Valter si burla del mondo perché da sempre è abituato a perdere. Pensa che il mondo debba chiedergli scusa. Ma quando una malattia lo porta a un'odissea senza fine nel dolore, sente che invece è lui a dover chiedere scusa a tutti. Perché quello che credeva il suo dolore è una goccia del dolore del mondo. Una goccia dell'ingiustizia senza rimedio e spiegazione. E allora, forse, Valter può scoprire la gioia. La gioia di accettare e di vivere. La voce beffarda e innocente di un uomo che si è sempre rifugiato nel sarcasmo e nel risentimento per non soccombere. La sua caduta e rinascita diventano, in questo romanzo asciutto e commovente, il tentativo di risarcire ognuno per la misera condizione di essere umano di fronte al potere spesso crudele della natura. Ma anche un'indimenticabile dichiarazione di speranza. Saverio Mastrofranco è il nome con cui un "intenditore" di cinema chiamò Valerio Mastandrea chiedendogli un autografo per strada. Da quel giorno l'attore lo usa per piccole incursioni sulla scena musicale e letteraria. Dall'incontro con il giornalista Francesco Abate, il racconto di una storia vera: la vita ha sempre un lato comico, e questo libro, nudo e limpido come una pietra preziosa, lo scopre nel luogo piú impensato. Nel più estremo dolore.
Valerio Mastandrea ha abbracciato la storia di Valter/Francesco ed è andato in tour promozionale del libro con Abate.
È difficile, pressoché impossibile, non pensare che Valter, il protagonista narrante di questo racconto, sia un cavaliere senza macchia e senza paura. Eppure, paura ne ha avuta, tanta, l’ha conosciuta bene: ma non ha avuto la paura della sua paura, non l’ha respinta né negata né ignorata. E alla fine l’ha sconfitta, ha vinto lui.
Un cavaliere senza macchia e senza paura che percorre queste pagine, avvolto in un alone dai contorni come bisce in fuga, perché per la maggior parte del tempo ho letto attraverso gli occhi velati di lacrime.
Un posto anche per me.
Un cavaliere senza macchia che conosce il bene oltre la sofferenza, e riconosce gli altri oltre il dolore – anche quello fisico: Valter ergo Francesco racconta l’operazione chirurgica che ha dovuto fare senza anestesia perché non avrebbe retto una terza anestesia nel giro di così poche ore, e mi ha trascinato dentro una scena di tortura, viva e lancinante come fosse sulla mia stessa carne.
Cagliari: Francesco Abate regala libri per strada.
È la vicinanza con la morte che fa scoprire la vita? È la paura di morire che fa diventare maestri di vita? Valter non si definirebbe mai un maestro, né di vita né di altro: Valter che vive il bisogno di non dimenticare, e persino quello di testimoniare, per quanto sia andato oltre l’umano, ha imparato la vera effettiva misura dell’umano.
Una bella sorpresa questo libro, un gran bel regalo. Grazie Valter ergo Francesco, e grazie Paola.
In attesa di ritrovare il mio commento (Anobii, ops, è down*), chiedo scusa a Francesco, certa che sarebbe d'accordo con me, e uso questo spazio per ricordare Severino Cesari, scomparso ieri. Anzi no, non è scomparso Severino, ma è morto a causa di quel cancro maledetto che ogni giorno ci strappa via qualcuno di caro e che ci costringe a veder soffrire le persone che amiamo. Mi era caro, Severino, avevo imparato ad amarlo su Facebook, a schierarmi accanto a lui ogni volta che, con una forza immensa, ci raccontava della sua battaglia a Quantico. E mi mancherà, accidenti se mi mancherà: mi mancherà la sua forza, mi mancherà la sua dolcezza, mi mancheranno le sue parole, sempre di speranza, anche quando mi raccontavano delle sue sconfitte. Ma lo scrivo anche qui, perché era anche una persona che alla letteratura italiana ha regalato tanto.
«Ma questa è un’altra storia, mi dissi nentre rivedevo per la prima volta i colori incantevoli dell’ottobre romano – con il taxi dell’andato, era in realtà la seconda - e anziché rimpiangere la detenzione di oltre mesi passati immobile nel letto per l’ischemia, provavo pura gratitudine.»
Ciao, è una promessa.
«Una promessa per rendere l'affetto che mi date, e al quale non sono in condizione di rispondere come vorrei: possa però tornare a ciascuno accresciuto della vostra energia, della vostra tenerezza, in una ghirlanda d'oro senza fine. Una promessa, fino a che le forze lo permetteranno, io non vi lascerò mai.»
[*ecco, è tornato] commento a Chiedo Scusa.
“Perché quello che credeva il suo dolore è una goccia del dolore del mondo. Una goccia dell’ingiustizia senza rimedio e spiegazione.”
Ho pensato almeno quattro commenti diversi per questo romanzo. Ho pensato anche alle stelline senza un commento e ad un commento senza stelline. Ho pensato di non commentare affatto, perché il pudore che leggere una storia così ti provoca e l'idea di parlarne è talmente grande che ti lasci sopraffare e ti senti banale e inadeguato. Però poi ho pensato che non è giusto lasciarsi sopraffare, perché chi come Abate ha avuto la forza di affrontare un calvario così doloroso come quello che affrontano "i trapiantati" - nel suo caso un trapianto di fegato - ed ha avuto la forza, il coraggio, ma soprattutto l'ironia per raccontarlo, merita rispetto, anche attraverso quelle quattro parole che sto cercando di mettere in fila.
Quando ho finito di leggere questa storia mi sono detta: - "D'accordo, è terribile (e questo nonostante ci siano anche passaggi sdrammatizzanti e divertenti e per dire che questo non è un libro piagnone) ma sarà tutto vero?" Nel senso che non è che non credessi alla veridicità dei fatti che Abate (e il buon Mastandrea) andavano via via raccontando, ma pensavo e speravo intensamente, che questi fossero la somma delle esperienze vissute negli anni dall'autore, anche attraverso le storie di altri pazienti conosciuti nella sua vita e nella sua lunga frequentazione ospedaliera, e della sua volontà in ogni caso di non scrivere una testimonianza ma un vero e proprio "romanzo".
Poi ieri ho visto l'intervista barbarica della Bignardi ed il mio castello di carta, il mio velo davanti agli occhi è caduto: è tutto vero al 99%.
Lo stesso malessere che mi ha pervaso durante la lettura, ma soprattutto dopo, è tornato e con esso un senso di disagio e di dolore per quello che Abate definisce "una goccia del dolore del mondo". Se ognuno di noi ogni tanto si ricordasse di non essere solo su questa terra e se almeno una volta al mese nella sua frenetica e indaffaratissima vita si ritagliasse un'ora per andare a fare un giro nei reparti degli ospedali, forse riuscirebbe ad essere più lucido, meno egoista, e a riconsiderare costantemente i propri problemi e la propria scala di valori nella vita. Ieri sera, gli occhi buoni di Abate e quelli timidi di Mastandrea, mi hanno fatto pensare che questo è un romanzo di morte, di malattia, di vita, di generosità, ma soprattutto di rinascita; perché insegna a restare a galla: che è la cosa più bella del mondo.
Grazie Francesco, soprattutto per le due pagine che hai dedicato alla tua donatrice, un grande dono anche per noi tutti, che forse dovremmo chiedere scusa a te, e a tutte le persone che soffrono, per la nostra indifferenza.
Già, si dovrebbe chiedere scusa: per il disinteresse colpevole, per l'amore negato, che non potrà ritornare dall'altro come un’eco. Perché “alla fine l’unica cosa che conta è l’amore che hai dato e quello che hai ricevuto”. O no? “Il resto è nulla.” Bel romanzo, questo di Francesco Abate (scrittore, giornalista, disk jockey nonché... trapiantato di fegato) e Saverio Mastrofranco (che è poi Valerio Mastandrea, l’attore), un romanzo forte e significativo sulla malattia e sulla compassione vera. (Stefan Zweig ricorda che circola più spesso quella falsa, di compassione, “l’impazienza del cuore”, quell’impulso che ti fa dare l’elemosina al povero per toglierti il disagio fugace della sua presenza sulla tua strada...) Un romanzo con qualche forzatura nel linguaggio, specie all’avvio, qualche iperbole di troppo, ma che poi scorre via più fluido, e allora prende e lascia il segno. P.S.: In "Vita e morte di un ingegnere" di Edoardo Albinati, che ho letto da poco, la classe medica faceva una pessima figura: qui molto meglio, è un sollievo.
Lo ammetto, quando ho a che fare con gli ospedali sono sempre a disagio. Essere al cospetto di così tanta sofferenza mi fa sentire indegno della fortuna di avere un corpo sano e mi fa vergognare dei piccoli problemi per cui mi angoscio. E’ per questo motivo che ho sempre grande pudore nel parlare della malattia ed è lo stesso pudore che provo ora nel cercare di commentare questo romanzo.
Abate ha raccontato con umiltà, ma al tempo stesso con grande coraggio e senza cercare di addolcire la pillola, la sua esperienza prima di ragazzo/uomo, condannato ad una vita limitata da una diagnosi precoce, e poi di trapiantato. Ci ha ricordato quanto sia importante la speranza per l’uomo e quale atto di lealtà civica sia il donare i propri organi per ridare una possibilità a persone che sono appese all’esile filo di un miracolo. Soprattutto, ha raccontato l’altra faccia della sanità italiana. Quella bella, fatta di uomini e donne che affrontano furibonde battaglie contro la sofferenza e l’ingiustizia della vita armati delle loro capacità, degli (scarsi) mezzi a loro disposizione ma, soprattutto, di tantissima umanità. Quella di cui non si sente parlare sui giornali ma che esiste e che io ho potuto osservare all’opera con i miei occhi. Ha raccontato la grande solidarietà che si viene a creare tra i degenti nelle sale d’aspetto dei day hospital o nelle stanze dei reparti di terapia intensiva, una solidarietà che è paragonabile soltanto a quella che lega commilitoni che hanno fatto la guerra insieme o ai sopravvissuti ad un disastro, a persone che sanno di aver affrontato una prova durissima che ha segnato le loro vite in modi che non possono essere compresi dagli altri.
Chiedo scusa ai tanti che sono passati per un calvario del genere per tutte le volte che ho voltato loro le spalle per non distrarmi dalle mie occupazioni ma, soprattutto, per non aver voluto aprire gli occhi sul mare di angoscia che avvolge il mondo. E ringrazio Abate per avermelo ricordato.
Pensare a tutto ciò che Francesco Abate ha dovuto affrontare nella vita mi dà i brividi. Pare davvero che la sorte si sia accanita con lui e con la sua famiglia provocandogli immani sofferenze sia fisiche che psicologiche. Eppure, di fronte all'ennesima prova a cui viene sottoposto, tira fuori tutto il suo coraggio e decide di affrontare i rischi di un trapianto piuttosto che smettere di lottare. Il libro racconta il prima, il durante e il dopo trapianto senza pietismi o autocommiserazioni, anzi, ci sono anche delle descrizioni che strappano qualche sorriso. La malattia cambia le prospettive e porta anche l'autore a rivedere certe sue scelte e convinzioni, per fare in modo che "... nel frattempo sia valsa la pena vivere".
Onesto. Modesto. Questi i due pregi che riconosco a questo libro. Un libro che forse mette troppa carne al fuoco, e non ha la forza per cucinare tutto. Un libro sicuramente sofferto, vissuto, che parla di una storia vera, ma manca del coraggio per arrivare in fondo, a sciogliere tutti i nodi. Un libro a tratti toccante, che non convince. Forse un libro con questo tema non può essere scritto a 4 mani?
“Ho visto i bambini e la mia rinuncia. Forzata. Ho visto la mia solitudine, le assenze, i vuoti. Simili a quelli di mia madre. La differenza è che io sono nato vedovo e ho seppellito i miei figli prima che nascessero. L’ho fatto per non mietere dolore, non lasciare spose in lutto, orfani disperati. L’ho fatto perché sono nato e cresciuto con la coscienza che non sarei potuto durare a lungo.” • É una storia di rinascita, di ricordi sbiaditi che si colorano quando la paura monta e fa apparire tutto più reale, più tragico, più vicino. Una storia di quelle che pensi non ti riguarderanno mai e che poi ti piomba in testa come un meteorite, pronto a spazzare via il tuo mondo intero. Una storia che fa venire voglia di piangere per poi scoppiare a ridere senza neanche riuscire a capire il perché. E Francesco lo sa bene. Leggendo le sue parole ho riconosciuto la rabbia di quel cuore ragazzino, divenuto uomo nel corpo di una donna, che voleva prendere a schiaffi la vita (e a volte anche me) per godersela di più, ogni giorno di più; ho rivisto quei polmoni che, nonostante tutto, faticavano di nuovo a scambiare aria in un corpo martoriato da sofferenze indicibili ma di una bellezza e una dolcezza ineguagliabili; ho sentito la risata fragorosa di quel fegato portato a spasso da quella faccia buffa ma tanto sapiente di chi dispensa saggi consigli agli altri - in taverna - ma non ne tiene uno per sé. Questi organi hanno tutti un nome, un volto, un’identità che, per ovvie ragioni, non posso citare. E me li ricordo tutti. Molti di loro (troppi) hanno deciso di visitare altre galassie, tanti di loro mi hanno fatto disperare e fatto venire voglia di ‘stimbrare’ prima del tempo, tutti mi hanno insegnato qualcosa e con tutti loro ho riso almeno una volta. Difficile a credersi, ma negli ospedali, in quel posto brutto che molti pazienti chiamano casa (e anche io di fatto) si ride tanto, per cose, eventi, parole per cui, forse, fuori da lì non rideresti allo stesso modo.
Non c'è rabbia, non c'è rancore, non una carogna incazzata con la vita, ma un ragazzino diventato uomo attraverso la malattia. Ritrovo, tardivamente, il passaggio che posti ogni anno sulla tua pagina facebook: un post commovente che descrive una traiettoria di vita e la tua rinascita. Non ho conosciuto il Francesco giornalista e non posso fare paragoni con lo stile precedente ma quello attuale, anche di questo libro, è ironico, allegro, toccante, ricco e essenziale, senza fronzoli. Grazie Francesco per la tua capacità di descrivere così bene la sofferenza e farci capire l'importanza di essere donatori.
Ho alternato commozione a grasse risate e, forse, sono proprio queste che mi han permesso di non sciogliermi in una valle di lacrime. È un libro che ti prende e ti percuote l’anima come un battipanni sul tappeto, che ti centrifuga a mille le emozioni e non sai più nemmeno tu cosa stai provando. È stata una sorpresa, un pugno nello stomaco, un regalo e anche un calcio nel culo. Leggetelo, almeno una volta nella vita; regalatevi questo vaso di Pandora anche solo per ricordare che, nonostante tutti i mali, la speranza è quella che rimane. Sempre. Fino alla fine.
Francesco Abate dimostra che i libri possono aiutare a capire che donare gli organi è soprattutto un gesto di civiltà! Chi è malato non dovrebbe mai chiedere scusa, chi è in attesa di trapianto o riceve un organo non ha assolutamente nulla da farsi perdonare, anzi, forse grazie al loro bisogno l’idea della morte diventa in qualche modo più accettabile, sembra avere un senso …
I libri possono essere anche questo: possono aiutare a formare la nostra coscienza sociale e farci capire che donare gli organi non è solo un atto d’amore verso il prossimo, è anche e soprattutto un gesto di civiltà!
Che dire di questo libro? Scelto più per la copertina che per altro, si è rivelato una piccola perla. La storia è quella di Valter, cronicamente ammalato di fegato e della sua vita che da questa malattia viene inevitabilmente segnata: i rapporti umani, l'approccio con il prossimo, il lavoro, l'ospedale, tutto viene vissuto da una prospettiva fatta di rabbia e nichilismo fino al momento dell'inevitabile trapianto. Toccante e profondo.
Prima di prenderlo in prestito avevo ovviamente letto alcune tra le recensioni qua su aNobii e avevo visto la media dei voti, impressionante, non sono molti i libri che hanno 4,5 stelline di media, per di più se il romanzo è contemporaneo. Quindi ero spaventata, mi sono subito chiesta "E se a me non piace?". Che sciocca. Questo libro non può non piacere, non può non dire qualcosa, è talmente potente che anche solo una piccola traccia la lascia. E' un libro di pancia, sostanzialmente. Scritto col cuore e con la testa, certo, ma la sua forza sta nell'irruenza delle parole, nell'urgenza della scrittura, nelle pagine vigorose piene di riflessioni a volte sussurrate a volte urlate con voce stentorea. Mi si potrebbe dire che è facile fare un libro che "acchiappa" il lettore quando si parla di malattia. Beh, non è esattamente così, se fosse così semplice tutti quelli che si ammalano potrebbero scrivere il "loro" libro, e teoricamente dovrebbero essere tutti libri fantastici. No, decisamente non è così. In realtà, per quanto la malattia sia una costante tristemente comune per moltissime persone e famiglie, parlarne, raccontarla, è difficile. Perchè ci sono tante cose che si vorrebbero dire, perché molte di queste cose non verrebbero capite, perché il dolore è spiacevole e complesso da far comprendere, perché la forza che troviamo in noi per andare avanti molto spesso non riusciamo a spiegarla nemmeno a noi stessi, figuriamoci agli altri, e, non da ultimo, perché bisogna saper scrivere. Quindi un libro sulla sofferenza fisica e morale non è una passeggiata. Specialmente quando ci si accorge che il dolore è una cosa così comune: spesso pensiamo di essere gli unici a star male, invece ci sono moltissime persone che stanno come noi se non peggio, aprire gli occhi, accorgersene, forse è una delle cose più difficili. Gli autori riescono a fare anche questo: il protagonista non pensa più al suo orticello, ma lentamente osserva anche gli orti dei vicini perché a volte è proprio vero che l'unione fa la forza, che la comunanza ci rende più solidi e concentrati. Aggiungiamoci anche i pensieri sulla donazione degli organi, sul costo, sul "peso" che si porta quando si è malati, sul senso di quello che si fa... beh in queste 230 pagine c'è talmente tanta sostanza da far girare la testa.
Su libri come questo dovrebbero mettere una fascetta con su scritto: attenzione/caution maneggiare con cura, qui dentro c’é, in parte, l’anima di un uomo. Perché poi leggi un librotestimonianza così e ti ritrovi con l’anima di un uomo fra le dita e non sai bene casa farne. Ti identifichi, ti difendi, la fai ballare da una mano all’altra, vorresti tanto passarla a qualcun d’altro, scotta, é gelata, guardarla fa male, la stringi nel pugno e la scaglieresti lontano. Ma poi arriva il momento che comprendi che ci vuole pudore e delicatezza e onestà verso quest’anima, le mani da sole si posizionano all’altezza del cuore e la lasciano parlare e il cuore si mette all’ascolto. Questo libro non si valuta con il pensiero con l’intelletto, lo si può valutare solo con il sentimento. Lasciare che le due anime, di chi ha scritto e di chi ha letto si tocchino, vuol dire aprire le palmi e tenerla con delicatezza, vuol dire lasciar fluire quel che ha da dire, vuol dire approfittare dell’esperienza che ti viene donata, vuol dire accettare di condividire, vuol dire com-patire. Solo allora la si può lasciare andare. Libera. (non stellabile)
"Per gli amici del Day Hospital, io sono Chiedo scusa. Rino lo chiamano Il Generale, Aurelio è Margheritina. Il soprannnome dipende dalla visione e dal delirio che ognuno di noi ha avuto dopo."
Ero indecisa su quale voto dare a questo libro (sarebbe un 3 e mezzo) e ora vi spiego perchè... La prima parte, devo dire, anche se scritta in modo scorrevole, l'ho trovata un po' noiosa quando si parla della famiglia di lui. Il voto è salito a metà del libro, quando sopraggiunge l'operazione...lì sono rimasta veramente affascinata, Da contare poi che stiamo parlando di una storia vera. Mi è piaciuto il finale,
Una pagina commuove e l'altra fa sorridere senza mai scadere nell'angoscia, anzi: quando finisce lascia una sensazione di benessere, perch� malgrado la tristezza del tema � comunque un inno alla bellezza del vivere.