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224 pages, Paperback
First published May 27, 1997
1. Contesto Storico
La Dottoressa Redmond ci illustra l’origine del tamburo,
strumento sacro e pregno di significato durante l’età del matriarcato, con la
progressiva demonizzazione e ostracizzazione di questo strumento a causa dell’incombere
delle prime sette patriarcali aggressive verso le società matrifocali.
Il tamburo a forma di luna piena (classica forma circolare)
è simbolo femminile. Da sempre realizzato con pelle di ovini. Non è casuale la
scelta del vello, soprattutto per le corna di questi animali che ricordano la
forma della falce lunare. Spesso le dee madri proteggevano il regno animale, in
particolar modo il mondo caprino. Ma proprio gli ovini sono state vittime della
propaganda patriarcale. Dobbiamo ricordare un periodo storico in cui potere
temporale e spirituale erano fusi, concentrando nell’uno e nell’altro la
propria forza.
I miti così conosciuti erano un monito da parte dello stato
che da matriarcale, scendeva nel patriarcato attraverso una fase intermedia
chiamata gilanìa («l» è l'iniziale
del termine inglese linking) dei prefissi generalmente utilizzati per
significare il maschile e il femminile: «gi» e «an», nobilitati da una lunga
tradizione e dall'etimologia greca ([γυνή/ γυναικός] gyné - donna e [ανήρ/ανδρός] anèr - uomo) – Da “Il Calice e la Spada” di
Riane Eisler).
Molti miti nati agli albori
del mondo, quando l’essere umano seguiva gli archetipi, era portato
naturalmente ad essere politeista. Perché l’uomo non concerne il monoteismo,
non è nella nostra psiche, è solo una pre-struttura applicata a causa
dell’assolutismo religioso degli ultimi millenni.
Quando l’umanità era
matriarcale e la Dea era capostipite della famosa Età dell’Oro, i miti su cui
si concentrano le metafore di vita-morte-rigenerazione, non erano macchiate di
sangue e masochismo, come avviene per il patriarcato nella figura di Cristo.
Con l’avvento del dio
violento, si ha anche nel mito un monito per le donne: gli stupri (Demetra e
Poseidone), le violenze (Ade e Persefone), l’usurpazione dei troni (Gugalanna e
Ereŝkigal), gli abbandoni delle amanti da parte dell’eroe (Calypso e Odisseo,
Enea e Didone), per la nascita di uno stereotipo incombente nell’attuale
società del XXI secolo: la donna sottomessa, morigerata che rimpiange l’uomo
senza cui poter vivere.
Osserviamo nei secoli la
figura della Dea Madre disgregata in altre piccole dee, ninfe, oreadi, driadi,
maghe, titanesse e molte altre donne “magiche” (Latòna, Arakne e Arianna),
sminuite, rese umane dal patriarcato mortali, perché la religione della Dea era
un pericolo sovversivo. Basti pensare che durante il medioevo la popolazione,
sia maschile che femminile, continuava ad essere pagana nel privato, ma nel
pubblico dichiarava di essere fedele ad un solo dio.
Si ha tracce di politeismo
da parte di cristiani anche nel modo di seppellire i propri morti applicando
due monete sulle palpebre della salma, famosa usanza della Grecia classica, ma
di cui sono trovate tracce anche in paesi cristianizzati da secoli.
La Grande madre sminuita non
solo nelle sue emanazioni dalle dee a maghe, è stata sminuita anche nei
simboli, a partire dal tamburo costruito col vello. Il suono di questo
strumento a percussione ricorda i battiti del cuore che guida durante la
trance, la/o sciamana/o nel percorso paragonato ad un labirinto, un meandro, un
percorso a metà tra il mondo dei vivi e l’oltretomba, un sentiero per cui hai
accesso solo grazie al suono vitale simile a quello del cuore: il tamburo.
Battuto con due bacchette,
stilizzazione del lingam che batte sulla vulva, percosso dal vello sacro
appartenete al mondo della luna e al ciclo mestruale, primo misuratore del
tempo assieme alle stesse fasi lunari. Grazie ai noviluni che si sono potuti
creare i primi calendari, infatti un anno era diviso in tredici mesi con la
durata di ventotto giorni. Il
tredicesimo giorno del mese era sacro, il giorno in cui la luna è piena, mentre
il diciassettesimo giorno era il giorno in cui la luna decadeva, andava in
“putrefazione”, spariva nel cielo.
Ancor più sacro era il
venerdì tredici, il giorno della Dea, sminuita ad una Venere-oggetto in età
classica, ma che nasconde in età attuale paura per le reminiscenze che l’hanno
resa potente.
In parole povere Venerdì tredici non è il giorno di
Satana, ma il giorno sacro alla Dea in ogni sua forma (anche se per costruire
la figura di Satana gli ebrei hanno preso varie caratteristiche del femmineo
venerato nelle religioni politeiste e distorto, facendo sì che una cultura
pagana potesse essere aborrita e demonizzata).
Con la dottrina della Dea anche i suoi strumenti a lei
sacri vennero banditi progressivamente delle esibizioni religiose: dal
cristianesimo con la marginalizzazione delle donne a semplici lagnone (coloro
che piangono in una processione) e suonatrici di tamburo.
Ma pian piano le donne furono totalmente estromesse
dalla vita religiosa pubblica, estromettendole anche nei cori dei madrigali.
Forti erano le opposizioni della popolazione femminile, cosicché da far emettere
due bolle papali nel IV e V secolo in Spagna e in Italia, laddove la religione
della Dea era ancora celebrata in segreto, ancora forte e potente nelle mura
private.
2.
Origine
Layne analizza la parola “luna”, derivato dalla parola
sanscrita “me”, letteralmente tradotta con “misurare”. Le fasi lunari sono
state il più antico metodo per misurare il tempo. Tredici lune, tredici mesi
composti da ventotto giorni. Proprio il numero tredici è stato demonizzato
dalle comunità patriarcali, infatti tutt’ora portiamo una vecchia eredità,
matenendo il luogo comune che questo numero e il diciassette siano numeri di
grande sfortuna. Ma questo è avvenuto perché il tredicesimo giorno del mese la
luna diventa piena, mentre dopo quattro giorni “decade”, volgarmente come
sinonimo di sfortuna. Il patriarcato ha sminuito i segni della luna, sacri al
femmineo, iniziando a campagna “politica” di diffamazione. Dobbiamo tenere a
mente che a quel tempo il potere spirituale era temporale, e gli averi
materiali, ingenti somme di denaro erano in mano a sacerdoti, in quel caso,
milioni di anni fa alle sacerdotesse. Il sacerdozio era puramente femminile,
grazie al ciclo mestruale, ciò che lega per natura una donna alla luna.
L’autrice ci spiega in poche righe il lavoro
dell’archeologa Marija Gimbutas introducendoci nel pieno matriarcato,
affiancata da Renfrew, Joseph Campbell e Riane Eisler.
Nel libro “Il linguaggio della Dea” Gimbutas ci
illustra da decodificazione di vari simboli, fino alla stilizzazione e
spiegazione della presenza di illustrazioni di animali. In particolar modo lo
chevron: un triangolo con la punta capovolta verso il basso ad indicare la
stilizzazione della vagina, il segno più antico e venerato e non oggettificato
grazie al patriarcato fascista. Ma il problema è insorto quando le dottrine
levitiche (un elite formata da sacerdoti
del “Traboccante” in un certo senso uno Zeus hittita, leggete il mio commento
al libro di Merlin Stone Quando Dio era Donna, per ulteriori
approfondimenti). I leviti apportarono una campagna di demonizzazione della
Dea, volevano appropriarsi degli averi materiali, denaro e terre gestiti da
Donne che avevano tra le mani interi capitali economici. Queste sette
aumentavano e si moltiplicavano, inneggiando alla distruzione e allo stupro per
le Qadishtu[1].
Grande promotore in questa campagna di stupri punitivi fu San Paolo con le sue
epistole ai popoli “da educare” nei confronti del solo e unico Dio. Inneggiando
allo stupro, alla segregazione del femmineo, Paolo di Tarso temeva il potere
femminile appropriandosi dei beni dei suntuosi templi politeisti. San Paolo al
proprio auditorio, quando parlava del Messia[2] non lo definiva mai come
“figlio della Vergine”. L’apostolo davanti un pubblico politeista non poteva
usare riferimenti a titoli alla Dea Madre, nel caso delle nazioni
mediorientali, Astarte, Cibele, Kubaba, Rhea, Gea, Latòna, Ishtar e Inanna,
così iniziò ad usare come descrizione “figlio della donna”, lontano da
un’eredità matriarcale.
Nei suoi racconti San Paolo ha sminuito l’identità di
queste Dee a demoni ebraici, pensando a Moloch e Tanit, lo Zeus e la Hera
cartaginesi, famosi “demoni” ebraici succhia sangue di infanti. La dottrina di
propaganda di non solo della Dea madre ma anche delle religioni politeiste era
iniziata.
Marija Gimbutas analizza soprattutto “Il Tempio degli
Avvoltoi” a Catal Huyuk, in Turchia, risalente al 7000 a.C. al suo interno ci
sono vari riferimenti alla cultura campestre e soprattutto ovina. In ogni
camera, riservata solo alle donne, sono presti dei letti posizionati ad est,
dove nasce il sole. Appesi si trovavano scheletri e carni di tori, il simbolo
per eccellenza della donna, come stilizzazione dell’apparato riproduttivo
femminile, accompagnato dalle corna, simbolo delle falci di luna. Inoltre si
trovava un altro simbolo femminile: l’avvoltoio. Questo animale ha sempre
destato interesse nella specie umana, dato che è uno dei pochi animali in
natura a riprodursi per partenogenesi (Пαρθένος “vergine”). La riproduzione per
partenogenesi avveniva senza il rapporto sessuale, semplicemente le femmine di
avvoltoio rimanevano incinte da sole, da vergini. È raro trovare nella donna
questo tipo di riproduzione, contando una percentuale allo 0.01%.
In seguito alla fecondazione del calcio, l’ovulo
subisce una mutazione genetica naturale, non avendo bisogno dello spermatozoo.
Millenni fa l’essere umano non collegava che col
rapporto sessuale si potesse rimanere incinta, a volte non succedeva, così da
associare alla donna l’avvoltoio, sacro animale della Dea per eccellenza.
Ma il patriarcato nella sua campagna di propaganda
politica ha usato i simboli del femminino alla “rovescia”, portando alla
consuetudine che portassero sfortuna o che fossero di malaugurio, in una
società avversaria a quella delle donne, intese solo come incubatrici umane e
schiave sessuale, defraudandole da secoli di dominio
La recensione continua su https://lightofastarte.blogspot.com/2... oppure su https://www.academia.edu/50994181/Sag...)
-Astarte