Don Antonio è un boss della camorra napoletana. Ai figli ha insegnato i valori della Bibbia, perché la Bibbia "ci dice quello che dobbiamo fare, ci dice quali sono le cose giuste". E portare rispetto è una di queste. Suo figlio Giovanni i discorsi troppo complicati non li capisce, non è come il padre o come sua moglie Mariasole: la "famiglia" è l'unica realtà che conosce, e non si fa troppe domande. Un periodo al carcere minorile, un matrimonio combinato per mettere pace fra la sua gente e quella di Don Pietro Simonetti, gli affari di famiglia. Poi un giorno Giovanni incontra Salvatore. E in Salvatore si perde: attrazione inattesa, scombussolamento di viscere, fino a non poterne più fare a meno. Ma il loro amarsi è "una bestemmia sull'altare di Santa Chiara". Con il suo amore Giovanni manca di rispetto a sua moglie e soprattutto alla famiglia. E nel mondo di Don Antonio questo è il peccato più grande. Un peccato che si paga molto caro. E quindi precauzioni, sotterfugi e testimoni eliminati, che non bastano però ad arginare il fiume in piena. A Giovanni sembra che tutti conoscano il loro segreto. Bisogna mettere la cosa a tacere. A ogni costo. Prima che sia troppo tardi. Una storia che inizia a poche ore dall'epilogo, per ricostruire in una carrellata a ritroso gli eventi degli ultimi tre giorni. Una prosa fluida e inesorabile come il percorso di un proiettile.
Luigi Romolo Carrino nasce nel 1968 a Napoli ed è laureato in Informatica. Ha una venerazione per la mozzarella di bufala, per febbraio e per Mariangela Gualtieri. Fuma quaranta sigarette al giorno e quando gioca il Napoli arriva anche a sessanta. Ha scritto per il teatro e ha pubblicato tre libri di poesia (il più recente è Certi ragazzi, Liberodiscrivere 2011). Nella narrativa ha esordito nel 2006 con due racconti in Men on Men 5 (Mondadori, 2006). Ha pubblicato Acqua Storta (Meridiano Zero, 2008; anche in edizione speciale con allegato il CD del recital La versione dell’acqua), Pozzoromolo (Meridiano Zero 2009), il racconto lungo Calore (Senzapatria Editore, 2010), la raccolta di racconti Istruzioni per un addio (Azimut, 2010), il reportage sui cantanti neomelodici A Neopoli nisciuno è neo (Laterza, 2012) e Esercizi sulla madre (Perdisa, 2012).
Quando l’ho finito, avevo già voglia di riaprirlo e ricominciare dalla prima pagina. Tanto si legge in due ore. Due ore di delizia.
Anche perché la prima pagina anticipa l’ultima di pochi attimi: il racconto si dipana dalla fine a ritroso verso un inizio racchiuso in tre giornate.
Sono stato subito conquistato da questa scrittura che usa un lessico scabro, parte dialetto (napoletano) parte italiano basso, che viene voglia di leggerla ad alta voce, come se fosse una poesia, perché si vuole ascoltare il suono delle parole, la loro musica.
E subito conquistato dalla crudezza dei termini e della storia, dall’immediatezza del racconto, dall’anomalia di un noir a tutti gli effetti che del genere non ha nulla.
Personaggi marginali per i quali è difficile provare empatia diventano icone. Lui, io narrante rozzo e violento, figlio del boss della camorra soprannominato Acqua Storta, uno che i discorsi complicati non li capisce e tra il bianco e il nero non riesce a vedere molte sfumature; la moglie, Mariasole, istruita (laureata), potente e abile, prigioniera del meccanismo, ma a suo modo moderna attiva e risolutrice; l’amante di lui, il ragioniere della camorra, giovane come il narratore, vent’anni e poco più, un destino segnato sin dall’inizio.
Perché le regole esistono dai tempi della bibbia, e un uomo non può amare un altro uomo, è una cosa contro natura: e quindi, qui si racconta di un amore omosessuale, minacciato, che va nascosto, sul quale sin dal principio aleggia l’ala della morte.
Esiste (o meglio, è esistito, dubito che vada ancora in giro) uno spettacolo teatrale e immagino che deve essere stato bello, avrei voluto vederlo. Così come esiste una versione a fumetti.
”La buona legge di Mariasole” racconta la stessa storia di “Acqua Storta”, ma l’io narrante diventa la donna, voce femminile più unica che rara.
Un bicchiere di plastica, una carta di giornale sporca di merda, due tre quattro siringhe usate. Io sto seduto e guardo il mare rotto, con le brancia incrociate sulle ginocchia. Questo è l'unico posto al mondo dove voglio stare, per dare ragione a tutto questo male.
C'è chi ha il dono della parola, e con essa può fare a pezzi il mondo intero. E' il caso di questo breve romanzo: l'indicibile nell'indicibile, l'omosessualità nella camorra. Lontano dalle luci del mastodontico documentario di Saviano, Carrino sceglie la camorra, anziché per indagarne i riti e i meccanismi, per raccontare una storia di amore e di morte. Ed è una storia tutta italiana. Quella di Acqua storta è una sacra famiglia: l'incarnazione della più potente, antica e implacabile istituzione italiana, un tumore che fagocita se stesso e che vede nell'onore, più forte della carne, più forte del sangue, l'unico modo per perpetuare se stesso. E quello di Giovanni e Salvatore è un amore che non si chiama amore: ed è la sua stessa condizione di indicibile a renderlo fatale. Uno dei tanti meriti dell'autore, l'aver demolito lo stucchevole topos dell'amore proibito: l'omosessualità non è bandita nella camorra, ha il suo legittimo posto. Nella camorra tutto trova il suo giusto posto, ed è questo il problema di Giovanni e Salvatore: sono fuori posto. Giusta intuizione, quella dell'autore, che vede nel rimettere ogni cosa e ogni persona al proprio posto l'elemento essenziale della camorra, non a caso sono espressioni che ricorrono frequentemente nel testo. A fare da sfondo alla storia dei due protagonisti, pochi ma essenziali dettagli che insieme restituiscono la vita dentro la camorra; frutto, più di una buona documentazione, di un'osservazione diretta, dell'esperienza di vita. Il talento dell'autore non manca di farsi evidente nella caratterizzazione: non bastasse quella del protagonista, voce assoluta della narrazione, il profilo brevemente tratteggiato della moglie di Giovanni trova scarsa concorrenza nel panorama italiano (e non solo); nelle tre pagine di diario c'è l'intero mondo delle donne camorriste, e di più, c'è la confessione di un amore implacabile e impossibile, un'amore che si autoaccusa, persino più forte di quello di una madre per il proprio figlio. Molto forte è il simbolismo che permea il romanzo, quasi a parodiare i simboli e i riti che affollano la metafisica camorrista. Su tutti, l'intreccio indissolubile tra amore e morte: nel mondo rovesciato della camorra non c'è atto d'amore più potente di due mani che si stringono attorno al collo. Il vero miracolo che Carrino compie in questo romanzo è nello squisito lavoro stilistico, linguistico e narrativo. Innanzitutto la narrazione a ritroso: partendo da pochi minuti prima dell'epilogo, la narrazione riavvolge lo scorrere del tempo fino a tre giorni prima, per poi inchiodare il lettore al brusco epilogo. La focalizzazione vede inoltre la cancellazione totale del narratore, mentre sulla pagina compare la voce nuda di Giovanni. Straordinario il lavoro linguistico, anche questo allegorico: l'amore al confine che i due protagonisti vivono si rispecchia nel continuo scivolare tra l'italiano e il napoletano. Ed è proprio sul gioco linguistico che l'autore tira fuori tutta la sua poesia, in un'operazione che rovescia volutamente il mainstream, la poesia della parola nuda e sola. Da leggere tutto d'un fiato, come fosse l'ultimo respiro da esalare.
Ho trovato questo primo romanzo di Carrino eccessivo, faticoso, particolarmente alieno per un lettore come me, incapace (lo ammetto) di immedesimarsi nei tormenti di un giovane protagonista che si esprime nello slang della periferia napoletana, vive la vita e le esperienze del camorrista ed esibisce in modo esplicito la sua attitudine omosessuale, o più precisamente bisessuale.
Alieno, a dire il vero, era anche il personaggio di “Pozzoromolo” il successivo romanzo di questo autore, che ho avuto la fortuna di leggere in precedenza, ma in quel caso l’atmosfera è sublimata da una rilevante dose di poesia e da una maturità di scrittura che sdogana anche i passaggi più ostici, una padronanza stilistica, anche audace, che non ritrovo in questo grezzo “Acqua storta” che presenta le stimmate caratteristiche (e forse anche la generosità senza compromessi) dell’opera prima.
C’è tuttavia qualcosa che, nonostante il difficilissimo impatto, impedisce di formulare a posteriori un giudizio negativo ed è “l’effetto di sceneggiatura”, non ho capito se perseguito in modo deliberato dall’autore oppure nato occasionalmente dal semplice assemblaggio del testo della versione teatrale dell’opera al corpo del romanzo.
Fatto sta che a due terzi del libro il racconto propriamente detto termina, ma subito riparte in un’imprevedibile variante polifonica che ripercorre l’esile trama estendendone i punti di vista e i sentimenti a tutti gli attori principali di questa tragedia. Questa soluzione aggiunge una nuova dimensione, inattesa e sorprendentemente poetica, ad “Acqua storta” e conferma il talento di un autore, fantasioso anche in un’opera dura da condividere.
C'è chi ha il dono della parola, e con essa può fare a pezzi il mondo intero. E' il caso di questo breve romanzo: l'indicibile nell'indicibile, l'omosessualità nella camorra. Lontano dalle luci del mastodontico documentario di Saviano, Carrino sceglie la camorra, anziché per indagarne i riti e i meccanismi, per raccontare una storia di amore e di morte. Ed è una storia tutta italiana. Quella di Acqua storta è una sacra famiglia: l'incarnazione della più potente, antica e implacabile istituzione italiana, un tumore che fagocita se stesso e che vede nell'onore, più forte della carne, più forte del sangue, l'unico modo per perpetuare se stesso. E quello di Giovanni e Salvatore è un amore che non si chiama amore: ed è la sua stessa condizione di indicibile a renderlo fatale. Uno dei tanti meriti dell'autore, l'aver demolito lo stucchevole topos dell'amore proibito: l'omosessualità non è bandita nella camorra, ha il suo legittimo posto. Nella camorra tutto trova il suo giusto posto, ed è questo il problema di Giovanni e Salvatore: sono fuori posto. Giusta intuizione, quella dell'autore, che vede nel rimettere ogni cosa e ogni persona al proprio posto l'elemento essenziale della camorra, non a caso sono espressioni che ricorrono frequentemente nel testo.
Agghiacciante storia di camorra dove le leggi vanno rispettate e questo vale per tutti, anche per il figlio del boss. Una storia raccontata a ritroso. Una storia d'amore, ma sbagliata e quindi da cancellare. Nella sua crudezza si legge molto velocemente ma ti rimane dentro come un marchio proprio all'altezza del cuore.
Partendo dalle peregrinazioni mentali rabbiose di una che a Napoli ci vive da 26 anni e non vede l'ora di fuggire o di mandare molte persone che vivono qui a fare un corso di aggiornamento in Educazione, Rispetto universale e Resistenza. Partendo dalla noia mortale che questa donna sente per l'ultima moda di chiamare la Camorra 'O Sistema( come se la camorra fosse nata quando è uscito Gomorra, come se nessuno avesse mai visto e capito niente prima quello che c'era dietro). Partendo dal presupposto che la Camorra si chiama Camorra, non Sistema, perchè le cose gravi devono essere chiamate col proprio nome. Partendo da questo presupposto ho letto questo libro. Carino piacevole, l'ho letto in un paio di ore, con gusto, voglia e relax. Devo confessare che ho un amore particolare per le storie d'amore omosessuali e questa è raccontata davvero bene. Già dalla prima conversazione tra i due si capisce che hanno un rapporto preferenziale, ci sono delle frasi ben messe,è bello il giro di assassini che c'è. Ma alle volte ho avuto la sensazione che il libro fosse troppo spinto in avanti. Come quando, per raggiungere un obiettivo ci si dimentica di cose importanti. Io adesso non so se l'autore abbia dimenticato cose importanti, non sono neanche felicissima della pubblicità che il libro ha avuto sui vari media che hanno fatto in modo che io sapessi la gran parte della storia, però il libro me lo sono letta, in una notte, con piacere. E mi sembra già un bel risultato.
Napoli e la camorra. La camorra, la sua violenza e il suo codice d'onore, un codice che prevede che il boss faccia uccidere il proprio figlio perché omosessuale, e che la moglie del morituro pretenda di ripulire il proprio onore versandone il sangue. Una costola di Gomorra, assurda e violenta, eppure tenera come solo può essere una storia d'amore e di morte, come la storia di Paolo e Francesca, omosessuali e camorristi.
Libro divorato in meno di un'ora, scritto in modo forte, d'impatto, come la storia, una storia che non ci può stare, un'amore contro natura e contro l'onore, che, in alcuni posti e in certe famiglie, travalica qualsiasi altro sentimento