È il primo libro di liriche di Giovanni Pascoli, pubblicato nel 1891 in 21 componimenti e cresciuto sino a 150. Il titolo, dedotto da Virgilio, indica l'intendimento del Pascoli di comporre piccole poesie, ispirate alla natura, che insieme formino come un diario della vita intima e sentimentale del poeta. Le poesie sono raggruppate in base ai motivi ispiratori e a ciascun gruppo corrisponde un Dall'alba al tramonto, Ricordi L'ultima passeggiata, Pensieri, In campagna, Tristezze, Dolcezze.
Giovanni Pascoli (San Mauro di Romagna, 31 dicembre 1855 – Bologna, 6 aprile 1912) è stato un poeta e accademico italiano, figura emblematica della letteratura italiana di fine Ottocento.
Pascoli, nonostante la sua formazione eminentemente positivistica, è insieme a Gabriele D'Annunzio il maggior poeta decadente italiano.
Dal Fanciullino, articolo programmatico pubblicato per la prima volta nel 1897, emerge una concezione intima e interiore del sentimento poetico, orientato alla valorizzazione del particolare e del quotidiano, e al recupero di una dimensione infantile e quasi primitiva. D'altra parte, solo il poeta può esprimere la voce del "fanciullino" presente in ognuno: quest'idea consente a Pascoli di rivendicare per sé il ruolo, per certi versi ormai anacronistico, di "poeta vate", e di ribadire allo stesso tempo l'utilità morale (specialmente consolatoria) e civile della poesia.
« Il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, non maestro, non tribuno o demagogo, non uomo di stato o di corte. E nemmeno è, sia con pace del maestro Giosuè Carducci, un artiere che foggi spada e scudi e vomeri; e nemmeno, con pace di tanti altri, un artista che nielli e ceselli l'oro che altri gli porga. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette l'uno e l'altra [...] » (G. Pascoli - da Il fanciullino) Pur non partecipando attivamente ad alcun movimento letterario dell'epoca, né mostrando particolare propensione verso la poesia europea contemporanea (al contrario di D'Annunzio), Pascoli manifesta nella propria produzione tendenze prevalentemente spiritualistiche e idealistiche, tipiche della cultura di fine secolo segnata dal progressivo esaurirsi del positivismo. Complessivamente la sua opera appare percorsa da una tensione costante tra la vecchia tradizione classicista ereditata dal maestro Giosuè Carducci, e le nuove tematiche decadenti. Risulta infatti difficile comprendere il vero significato delle sue opere più importanti, se si ignorano i dolorosi e tormentosi presupposti biografici e psicologici che egli stesso riorganizzò per tutta la vita, in modo ossessivo, come sistema semantico di base del proprio mondo poetico e artistico. From: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Giova... http://en.wikipedia.org/wiki/Giovanni...
C'è un mondo intero oltre l'apparenza delle piccole cose, un universo complesso, sfaccettato e splendido per chi sa scorgerlo, capirlo, apprezzarlo. C'è un sentiero piano oltre l'apparenza delle piccole cose: una strada che conduce oltre la superficie, a reimparare a guardar il mondo con occhi nuovi, a stupirsi, a non dare nulla per scontato, ad aprire la mente a quella sublime comprensione della vita e dell'essere che si fa sublime opportunità di crescita e grande lezione di vita.
Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario dànno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti. Oh! lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene.
Così parte questa raccolta di poesie di Pascoli e inizio migliore non poteva avere, infatti le poesie raccolte in questo libro sono un'immersione totale nella Natura che tutto culla. Pascoli fu uno dei miei argomenti della maturità, ormai tanti anni fa :-S Reimmergersi nella sua poetica, mi ha fatto riandare a quel periodo, ma anche mi ha fatto scoprire un autore molto delicato, soprattutto verso i suoi familiari, che in molte poesie li descrive in modo così tenero, ma anche delle piante ed animali che "popolano" il luogo dove il Pascoli ha vissuto e vive con rara sensibilità. Le poesie qui raccolte molto molteplici, ci vorrebbe una lettura più lenta e documentata per poterle apprezzare a dovere, ma già soltanto la sonorità dei versi è stupenda! Ma Pascoli non riduce soltanto a questo, molti altri elementi naturali emergono con sempre più rara sensibiltà dai suoi versi, densi di sfumature...
Novembre
Gemmea l’aria, il sole così chiaro che tu ricerchi gli albicocchi in fiore, e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore...
Ma secco è il pruno, e le stecchite piante di nere trame segnano il sereno, e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.
Silenzio, intorno: solo, alle ventate, odi lontano, da giardini ed orti, di foglie un cader fragile. È l’estate,
fredda, dei morti.
Il lampo
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Nel panorama letterario italiano, Giovanni Pascoli (1855-1912) è forse un poeta ancor poco apprezzato, se non intenzionalmente ignorato o addirittura dimenticato e relegato alle vecchie antologie scolastiche dei tempi in cui studiare poesia, al contrario di quanto accade oggi, veniva considerata cosa buona e giusta. Eppure, quella dell'autore romagnolo resta una delle voci poetiche di maggior rilievo e più rappresentative del periodo a cavallo tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, come del resto ben anticipava la stessa raccolta “Myricae”, pubblicata per la prima volta nel 1891; l'edizione definitiva, comprendente centocinquanta liriche raggruppate per temi, sarebbe giunta a distanza di una dozzina d'anni. Tra queste pagine di raro pregio, si susseguono soprattutto brevi testi, piccoli componimenti finemente cesellati e ispirati alla natura, dove trovano spazio l'amore per la terra natale (quella “Romagna solatia, […]/ cui regnarono Guidi e Malatesta” cantata con passione e trasporto non comuni), gli affetti più cari, i ricordi specie dell'infanzia e della prima giovinezza, la solitudine struggente, i tanti lutti che, uno dopo l'altro, si abbatterono sulla famiglia Pascoli, a partire dall'omicidio, peraltro impunito, del padre Ruggiero alla cui memoria l'opera è stata dedicata. La presenza della morte, non a caso, aleggia molto spesso su questi versi, impregnandone l'essenza e condizionando le emozioni e la visione del mondo da parte del poeta; una visione, proprio in virtù di tutto ciò, sempre ammantata di malinconia, se non di cruda tristezza, così come di tacita rassegnazione di fronte alla immanenza del dolore che mette radici profonde e inestirpabili nell'umano vivere. E la felicità, dunque, non ha possibilità alcuna di esistenza? Forse, ma essa si riduce soltanto a qualcosa di sfuggente, vago, ingannevole il cui inseguimento termina ogni volta tra le ombre della sera per annullarsi nell'inevitabilità di un “silenzio infinito”. Poesia sorprendente e ammaliante, quella che le “Myricae” donano al lettore, il quale si ritrova così a contemplare la lenta e atavica vita nei campi, a perdersi tra i colori dei paesaggi che seguono l'eterno alternarsi delle stagioni, ad ascoltare le cantilene d'amore delle lavandaie o il chiacchierare notturno e sognante delle fanciulle intente a lavorare all'arcolaio alla luce della lanterna. Scrittura, quella pascoliana, attenta altresì al particolare, al quotidiano, alle umili cose della campagna, ma non per questo priva d'eleganza e raffinatezza formali che culminano in una musicalità puntuale e impeccabile. Riguardo a Pascoli, così Gabriele d'Annunzio scriveva: “Penso che nessun artefice moderno abbia posseduto l'arte sua come Giovanni Pascoli la possedeva. La sua esperienza era infinita, la sua destrezza era infallibile, ogni sua invenzione era un profondo ritrovamento. Nessuno meglio di lui sapeva e dimostrava come l'arte non sia se non una magia pratica.” Parola di Vate!
Tra i componimenti più belli dell'intera silloge, mi piace ricordare quello intitolato “Romagna”, i cui versi, appresi almeno tre decenni fa, sono riaffiorati come per incanto alla mia memoria:
“Romagna” (a Severino)
Sempre un villaggio, sempre una campagna mi ride al cuore (o piange), Severino: il paese ove, andando, ci accompagna l’azzurra vision di San Marino:
sempre mi torna al cuor il mio paese cui regnarono Guidi e Malatesta, cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta.
Là nelle stoppie dove singhiozzando va la tacchina con l’altrui covata, presso gli stagni lustreggianti, quando lenta vi guazza l’anatra iridata,
oh! Fossi io teco; e perderci nel verde, e di tra gli olmi, nido alle ghiandaie, gettarci l’urlo che lungi si perde dentro il meridiano ozio dell’aie;
mentre il villano pone dalle spalle gobbe la ronca e afferra la scodella, e ‘l bue rumina nelle opache stalle la sua laboriosa lupinella.
Da’ borghi sparsi le campane in tanto si rincorron coi lor gridi argentini: chiamano al rezzo, alla quiete, al santo desco fiorito d’occhi di bambini.
Già m’accoglieva in quelle ore bruciate sotto ombrello di trine una mimosa, che fioria la mia casa ai dì d’estate co’ suoi pennacchi di color di rosa;
e s’abbracciava per lo sgretolato muro un folto rosaio a un gelsomino; guardava il tutto un pioppo alto e slanciato, chiassoso a giorni come un birichino.
Era il mio nido: dove immobilmente, io galoppava con Guidon Selvaggio e con Astolfo; o mi vedea presente l’imperatore nell’eremitaggio.
E mentre aereo mi poneva in via con l’ippogrifo pel sognato alone, o risonava nella stanza mia muta il dettare di Napoleone;
udia tra i fieni allor allor falciati de’ grilli il verso che perpetuo trema, udiva dalle rane dei fossati un lungo interminabile poema.
E lunghi, e interinati, erano quelli ch’io meditai, mirabili a sognare: stormir di frondi, cinguettio d’uccelli, risa di donne, strepitio di mare.
Ma da quel nido, rondini tardive, tutti tutti migrammo un giorno nero; io, la mia patria or è dove si vive: gli altri son poco lungi; in cimitero.
Così più non verrò per la calura, tra que’ tuoi polverosi biancospini, ch’io non ritrovi nella mia verzura del cuculo ozioso i piccolini,
Romagna solatia, dolce paese, cui regnarono Guidi e Malatesta; cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta.
L'idea era di riandare alle poesie studiate alle medie e amate (rigorosamente imparate a memoria). Per un verso è stato emozionante riprovare quasi le stesse sensazioni di allora (non avevo più letto nulla di Pascoli), per un altro è stato un po' deludente trovare sempre in quasi tutte le poesie la stessa vena melanconica del destino funesto che incombe, del decadimento ineluttabile. Pascoli è un grande poeta, senza dubbio, ma lette alcune poesie, a parte le lirica meravigliosa, mi sembra di averle lette tutte. E' la mia modesta sensazione, neanche un'opinione.
Chi non ha letto o imparato a memoria almeno una poesia di Pascoli?
Proprio casualmente ho letto una delle sue raccolte. L'ho apprezzata grandemente, ho capito tante cose che a scuola non avevo compreso appieno. E anche il fatto di sapere tante, tantissime di queste poesie a memoria, imparate sin dalle elementari, è stato ancora più bello!
Erano parole che già avevo dentro da tanto che ora comprendo in una maniera nuova.
È. Penso che l'essere sia tra gli attributi che più aderiscono al modo di Pascoli di dar forma alla sua sensibilità di poeta. Il suo sguardo quasi mimeticamente è: è le piante che appaiono lungo tutta la raccolta, é il canto degli uccelli che guidano i versi, è la natura, le stagioni, l'uomo che ad essi si mescola, è i colori e la luce del cielo, del giorno e della notte. Ed è "semplicemente" in questo essere, che nasce, come gemma nuova, la riflessione sulla condizione dell'uomo, sulla condizione di eterno viaggio, inteso come errore (errare, camminare) che l'uomo compie continuamente. Il più evidente viaggio è quello della vita verso la morte, ma il viaggio inteso come ricordo, come ritorno al passato, al punto d'origine e di partenza allo stesso tempo è forse il viaggio più significativo di questa raccolta di poesie. E il lettore viaggia con Pascoli, scopre le tenerezze dei fiori e dei frutti, i misteri celati dalle nebbie, dalla pioggia, dalla neve, i giochi intensi di luce che dischiudono sguardi, delineano sagome che sanno di affetti, di abbandono e di dolore. La trama fonica è ricchissima, ritmata, continua, ripetitiva. C'è nell'esercizio di questo stile una leggerezza sorprendente, una sorpresa. Pascoli è come sono gli animali, le piante, i fiumi e le montagne: è e non può non essere.
Io e te non siamo mai andati poi così tanto d’accordo ma, infondo, ti sono grata… forse perché, nella tua essenza richiusa, sei riuscito comunque a cogliere qualcosa di invisibile che nessun altro aveva notato.
Myricae — tamerice. Come quei fiori che non puoi comprare e che tuttavia crescono, vicino al mare e in mezzo ai sassi plant 🌱
Fra giochi acustici e impressioni visive, la campagna fra Romagna e Garfagnana diventa un giardino in cui tutto ha una voce. Ma ascoltare ogni voce è ascoltare la morte, e i protagonisti di questo quadro, piante e uccelli, sono fantasmi di un animo offeso senza revoca.
Certo che se Leopardi rappresentava il pessimismo cosmico, nel caso di Pascoli parlerei di disperazione universale. Comunque, a parte gli scherzi, parecchie poesie erano piuttosto famose e le altre erano belle, a tratti bellissime e tutte molto, molto, molto tristi.
Giovanni Pascoli è un poeta che si impara a conoscere fin da bambini. La sua poesia ha un suono unico e inconfondibile, e riesce a suscitare delle impressioni forti con i suoi accostamenti di colori, odori e immagini e per l'uso sapiente dell'onomatopea. Ma non è un poeta "per bambini": di Pascoli si apprezza molto di più di quel che c'è nella semplice parola. Al di là dei suoi versi c'è un uomo che ha sofferto e che si accontenta delle semplici gioie che un fiore o il ricordo della fanciullezza o la campagna natia sanno dargli: e che, nonostante i limiti insiti nella parola scritta, riesce a comunicare le emozioni con una poesia curata e particolarmente sentita, che sa far venire i brividi nella sua semplice immediatezza.
La raccolta è corredata da un ampio (anche se purtroppo noioso) saggio introduttivo, e ogni poesia, oltre alle note, ha un'introduzione che ne spiega la metrica e anticipa i temi.
la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Pascoli ingiustamente sottovalutato.
Devo ammettere che se non avessi seguito un corso universitario monografico su Giovanni Pascoli non avrei mai scelto volontariamente di (ri)leggere le Myricae. Eppure, eppure l'ho trovato un testo magnifico, pieno di suggestioni e di rimandi 'dark' alla natura e alla vita in generale. Si sente tantissimo l'influenza di Poe e Baudelaire - che Pascoli ebbe fra le sue letture - e ovviamente molteplici sono i rimandi alla cultura classica, in particolare a Virgilio (da cui lo stesso titolo Myricae, IV Egloga). La vita del povero Giovannino non è stata semplice e gli echi di morte e dolore sono presenti in ogni componimento (alcuni talmente struggenti da avermi generato malessere). Il suo rapporto con la natura e con la vita di campagna è davvero ancestrale, fatto di cose e persone semplici, gesti antichi e ritualità che, oggi, nel nostro mondo post-postmodernista abbiamo completamente bypassato ed etichettato come coseinutili al progresso e alla società tecnologica e iperindustrializzata. Eppure, eppure.. trovo che Pascoli, riletto oggi, possa aiutarci a decostruire il nostro malessere e a riconnetterci con le nostre "umili origini" (quelle ancestrali) e soprattutto a ricostruire il nostro rapporto con il dolore, con la perdita e il lutto. Pascoli non fu un uomo risolto, morì consumato dai suoi dolori (con un cancro al fegato, organo che è da sempre simbolo delle emozioni che corrodono il corpo) ma ebbe il coraggio di vivere a stretto contatto con il proprio dolore, esorcizzarlo scrivendo, dialogando continuamente con i suoi morti e i suoi demoni. Ho apprezzato enormemente, con occhi e mente da adulta, la capacità fotografica e musicale nell'utilizzo della lingua: alcuni componimenti sono istantanee vividissime, con l'aggiunta magistrale di suoni e colori. Mi stupisce un uso così sapiente della lingua italiana a cui ormai mi sento disabituata (e ne faccio un mea culpa personalissimo per non essere sempre sul pezzo soprattutto per quanto concerne le nuove pubblicazioni poetiche).
Pascoli si colloca anagraficamente a metà tra Carducci e D’Annunzio, gli altri due poeti di riferimento dell’Italia ottocentesca appena unita.
La sua è una poesia che ci parla delle cose e dei momenti della vita quotidiana. Una vita molto semplice, in cui la campagna romagnola dove il poeta nacque è la grande protagonista.
La vita di Pascoli fu pesantemente condizionata da una serie di lutti a dir poco sconvolgenti. Quarto di dieci fratelli (di cui due morirono da piccoli), quando aveva dodici anni suo padre venne assassinato. L’anno successivo morirono la madre (di crepacuore) ed una sorella (a causa del tifo). Nei successivi otto anni morirono altri due fratelli. Così, a poco più di 25 anni, Pascoli si fece carico delle restanti due sorelle portandole a vivere con sè.
Non stupisce pertanto che in molte delle sue poesie il tema della morte sia presente.
Ma anche la natura ha una parte notevole in questa raccolta: d’altra parte myricae, in latino, indica le tamerici, quelle piccole piante che crescono in prossimità del mare. Il racconto della natura va di pari passo con quello della gente e della semplice vita di paese. Una vita semplice alla quale Pascoli guarderà sempre con nostalgia, anche quando raggiungerà il prestigioso traguardo di ricoprire la cattedra di letteratura italiana all’Università di Bologna, succedendo addirittura a Carducci.
Dei tre grandi poeti italiani forse oggi Pascoli è quello più facilmente leggibile, perché le sue tematiche sono più universali e meno connotate dal tempo. “Temporale”, “Sera d’ottobre”, “Passero solitario” sono alcuni esempi.
D’altro canto c’è da dire che, a fronte di una facilità di lettura che resiste al tempo, anche tra le righe del Pascoli si percepisce un modello di vita che oggi non sapremo riconoscere.
Molto bella questa edizione Rizzoli, nella quale ogni poesia è corredata di note e di un’esaustiva introduzione.
Qualcuno potrebbe storcere il naso vedendo un libro così importante dal punto di vista letterario con una valutazione così scarsa. Ma io non sono il tipo di persona che da un voto alto ad un libro solo perchè è un classico. Non pretendo di essere una esperta di letteratura o una critica letteraria, ma il mio voto esprime solo e semplicemente il mio gradimento personale, una questione di gusto. Detto questo, io non amo particolarmente la poesia, o meglio, non la amo quanto la prosa, che mi emoziona in un modo che la poesia non riesce ad eguagliare . Ogni tanto però leggo qualcosa per curiosità. Quando andavo a scuola Giovanni Pascoli era il mio poeta preferito e "Myricae " la sua opera che mi piaceva di più: essendo nata e cresciuta in campagna, mi sono piaciuti molto suoi componimenti che descrivono la vita in campagna. Ho deciso di rileggere questo libro adesso che non studio più letteratura, per il solo gusto di farlo. Sono state riconfermate le mie impressioni dei tempi della scuola. Pascoli era sicuramente un uomo che avrei voluto conoscere, amante delle piccole cose, tormentato da un dolore che ottenebra ogni cosa, sensibile in modo straordinario. I suoi componimenti trasmettono questa immagine di lui e sono il frutto di tante riflessioni profonde. Mi sono piaciuti, tuttavia non mi hanno emozionato più di tanto, proprio perché il linguaggio poetico più di così non mi ha mai emozionato come invece la prosa.
Mi è piaciuto più di quello che pensavo (tolte le riflessioni scritte in codice botanico/ornitologico, ma vabbè a ognuno le proprie fisse). Ad oggi continuo a vivere il 10 agosto come un giorno triste.
Consiglio a chi vuole avvicinarsi a Pascoli di leggere Myricae e basta, così da evitare di imbattersi nel Gelsomino notturno (Canti di Castelvecchio) e subire dei gravi traumi alla sensibilità.