«Venne aprile, e New York sembrava promettere una vita nuova. Presi un appartamento in Fifty-fifth Street. Mi sedevo alla finestra a guardare le nuvole e a domandarmi da che parte della terra potessero mai arrivare. Poi seguivo dall’alto l’interminabile processo degli uomini che nella strada sembravano ancora più effimeri e immateriali delle nuvole»
Voci (1983), Adelphi 1985, traduzione di Gilberto Forti, è un libro magnifico e anomalo. Frederic Prokosch (1908-1989) scrittore americano di origini mitteleuropee ha viaggiato tanto, persona curiosissima, incontra in modi piuttosto casuali nell’arco di cinquant’anni - dagli anni trenta agli ottanta - miriadi di personalità e ne registra le suggestioni nella sua testa, dice di soffrire di «memoria totale», gli restano particolari visivi e olfattivi e tutte le voci ascoltate risuonano nelle sue orecchie.
È un personaggio eccentrico, ritroso e allo stesso tempo mondanissimo, collezionista di farfalle come Nabokov, che sarà uno dei suoi tanti incontri, insieme a Auden, Woolf, Eliot, Pound, Maugham, Brecht, Mann, Hemingway, Marianne Moore, Dylan Thomas, Curzio Malaparte, Berenson, Gide, Yourcenar, Blixen, Moravia, eccetera. E poi Roma, Parigi, New York, Londra, Capri, Stoccolma… Questo libro incantevole ha una particolarità, gli incontri non fanno altro che ridimensionare continuamente le cose, la letteratura, l’arte, la memoria, le relazioni, la pomposità di quelli che si ritengono grandi e li staglia tutti sullo sfondo, sé stesso per primo, in modo spesso comico. Prokosch ha la capacità di presentarsi con svariati volti, spesso fa domande ingenue e inattese per cui quelli che sono al suo cospetto rispondono anche loro in modo tale da divagare per vie inconsuete. Domande senza apparenti ragioni, come: cosa ne pensa del ventesimo secolo? e cosa pensa di Kafka? Ha visto le cascate del Niagara? Cosa pensa dell’America?
Quando va a trovare Virginia Woolf è un giovane poeta che le vorrebbe consegnare una sua silloge di 33 poesie. Si complimenta con lei in modo troppo affettato parlandole di ragnatele di luce dentro “Le onde”, libro di Virginia Woolf che Prokosch aveva apprezzato. Ma lei capisce subito che questo strano giovane poeta non ama le sue opere (ed è piuttosto vero, Prokosch scrive qualche riga sopra che trovava Woolf distante, alla lettura gli restava soltanto nebbia dorata senza il calore terrestre del suo amato Cervantes). Woolf indispettita da questo sconosciuto che si introduce sfacciatamente dentro la sua casa, prende ad attaccare il romanzo stesso e tutti i miti di allora del giovane Prokosch, Joyce, Pirandello, Dostoevskij, Gogol’.
«Ma dopo tutto, mio caro ragazzo, che cosa è un romanzo, ci ha mai pensato seriamente? Che cosa è questo cosiddetto romanzo?»
"Avevo almeno tre motivi diversi per trascrivere i miei piccoli colloqui: primo, coltivare una certa capacità di cogliere le sfumature di una conversazione; secondo, conservare un documento di ciò che avevano detto i grandi uomini; terzo, compiere una sorta di rituale, catturare un frammento di vita, chiudere in un cassetto una reliquia umana, come l’unghia di un santo." (p. 97)
The fact that he invented a few, some, many or even all of the encounters with the literary & cultural VIPs is immaterial. Voices is perhaps more a occasion to share the complexity behind creativity and ones own cultural construction and heritage tan a memoir. But what are we made of ultimately? And this book is and will be part of my one.
I enjoyed reading this memoir from a historical perspective but then was disconcerted by finding out that most of the memoir was fictitious. Actually, given that the author wrote about Asia without ever having traveled there, I should not be surprised at his ability to fabricate history.