento, quasi istituzionali più che le sedi ufficiali degli organi di governo del paese, all’epoca sotto il fascismo. Il tono è sempre in bilico tra l’amarezza consapevole della fine di quel mondo e di quelle esistenze, da un lato, e l’umorismo e l’ironia dall’altro, che raggiungono picchi irresistibili in alcuni casi, come –l’episodio che più mi ha divertito- il Càmola che, dopo il sesso sfrenato con la procace Ines praticato di nascosto nello studio dell’avvocato Parietti, di cui il Càmola era il tuttofare, nel pomeriggio del 28 ottobre 1932, decennale della marcia su Roma, si affaccia nudo come mamma l’ha fatto dalla finestra che dà sulla piazza, sbadigliando beato, accorgendosi immediatamente che il gerarca di turno stava arringando proprio in quella piazza e provocando uno scandalo passato agli annali del paese. Il limite del libro è che si tratta di una sequenza di caricature, abbozzi di personaggi ognuno con le proprie caratteristiche, alla ricerca di evasione dalla provincia che li rinchiude e li protegge al contempo. Troppi episodi, manca una linearità alla storia; è il primo romanzo scritto da Chiara, che promette gli ottimi romanzi successivi, come La spartizione o La stanza del vescovo.
Ho letto (forse riletto, chi può dirlo?) questo libro dopo una cinquantina d'anni dalle mie prime frequentazioni dell'autore. Ai tempi mi aveva lasciato impressioni negative e dopo qualche assaggio avevo lasciato perdere. Chiara descriveva un'Italia di provincia (nordica, come la mia, così prossima alla sua) meschina e grossolana. Niente ideali, vite terra terra, storie di sesso alluso o squallido. Ah! La gioventù. Del resto ero accomunata all'intero paese che dopo avere sfruttato (e goduto) cinematograficamente delle sue storie lo ha dimenticato per decenni, relegandolo tra i minori. Da una decina d'anni, mi sembra, Chiara ha ritrovato il giusto posto tra i grandi scrittori italiani del secondo dopoguerra. E mi fa piacere constatare che dalle copertine delle edizioni delle sue opere (di questa, in particolare, apprezzo la più recente ristampa Mondadori, con quella casa un po' malinconica) sono state eliminate le immagini allusive ai contenuti 'boccacceschi' di molte sue storie. Perché il sesso è narrato da Chiara non per condividere con i lettori un voyeurismo di breve consumo, ma per descrivere un intero mondo ( il proprio) osservato con affettuoso sguardo antropologico nei suoi modesti vizietti privi di grandezza ma pieni di pragmaticità. Oggi leggo Chiara con un piacere ogni volta stupito dall'abilità narrativa, dal nitore evocativo della lingua, dall'affetto malinconico per luoghi e persone che emergono dalle sue storie. Questo romanzo (più una collezione di magnifici ritratti che un romanzo vero e proprio) non fa eccezione.
È il quadro perfetto di una grossa fetta di vita/cultura italiana. Per quanto questa routine sia familiare e a volte condivisibile, ne vengono esaltati i molti aspetti negativi, deprimenti, quasi raccapriccianti nei capitoli finali del libro. Leggerlo dona una sensazione simile all'afa. La riedizione Oscar Mondadori del 1986 ha in copertina "Donna giacente" di Dominique Peyronnet, probabilmente la Giustina nel racconto - mio personaggio preferito - che esemplifica benissimo lo stato d'animo teso ma placido della narrazione. Le pagine finali aprono un'importante riflessione sulla difficoltà di emergere nella vita di paese, sulle radici che ognuno di noi cresce inevitabilmente nella propria città e famiglia, che spesso impediscono di trovare "la strada della liberazione" verso orizzonti più grandi. Chi ce l'ha fatta ora è lontano.
In ogni libro che leggo finisco per identificarmi in un personaggio, questa volta è toccato alla Rina: "Da allora la Rina era diventata una schiava. Aveva soffocato la sua fierezza naturale e non era più che uno strumento di piacere nelle mani del Càmola al quale si abbandonava interamente, salvando soltanto un suo pudore campagnolo, aspro e invincibile come la scorza di un albero. Ma non doveva avere premio tanta dedizione, e il suo pentimento non doveva dare alcun frutto; poiché l'inverno dopo, quando il Càmola, forse un po' deluso dalla sua sincerità e anche attratto dalla bisca che si riapriva, cominciò a diradare i suoi viaggi in Valcuvia, la Rina si ammalò e in soli tre giorni morì. Tutta la valle parlò di quell'amore che aveva divampato per un anno. Si disse che la Rina moriva di passione; e solo il Càmola sapeva che era vero, che la Rina, capito che si sarebbe distaccato da lei e che non poteva fargliene colpa, si era abbandonata senza resistere al suo male improvviso, pur di lasciarlo libero. Andò al funerale un giorno di febbraio che i rialzi dei campi erano già costellati di primule, e a passo lento sotto il sole, angosciato dal suono degli ottoni di una piccola banda che apriva il corteo, camminò finché la vide rinchiudere nella terra di un piccolo cimitero."
Puoi trovare questa recensione anche sul mio blog, La siepe di more
Dato il successo di Andrea Vitali e del plauso per le sue capacità di raccontare la provincia italiana, sono un po’ stranita dal fatto che uno dei suoi maestri, Piero Chiara, non abbia un gran successo – almeno tra lз lettorз che lasciano traccia della loro attività di lettura, non ho ovviamente idea di quante copie venda la Mondadori dei suoi romanzi. Abbastanza da tenerlo in catalogo, comunque.
Personalmente, ritengo Chiara una spanna sopra Vitali, per la sua capacità di rendere tridimensionali i suoi personaggi con pochissime pennellate ben assestate e di andare oltre il ritratto macchiettistico della provincia. Ci troverete le radici di diversi vizi italici nei romanzi di Chiara e in più di un momento vi troverete a sorridere con amarezza.
Il piatto piange soffre del fatto di non essere stato pensato come un romanzo unitario: ogni avventura dei personaggi è slegata da quelle degli altri e il gioco d’azzardo mi è sembrato un collante un po’ debole. Sembra più di leggere una serie di racconti sullз abitanti di Luino piuttosto che un romanzo: alla fin fine non è un gran difetto, ma a volte è un po’ strano finire un capitolo e passare a un’altra storia.
Pur privo di una linea narrativa principale che faccia da collante, il testo propone un riuscitissimo amarcord, tangibile e verosimile, della profonda periferia lombarda, tratteggiato attraverso le vicende di un gruppo di uomini tra partite a carte e case chiuse. La scrittura, garbata e ricca di sfumature, sarcastica ma al contempo quasi pudica – soprattutto nei passaggi più cupi, narrati con pietas – riesce a rendere piacevole il lungo e un po' ridondante blocco descrittivo iniziale, mentre i toni si evolvono progressivamente, dalla sorridente nostalgia dei primi ritratti si passa all'amarezza, non priva di sgradevolezze, dell’ultima parte.
I cinque cappelli: Anche non sapendo che sono tutti e tre bianchi sì arriva alla soluzione. Se il primo vede due cappelli neri si salva. Se ne vede due bianchi o uno bianco e uno nero non può rispondere. Il secondo se vede un capello nero e uno bianco sa di non avere un capello nero visto che il primo non ha risposto e si salva. Vedendo due bianchi non può rispondere. Il terzo capisce, visto che i due compagni non hanno risposto, di avere un cappello bianco.
Il libro mi ha un poco deluso. Non mi aspettavo grande cosa. Però parla troppo di donne e troppo poco di gioco.
Per caso sono venuta in possesso di molti libri di questo autore nato nel 1913; mi ha incuriosito e ho iniziato a leggere il suo primo romanzo che mi è piaciuto molto. Originale, ambientato a Luino negli anni trenta, è caratterizzato da molti personaggi del luogo originali, viziosi e maledettamente veri, in un sfondo storico in cui il fascismo prende piede. Consigliato, sicuramente proseguirò a leggere, a tappe, Piero Chiara.
Riprendo con questo libro la mia conoscenza con Piero Chiara (lessi “Vedrò singapore?” molto tempo fa e penso proprio che lo rileggerò) e il reincontro è più che positivo. Si presenta come “avventure boccaccesche” ma in realtà ho trovato episodi esilaranti e malinconici allo stesso tempo, raccontati seriamente e molto piacevoli da seguire. Autore approvato! 💪🏼
Forse non la migliore prova dell'autore, "Il piatto piange" è comunque l'ennesima conferma dell'abile scrittura di Chiara, capace di muoversi agevolmente tra registri diversi che spaziano da un'ironia e comicità surreali all'amarezza e al disincanto per un'esistenza provinciale dal sapore di sconfitta e rassegnazione.
un romanzo senza protagonisti - come spesso in questi casi i protagonisti sono il luogo e il tempo. E a leggerlo mi sembra davvero di respirare la Luino tra le due guerre. Il finale ha comunque un suo climax con l'episodio dell'aborto, e una chiosa che piu malinconica non si potrebbe.
Negli anni Trenta a Luino la vita è un insieme di serate passate a giocare a carte, dove è raro vincere. I ruoli impersonati dai protagonisti dipendono dalle figure e dai semi che pescano. Re di spade che perdono corone, fanti di cuori che si atteggiano baldanzosi, assi furbi con sempre una via di uscita per salvare la mano. Ma le donne non paiono affatto regine, nemmeno di cuori: non fanno una gran figura, tra vanità, ingenuità e condiscendenza; sembra non abbiano carattere, facilmente giostrabili nel giro di due frasi. Lo stile è tedioso e monotono, per me merita un due di picche.
O meglio, tre stelle e mezza: tutto sommato piacevole, e leggibile, romanzo d'esordio di Chiara; non tutti gli episodi sono ugualmente interessanti - meglio le avventure di Camola che quelle del Tetàn, per esempio.
Il libro umoristico perfetto! Un Piero Chiara in gran spolvero scrive questo romanzo ricco di episodi boccacceschi e satirici che colgono sempre il segno e meritano il massimo dei voti