Un alternarsi di orrore e solitudine, di incapacità di comprendere e di essere compresi, in una narrazione che nonostante tutto è un inno alla vita e alla forza del "sentire". Alda Merini ripercorre il suo ricovero decennale in manicomio: il racconto della vita nella clinica psichiatrica, tra elettroshock e autentiche torture, libera lo sguardo della poetessa su questo inferno, come un'onda che alterna la lucidità all'incanto. Un diario senza traccia di sentimentalismo o di facili condanne, in cui emerge lo "sperdimento", ma anche la sicurezza di sé e delle proprie emozioni in una sorta di innocenza primaria che tutto osserva e trasforma, senza mai disconoscere la malattia, o la fatica del non sentire i ritmi e i bisogni altrui, in una riflessione che si fa poesia, negli interrogativi e nei dubbi che divengono rime a lacerare il torpore, l'abitudine, l'indifferenza e la paura del mondo che c'è "fuori".
Alda Merini was a renowned Italian writer and poetess. The President of the Italian Republic, Giorgio Napolitano, called her an "inspired and limpid poetic voice".
” "Di fatto non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di un'inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini"
Questo testo raccoglie annotazioni e riflessioni sul ricovero di Alda Merini all'interno dell'(allora) ospedale psichiatrico Paolo Pini a Milano.
La degenza fu intermittente tra il 1965 ed il 1975 e quindi nel periodo pre-Basaglia.
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Succede all'improvviso di essere catapultati in questa dimensione sconosciuta dove la debolezza psichica non trova sollievo ma si accentua.
Malattia come peccato:
”… da allora credo solo in un Dio che punisce “
Solitudine:
” (…) la nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille solitudini, un silenzio ingombrante, atono, come le foglie ferme, ma noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra infelicità dava sangue, e le nostre ali erano tarpate e il nostro grembo deserto
Il Potere
Corpi gestiti da altri corpi. Desideri soffocati. Il labirinto della mente straziata da farmaci che diventano un surrogato materno. Si cerca empatia, condivisione per questa espiazione di mali non compresi. E il mondo là fuori partecipe della reclusione è sempre più estraneo, nemico, perché non ti riconosce più neppure un briciolo di umanità.
Merini, per quanto permetta la malattia, per quanto permetta il poco spazio lucido lasciato dai farmaci, cerca di reagire. Si appiglia ad un medico e alle sue teorie psicoanalitiche. Si appiglia alle parole e alle immagini poetiche che le si presentano davanti come esili ma ferme ancore di salvezza.
” Io, quando scrivo, è come se dormissi ed entrassi nel profondo della mia anima. Mi fa paura il risveglio, il contatto matematico, aggressivo con la realtà dalla quale vorrei finalmente slegarmi”
Attraverso una prosa semplice ed essenziale Alda Merini illustra la complessità della mente umana o, ancora meglio, della mente di un’intera umanità; con apparente serenità, indaga non solo le viscere cerebrali dei degenti ma anche lo spirito con il quale medici e società affrontavano e, purtroppo, ancora affrontano la malattia mentale.
“Io mi auguro che la malattia di mente venga finalmente sfatata e ricondotta alla sua vera base, che è un disturbo della emotività”: impressiona pensare come ancora oggi, a più di cinquant’anni dall’internamento e dall’esperienza manicomiale dell’autrice e a più di trent’anni dalla prima pubblicazione dell’opera, i disturbi mentali vengano ancora considerati tabù e demonizzati.
In un secolo il cui male caratteristico e più diffuso si pensi sia la depressione, trovo che questo libro debba essere vivacemente consigliato come lettura scolastica almeno a partire dagli istituti superiori, avendo la potenzialità di identificarsi come un’ottimo sprone verso l’accettazione di queste patologie ancora velate di mistero e verso il superamento della vergogna insita in chi ne soffre a confidarsi con gli altri.
La vita è strana, può essere diversa e farci provare sensazioni e pensieri speciali, originali ma, non per questo, unici: non bisogna avere paura delle proprie emozioni perché la vita è pur sempre degna di essere vissuta e, farci sopraffare dall’inquietudine senza creare condivisione, avrebbe come solo risultato quello di auto-imporci delle catene dalle quali diverrebbe sempre più difficoltoso scioglierci.
Ha grande forza poetica questo Diario che, a detta della stessa autrice, è “un'opera lirica in prosa”. Pagina dopo pagina, annotazione dopo annotazione, Alda Merini ricostruisce e ripercorre la propria esperienza personale all'interno dell'ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, dove venne fatta ricoverare dal marito a partire dalla metà degli anni Sessanta: un lungo dolorosissimo internamento che le avrebbe lasciato nell'anima ferite profonde e, seppur a distanza di tempo, cicatrici destinate a non scomparire mai più.
“Ricordo il primo giorno che entrai in manicomio. Fin lì non ne avevo mai sentito parlare. Avevo chiesto aiuto a dei neurologi per dei piccoli disturbi, ma non conoscevo questi ghetti. Perché, se avessi saputo una cosa simile, mi sarei certamente uccisa.”
Ed ecco sfilare uno dopo l'altro, nella memoria di chi li ha vissuti sulla sua pelle, tutti gli orrori di quello che era all'epoca il manicomio, uno spazio strano e inumano, pieno di odori penetranti, in cui il tempo veniva meno riducendosi a una successione di giorni incolori sempre uguali: dalle abluzioni forzate del mattino all'elettroshock, senza dimenticare l'abbondante e scriteriata somministrazione di farmaci che finiva per distruggere la salute mentale di “malati” che, in molti casi, dalla pazzia vera e propria non erano certo affetti al momento del ricovero (spesso, in verità, si trattava di ordinari casi di depressione o di crollo nervoso); folli, semmai, si diventava per davvero, quasi come autodifesa, tra le inquietanti mura del manicomio, a seguito di trattamenti disumani e degradanti che buona parte del personale, tra medici e infermieri, non risparmiava a chi, là dentro, era totalmente inerme e alla sua mercé. Pochi, ma preziosi, i gesti di umanità in quel luogo di supplizio; calpestati senza pietà sogni e bisogni; limitata e mai incoraggiata la socialità tra i ricoverati (anche se ciò non impedirà alla Merini d'innamorarsi e sentire ancora la propria femminilità). Come quella di biblica ed evangelica memoria, anche il manicomio diveniva una sorta di Terra Santa, dove si espiavano le colpe del mondo e ogni cosa si faceva sacra, soprattutto il dolore.
“Sì, la Terra Santa. E noi vi eravamo immersi, in quelle latrine puzzolenti, dalle albe (ma non vedevamo mai un'alba) al tramonto più cieco.”
Tale esperienza non si esauriva con la fine dell'internamento, ma si trascinava anche oltre i cancelli dell'ospedale psichiatrico, condizionando per sempre l'esistenza anche di chi veniva infine dimesso, costretto a portare addosso un marchio d'infamia indelebile fra i pregiudizi e la diffidenza delle persone cosiddette “normali”.
“Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai”.
Pagine particolarmente drammatiche, sconfortanti e cariche di dolore intenso che, a tratti, sembra farsi palpabile nella successione talvolta disordinata e ripetitiva degli sprazzi di memoria che la grande poetessa milanese ha voluto qui condividere. Perché dopo il silenzio, anche poetico-creativo, al quale erano stata costretta in quegli anni miserevoli, sentiva forse il bisogno di raccontare, affinché niente di tutto ciò che aveva vissuto fosse più vittima anzitutto dell'indifferenza generale.
“La nostra legge era il silenzio. Il silenzio gravato da mille solitudini; un silenzio ingombrante, atono, come le foglie ferme ma noi eravamo teneri usignuoli feriti e la nostra infelicità dava sangue e le nostre ali erano tarpate e il nostro grembo deserto.”
mi aspettavo maggiore coinvolgimento emotivo da questo libro. Pensavo di leggere pensieri e considerazioni che avrei immortalato con commenti personali e sottolineature a gogò. invece ben poche sono state le frasi che mi si sono impresse nella mente e queste sono riferite alla vita all'interno delle istituzioni, e non a "pensieri profondi". Certo i fatti narrati sono terribili (già tristemente noti, devo dire e non in riferimento alla Merini). Le aberrazioni perpetrate proprio da coloro che erano/sono responsabili della cura di queste persone che io definisco delicate, spesso colpevoli solo di avere sensibilità acuite e di riuscire male ad adattarsi a una società cinica e impersonale, vanno al di là di ogni pensiero logico, vanno oltre la mia comprensione.
Da leggere, senz'altro, ma da considerare solo come una mera testimonianza e non uno zibaldone di pensieri (come mi aspettavo io).
Di fatto, non esiste pazzia senza giustificazione e ogni gesto che dalla gente comune e sobria viene considerato pazzo coinvolge il mistero di una inaudita sofferenza che non è stata colta dagli uomini.
Il dottor G. sostiene che io per lungo periodo persi il contatto con la realtà. Ma mi viene, anzi mi è sempre venuto un dubbio in proposito. Chi può stabilire che cosa è la realtà? Perché noi chiamiamo realtà ciò che vediamo, sentiamo, odoriamo. Non siamo dunque noi, la sola autentica realtà possibile? È da noi che partono le cose. E allora io andai solo un po' più in alto nel regno della metafisica.
L'uomo è socialmente cattivo, un cattivo soggetto. E quando trova una tortora, qualcuno che parla troppo piano, qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e così, nascono i pazzi
Un’altra verità. Sconosciuta. Spaventosa. Una vita parallela e disumana. Una vita internata in strutture putride e malmesse, dove gli individui erano trattati come non-persone, esseri che dovevano essere puniti per quello che non avevano fatto; allineati su delle pancacce, venivano sottoposti ad elettroshock, anche solo come cura preventiva o come stimolo, provocando nella mente dei degenti ancora più confusione e assenza dal mondo. In quegli anni, molti venivano ricoverati solo per episodi di depressione o mal di vivere o, addirittura, insonnia o mal di testa. Ai malati di mente si poteva fare di tutto, e tutto gli facevano.
Ci era proibito tutto; anche di soffrire d’insonnia. E l’insonnia spesso ci visitava, come visita qualsiasi persona su questa terra. Era un’insonnia strana, forse perché non eravamo stanche. Comunque era insonnia, e lì si curava con pensanti elettroshock.
Riprendere in mano questo libretto dopo 6 anni mi ha fatto riflettere sulla nostra condizione umana. Quanti di noi, se fossimo vissuti negli anni ’60, sarebbero stati internati in strutture del genere? Quanti sarebbero guariti e tornati alla vita normale? Difficilmente questo accadeva; era più facile il contrario.
L’internamento provocava nel malato un distaccamento totale dal mondo fuori, un rifiuto anche degli affetti, come un legame che si spezza all’improvviso e non si risalderà mai. L’unico legame che rimaneva erano i lacci con cui i degenti venivano legati, mani e piedi, al letto.
Naturalmente mi riportarono a letto e mi legarono di nuovo.
Trovo difficile parlare di questo argomento, un po’ perché è un tema medico molto delicato che solo un esperto può trattare, inoltre perché sono fermamente convinta che l’approccio di ognuno di noi, di fronte a questa realtà, sia troppo personale per essere banalizzato dalle parole. Per questo preferisco riportare brani tratti dal Diario di Alda e lasciare ad ognuno la riflessione giusta che il proprio cuore sa fare.
Quello che provo io, leggendo queste pagine, è un dolore sordo e profondo. Vi consiglio di immergervi. Contiene l’anima di Alda Merini. Un’anima buona, dolce e travolgente.
Avevo fame di cose vere, naturali, primordiali; avevo fame d’amore. L’avrebbero mai capito gli altri?
Alda guarì grazie al potere della scrittura… Io, quando scrivo, è come se dormissi ed entrassi nel profondo della mia anima. Mi fa paura il risveglio, il contatto matematico, aggressivo, con la realtà dalla quale vorrei finalmente slegarmi.
E chi viveva il manicomio non se ne liberava più, era qualcosa che restava incollato dentro… Il manicomio non finisce più. È una lunga pesante catena che ti porti fuori, che tieni legata ai piedi. Non riuscirai a disfartene mai. E così io continuo a girare per Milano, con questa sorta di peso ai piedi e dentro l’anima.
Orrore e solitudine, incapacità di esprimersi e di essere compresi o di comprendere se stessi e il perché di tanta crudeltà. Maldestro tentativi di dimostrare amore, la ricerca costante di affetto, il disgusto verso le “terapie” e verso gli altri malati incurabili. La disperazione. La perdita totale del contatto con la realtà a causa dei trattamenti inumani.
Il diario della Merini incentrato sui dieci anni trascorsi in manicomio è una lettura difficile, impatta emotivamente e quando hai chiuso il libro continui a pensare a certi passaggi, al fatto che tutte quelle cose sono accadute realmente in luoghi che avrebbero dovuto aiutare le persone a ritrovare se stesse a curarsi e invece quelle stesse persone venivano trattate come criminali, come scarti della società, destinate a trattamenti terribili.
un testo intensissimo, che descrive in maniera commovente la crudeltà dei manicomi chiusi con la legge Basaglia e della vergogna che attanagliava i cosiddetti malati di mente.
«Afuera se habla con frecuencia de la soledad, como si existiera un solo tipo de soledad, pero nada es tan feroz como la soledad del manicomio. En aquella despiadada repulsión por todas partes se meten serpientes de tu fantasía, picaduras del dolor físico, la aquiescencia de un catre sobre el que babea la otra enferma que está a tu lado, más arriba. Una soledad de los olvidados, de los culpables. Y tu camisón se vuelve insustituible, y también los harapos que llevas puestos porque únicamente ellos conocen tu verdadera existencia, tu verdadero modo de vivir».
Este párrafo demoledor puede resumir perfectamente lo que Merini cuenta en las páginas de este breve libro traducido por Carlos Skliar y publicado por la editorial Mármara. Es la primera obra que leo de esta autora tan desconocida en España, pero que cosechó en vida varios premios literarios.
Merini estuvo un tiempo en un hospital psiquiátrico, pero al final del libro asegura que esta historia no tiene por qué ser la suya, no tiene por qué ser verdadera, ella no lo confirma ni lo desmiente.
Sea como fuere, la hace suya, y escribe en esta obra un diario donde la protagonista y narradora no se esconde y relata su estancia de diez años en un manicomio. Entre soledad y horrores, la protagonista consigue producir poesía y hace que, entre tanta oscuridad, brillen rayos de sol.
La narradora terminará teniendo cuatro hijas, pero cuando solo tiene dos, agotada por la rutina y el trabajo en el hogar, decide huir. Como reprimenda, la intentan en un manicomio y como consecuencia se quedará allí una década. Cuenta que se volvió loca nada más entrar en aquel lugar y ser consciente de dónde iba a estar durante los siguientes años.
Asimismo, habla del estigma que era ser ingresada en un manicomio, más aún para las mujeres que para los hombres. Actualmente, de hecho, todavía quedan restos de estigmas en el simple acto de ir al psicólogo o al psiquiatra. Ella misma admite que, estar ingresada en un manicomio, socialmente está solo un peldaño por encima de estar en prisión.
Dibuja a través de estas páginas a los enfermos mentales como seres entrañables y dignos de lástima, y a las enfermeras como personas diabólicas y viles. Entre aquellas paredes escribiría muchos poemas para escapar del silencio y conocerá a Pierre, un afable enfermo con el que establecerá una dulce relación de amistad —no llegan a nada más, entre otras cosas, por la prohibición que hay en el manicomio de no mantener relaciones sexuales entre pacientes—. Allí, a las enfermas las hacían sentir culpables por todo, incluso por aquellos que deseaban o pensaban, y por eso tenían tanto miedo.
Pero Merini se resarcirá de ese temor en las cartas que le escriba a Pierre cuando a este lo destinen a un centro de enfermos crónicos. Estas misivas se recogen en la segunda mitad del libro y serán, por momentos, grandilocuentes, llenas de promesas, amor y metáforas.
Unas páginas más tarde, cuando Merini sale del relato que no sabemos si es real o no, muestra una prosa más serie, más enfocada a concienciar socialmente sobre los manicomios y los enfermos mentales. Son dos personas diferentes, la que narra el relato y la del apéndice posterior.
Este es un libro muy feminista, aunque no sea una de las aptitudes que se destaquen de él, porque la narradora se rebela contra el mandato de su marido de internarla, lo cual corta la libertad propia de una mujer que, en aquella época, debía estar sometida simplemente al papel de ama de casa-madre-esposa.
Con gran carga visual y una crítica feroz a la sociedad y a las instituciones psiquiátricas de la época, Merini caminará erguida entre estas páginas intentando lavar su imagen y mostrando una lucidez pasmosa. Aunque la historia trate de una enferma en un manicomio, Merini envía un mensaje a la sociedad en general, por lo que es una obra muy recomendable para tomar en consideración lo que la autora tiene que contarnos sobre su experiencia y su opinión.
Todo lo cuenta ella con una sencillez narrativa que hace accesible y amena su historia en el manicomio y su salida al exterior, donde se dio cuenta de que el infierno real es la sociedad, que te juzga.
Una cronaca da quello che è stato uno dei manicomi che per anni sono stati operanti in Italia, ossia il Paolo Pini di Milano. Una cronaca nella quale l'autrice presenta ai propri lettori, perchè ne abbiano un'idea il più completa e veritiera possibile, quella che erano i manicomi ed in particolar modo, come dicevo poco fa, il Paolo Pini di Milano, presentandone, attraverso alcuni ritratti, ritratti per i quali la signora Alda mantiene però ben protetto l'anonimato, la variegata umanità che tra quelle mura passava e sostava, per un tempo variabile. Ne presenta inoltre quelli che erano gli abitanti in camicie bianco, ossia medici ed infermieri, ritratti coi loro pregi ed i loro difetti e nella loro più o meno presente umanità. Naturalmente l'autrice non poteva non parlare delle terapie che ai pazienti erano applicate o, come in certi casi, inflitte. Terapie che andavano da quelle di tipo farmacologico al temuto e tristemente famoso Elettroshock. In questo suo Diario dall'inferno manicomiale la signora Alda parla anche del suo amore verso Pierre, un paziente ricoverato nella sezione uomini del Paolo Pini e verso il quale la Merini ha nutrito un fortissimo sentimento di amore. A questo suo amore la Merini scrisse delle lettere, lettere che presumo non siano mai state spedite e che compongono quella che possiamo definire come la seconda parte del volume. A conclusione, in appendice, per così dire, troviamo, essendo la signora Alda soprattutto una poetessa, alcune sue composizioni in versi. Quello che personalmente più mi ha impressionato leggendo questo libro è stata la facilità con la quale persone sofferenti di disturbi che oggi sono considerati se non all'ordine del giorno comunque abbastanza comuni, quali la depressione, l'esaurimento nervoso e, udite udite!, l'insonnia, finivano, per una durata variabile, rinchiuse tra le mura di un manicomio. Una lettura a tratti dura ed impressionante ma velata, in molte parti, di una dolcezza e di una lievità incredibile. Straconsigliato!
Cuando un libro te causa impacto y se convierte en tu pensamiento durante todo el día, es que el libro ha sido espléndido. Abrir sus páginas es adentrarte en un mundo abarrotado de torturas, abusos, amenazas y chantajes donde la impotencia te lleva a una repulsión constante. La prosa modesta y auténtica de Merini y unos personajes entrañables seduce al lector hasta tal punto de no querer que su historia finalice. Privar a alguien de su dignidad como ser humano es intolerable y si este sufre de una enfermedad mental donde en ocasiones no controlan quiénes son te provoca una furia interior desgarradora.
Nella mia breve esperienza da lettrice, quando si parla di autobiografie che narrano di follia il risultato che si ottiene dalla lettura di solito è un misto tra pietà e pena verso l'autore del libro. La situazione in questo caso è profondamente differente: le sensazioni che ho provato andando avanti con la lettura sono simili al disgusto. In effetti, benché il titolo del libro e l'autrice stessa descrivano quest'opera come un diario, qui ci si trova davanti ad una testimonianza della vita in manicomio ma, soprattutto, di una vera e propria presa di posizione contro di esso. Il racconto di Alda Merini della sua esperienza in manicomio è crudo, violento ed estremamente diretto, e ci mette davanti ad una realtà disumana ma di cui è necessario avere testimonianza per comprendere a pieno il trattamento riservato ai malati mentali neanche troppo tempo fa. Nonostante la brevità del testo, esso raccoglie in sé una pesantezza emotiva non indifferente, che rende la lettura (che rimane comunque scorrevole) di difficile digestione. E' difficile parlare e valutare un esempio letterario di questo tipo; non so nemmeno ipotizzare se davvero Merini volesse portare il lettore a provare determinate sensazioni (considerando che, come spiega la postfazione stessa dell'opera, il linguaggio utilizzato è volontariamente molto semplice e comprensibile), quindi deduco che un minimo di intenzione "educativa" dietro ci fosse), ma sicuramente è una lettura che porta a riflessioni importanti e da non sottovalutare.
La scrittura di Alda Merini è incantevole, in questo piccolo libro è racchiusa la sua storia, o almeno quello che ha voluto raccontarci di una vita fatta di sofferenza e disperazione, di torture fisiche e psichiche, ma anche di amore, amore profondo come profonde sono le sue poesie.. Una frase importante del libro: “nonostante tutto non mi hanno piegata e non mi hanno potuto rubare i miei ricordi, i miei sogni, le mie speranze”.. Grande Merini!!
Struggente e “disturbante” racconto autobiografico relativo ai 10 anni di ricoveri in un manicomio per disturbo bipolare, che l’autrice ha scritto con il linguaggio semplice, di chi nel manicomio ha scordato tutto e non vuole , né vuole, più ricordare il periodo più tormentato della sua vita, allo stesso tempo da lei avvertito come l'incontro più profondo con la propria anima.
noi venivamo saziati di colpa, quotidianamente; i nostri istinti erano la colpa; le visioni erano colpa; i nostri desideri, i nostri sensi erano colpevolizzati. così ridotti, non potevamo che giocare, giocare a fare i mostri oppure i santi, il che fa quasi lo stesso...
"Alle volte, negli ospedali psichiatrici allestivano dei letti di fortuna, dei pagliericci per terra. E, se levavi gli occhi, vedevi i piedi legati del tuo vicino. Su uno di questi pagliericci, ricordo, ci sono stata per sei mesi, e il pavimento era freddo, ma io alzavo i miei occhi e guardavo il cielo, e poi ancora il sole, e sentivo il calore infinito della mia povertà." "Un giorno successe una cosa meravigliosa in manicomio: ci apersero i cancelli, ci dissero che finalmente potevamo uscire. Dio! cosa successe dentro l’anima nostra. Fu uno sciamare di vestaglie azzurre verso l’alba. E mi venne in mente, anzi ebbi la visione di santa Teresina che amava definirsi “piccola rondine di Dio”. In quel giorno scesi in giardino di corsa. Mi inginocchiai davanti a un pezzetto di terra e mi bevvi quel terriccio con una fame primordiale. Fu un giorno grande, il giorno della nostra prima resurrezione. Da quel giorno cominciammo a vestirci, a pettinarci, a curare il nostro aspetto, perché fuori c’erano gli uomini. Ma, soprattutto, c’era il sole, questo grande investigatore che vede oltre, oltre anche i nostri corpi. E le nostre anime dovevano per forza diventare belle..." "Io scrivo questo libro non tanto per il piacere di dare libero sfogo alle mie memorie, quanto per dichiarare apertamente che, se ancora oggi mi porto dietro un simile bagaglio di scontento e di amarezza, tutto ciò lo devo proprio a quella lunga, reiterata degenza, che ha fatto di me poco più di un manichino senza volontà, continuamente perplessa sui proprivalori morali e sociali." Che tristezza lascia addosso questo libro, nessuno per anni si accorse (volle accorgersi) di quanto avveniva nei nostri manicomi. Fu la legge Basaglia del 1978a ridare dignità a queste persone, aprendo le porte e liberando un mondo.
Entrare nel mondo di Alda Merini significa entrare in un mondo nel quale bisogna quasi chiedere "Permesso" per poter varcare la soglia delle sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue paure. E' come se la Merini ci aprisse le porte della sua anima, un'anima ferita, privata della dignità dopo i quasi 10 anni trascorsi tra elettroshock, torture, ma dove, nonostante tutto, non si è mai arresa alla vita e dove non sono mancati gli istanti d'amore con Pierre, una luce in fondo al tunnel. Un diario in cui la parola, l'attaccamento alla vita diventa salvezza e porta con sé un briciolo di speranza.
In questo mosaico di personaggi e sensazioni, Alda Merini racconta la propria esperienza del ricovero in manicomio per quasi dieci anni. Alla maggior parte delle persone dedica poche parole, si sofferma molto sulle proprie emozioni, su dettagli dei quali potrebbe sembrare assurdo accorgersi, in mezzo a tanto orrore. Eppure la cosa straordinaria di questo libro è proprio la sua forza: l'incredibile attaccamento alla vita della poetessa, la sua capacità di cogliere il bello anche dove sembra impossibile coglierlo.
Forse ricercavo in questo libro qualcosa di differente. La Merini racconta la sua esperienza di 10 anni in manicomio. Mi aspettavo un racconto più dettagliato e forse giornalistico, invece, a mo' di diario, la Merini ci mostra degli sprazzi di memoria, a volte ripetuti. Quasi come se fosse una dimensione onirica. Inoltre ci sono aggiunte poetiche, con cui sinceramente non sono in risonanza. Do tre stelle in ogni caso, perché è pur sempre un libro di denuncia. Esso va rispettato seppur non sia completamente nelle mie corde.
In queste pagine di diario il dolore si fa poesia. Da leggere e da far leggere a chi teme le diversità, a chi ha paura di ciò che non riesce a capire, a chi per indifferenza non ha mai voluto guardare oltre.
[...] <Ma allora le leggi erano precise e stava di fatto che ancora nel 1965 la donna era soggetta all'uomo e che l'uomo poteva prendere delle decisioni per ciò che riguardava il suo avvenire. Fui quindi internata a mia insaputa.>>
Alda Merini ripercorre la sua esperienza decennale in manicomio in un mix di sentimenti e sensazioni. Sentimenti e sensazioni da un lato aspri come gli odori all'interno del manicomio, i soprusi, i pesanti farmaci e gli elettroshock e, dall'altro lato, dolci come l'odore dei fiori e l'azzurro del cielo. Una riflessione che si fa poesia in un alternarsi di orrore e solitudine. Un libro che si fa inno alla vita e alla forza di "sentire".
travolgente. è travolgente il modo in cui parla in maniera così struggente del dolore e della sofferenza, ma al contempo non abbandona l'amore, la speranza e, talvolta, la tenerezza.
"Si innamorò di me e lo capii dai suoi sguardi dolci, dalle margheritine che mi regalava ogni giorno. Un giorno mi portò Giulietta e Romeo, e me lo indicava col dito sottolineando la parola Romeo. Con Pierre fui affettuosissima, capii tutti i suoi problemi e mi presi cura di lui. Pierre dipingeva bene ma non aveva materiale e perciò passavamo ore ed ore a dipingere sulla polvere dell'unico tavolo dell'istituto. E poi ci guardavamo negli occhi e mai due esseri umani furono così fratelli e si vollero bene come Pierre ed io."
Mi è piaciuto al punto che l’ho letto tutto di un fiato. Ho condiviso l’angoscia del manicomio pur non essendoci mai stato. Ma si sente tutta.
E quanto riportato di seguito, a mio avviso, è la sintesi di un dolore vissuto, spesso in modo forzato, ingiusto.
È la sintesi di tutto.
“L’uomo è socialmente cattivo, un cattivo soggetto. E quando trova una tortora, qualcuno che parla troppo piano qualcuno che piange, gli butta addosso le proprie colpe, e cosi nascono i pazzi. Perché la pazzia, amici miei, non esiste. Esiste soltanto nei riflessi onorici del sonno e in quel terrore che abbiamo tutti, inveterato, di perdere la nostra ragione”
Questo piccolo libro è un diario, diario di una terribile, anzi atroce esperienza che l'autrice ha vissuto realmente: l'internamento in manicomio. Attraverso questo suo piccolo diario l'autrice mostra quanto fosse disumanizzante la vita all'interno dei manicomi e di come i pazienti venissero trattati dai "dottori", rivelando le pratiche disumane volte a "guarire" i pazienti. Insomma, Alda Merini mette per iscritto i suoi dolorosi ricordi per non far dimenticare come fossero i manicomi. Un racconto toccante, che tocca tematiche forti nonostante la sua forma semplice e diaristica.
En aquest llibre Alda Merini ens conta la seva experiència d'internaments en hospitals psiquiàtrics durant quasi tota la dècada de 1960. No és una lectura fàcil perquè l'experiència que conta és molt dura: electroxocs, sobremedicació, tracte vexatori de part de la majoria dels cuidadors i després quan finalment surt del manicomi, rebuig. És molt interessant com a testimoni i també m'ha agradat com explica la seva vida interior.
La finestra sui manicomi prima della legge Basaglia: intensa, difficile, cruda e vera. Seguono alcune riflessioni postume della stessa Alda Merini con momenti di denuncia e di comprensione per in sistema medico che non era evoluto.