"Tutta la mia vita di studente è stata, se ridotta all'osso, uno star buono, schivare all'occorrenza, arrendersi subito in caso di necessità. Parlare, naturalmente parlavo solo se interrogato". Il difficile compito dell'insegnante nella scuola di oggi, raccontato attraverso storie di vita quotidiana ed esercizi di immaginazione. Si può partire da alcune domande: cos'è stata la scuola? Quali aspettative suscitava? Che tipo di insegnanti e che tipo di allievi vi si trovano? Che studenti siamo stati che insegnanti volevamo essere? Di fronte a generazioni sempre più a disagio, vulnerabili, in cerca di risposte, occorre partire da questo genere di esercizi, di comunicazione e comprensione, per non commettere gli stessi errori del passato e crare uno spazio comune pe le esperienze e i punti di vista. Perché i ragazzi sono cambiati sono cambiato e la scuola è rimasta sempre la stessa.
Domenico Starnone (Saviano, 1943) è uno scrittore, sceneggiatore e giornalista italiano.
Ha collaborato e collabora a numerosi giornali (l'Unità, Il manifesto per cui è stato redattore delle pagine culturali) e riviste di satira (Cuore, Tango, Boxer), con temi generalmente improntati alla sua attività di insegnante di liceo.
Ha scritto con costanza su Linus, negli anni '70-'80.
Ha lavorato anche come sceneggiatore; film come La scuola di Daniele Luchetti, Denti di Gabriele Salvatores e Auguri professore di Riccardo Milani sono ispirati a suoi libri.
Il suo libro maggiormente apprezzato, Via Gemito, ha vinto il Premio Strega nel 2001.
Piacevole, ma non all'altezza delle mie aspettative. Tuttavia alcuni passaggi sono illuminanti, specialmente questo:
Quando cominciai a insegnare, cercai di impormi delle regole. Redassi persino un promemoria che conservo ancora. Lo trascrivo a testimonianza del fatto che allora non scherzavo: "Ricordati che tu sei un adulto e che loro sono ragazzi. Ricordati che, proprio perché sono giovanissimi, ti temono persino quando fanno gli sfrontati, e che o ti fai stimare senza farti temere oppure hai fallito. Ricordati che non devi pronunciare nemmeno una parola che tu non sia in grado di giustificare a te stesso e a loro. Ricordati che ciò che insegni deve visibilmente appassionarti, altrimenti non ti daranno credito. Ricordati che niente - assolutamente niente - di ciò che insegni deve servire solo a tormentarli. Ricordati che, cautamente, dovrai chiarire che a molte delle loro domande non sai rispondere. Ricordati che ciascuno di loro vuole essere amato esattamente come tu vuoi essere amato da loro".
Tutti i dubbi di un insegnante ancora pensante (non sono pochi, ma mai abbastanza) sulla scuola di massa, meccanismo complesso e irrisolvibile - chi pretende di avere le risposte pronte non sa nulla o non ha proprio capito; l'anatomia di un mestiere unico, che ha il fallimento dentro di sé come componente ineludibile. Lettura obbligatoria per tutti le ministre e i ministri presenti, passati, futuri.
Comincio ad avere l’impressione che i libri “polemici” o “critici” sulla scuola scritti dagli insegnanti siano un vero e proprio genere letterario. Vedi quelli della Mastrocola, quello di Visitilli, e adesso questo, di Starnone, che, dismesso l’abito umoristico-sarcastico di “Ex Cattedra”, scrive questo sunto di memorie, di considerazioni e di amarezze assortite sul tema scuola, educazione e società. Il libro parte con i suoi ricordi scolareschi e studenteschi, abbastanza negativi; per lui la scuola fu il luogo che lo strappò alla vita che presumeva “vera”, per consegnarlo a un universo di regole, di doveri da espletare, di adempimenti da compiere, a cui non si sottrasse mai, sia per un proprio senso morale, sia per l’investimento che famiglia e parenti vari avevano fatto su di lui. A questo si ricollega, poi, la sua esperienza di insegnante: dopo aver scoperto - causa lezioni private, costretto a dare per mantenersi agli studi - che insegnare gli piaceva, tanto più nella misura in cui si allontanava dal dettato di libri e programmi per metterci del proprio, insegnante lo divenne per davvero, pieno di idealismi e di speranze, per scontrarsi con l’amara realtà. La realtà di una scuola meritocratica, di studenti ben poco propensi a “crescere” culturalmente, ad “affrancarsi” da un’origine bassa, a produrre e a rispecchiare qualcosa di più di un oceano di nozioni. Una scuola, a suo dire, adatta più a formare obbedienti cittadini che a fornire loro le armi della cultura per una reale crescita sociale, e non solo. Il libro oscilla tutto tra una consapevolezza di fallimento suo come insegnante e della scuola come istituzione; e il riconoscimento, a denti stretti, che sì, è vero, ci sono differenze mentali tra migliori e “meno migliori” che solo parzialmente possono essere imputate all’ambiente. In sostanza, che esistono intelligenti e meno intelligenti, e lo studio matto e disperatissimo solo raramente può compensare questo fatto… sempre che esista la forza di volontà per agirlo, e soprattutto le motivazioni. Mi viene in mente il recente libro “Tabula rasa - perché gli uomini non nascono tutti uguali” di Pinker, che ho recentemente letto, che mette tra i suoi avversari tutto un sistema pedagogico “progressista” tanto restio a riconoscere questo fatto, a pensare che la mente infantile sia appunto una tabula rasa, interamente scritta o scrivibile dall’ambiente. Starnone, poi, si scontra con un altro elemento: il fatto che la scuola viene vista “a prescindere” dall’allievo come un nemico, come un luogo dove stare contro la propria volontà, dove annoiarsi a frequentare notizie ed argomenti insulsi, dove si viene giudicati e dove - massimo dei paradossi - si ottengono risultati tanto migliori quanto meno si usa la testa, quanto più si riesce a dare all’insegnante la “pappa pronta” che lui si aspetta. Il mito di ogni insegnante, l’accensione dell’intelligenza, avviene raramente, e si teme che quando avviene accade perché doveva avvenire - capacità congenite dell’allievo? - non per merito della scuola, dell’insegnante e forse nemmeno dell’ambiente familiare. Fine anche del mito dell’istruzione come strumento di riscatto sociale: milioni di laureati disoccupati stanno lì a testimoniare che studiare, in senso assoluto, non è che sia questo grande strumento per “liberarsi” (magari vale per chi studia ingegneria e poi cerca lavoro all’estero; ma è chiaro che un professore di lettere vedrebbe volentieri un mondo di “operatori della cultura” messi a libro paga dallo Stato o da munifiche istituzioni…) Mi ha comunque colpito, di tutti gli argomenti - e mi ha costretto a riandare con la memoria al mio percorso scolastico - l’idea, o l’idealismo, di una scuola che debba per forza favorire gli “ultimi”. Una scuola calibrata sui meno avvantaggiati, che sono quelli che se ne avvantaggerano di più. Per me era esattamente l’opposto: questi personaggi che mi circondavano, con il loro italiano approssimativo infarcito di termini dialettali piemontesi maldigeriti (io ero meridionale, immigrato, loro erano meridionali figli di immigrati), ignoranti di famiglia e senza ambizione di non esserlo più (bastava guardare in che stato riducevano i libri di testo), grevi di volgarità e di aggressività, non vedevo l’ora che una legittima selezione ne avrebbe fatto strame, togliendomeli di torno e lasciandomi la libertà di ascoltare e capire in silenzio (ma perché dovevano urlare sempre?). E invece, anno dopo anno, me li trovavo sempre tra i piedi, al punto che non capivo più a cosa servisse studiare, visto che comunque la promozione pareva un diritto dovuto a tutti. Alla faccia di Don Milani. Al quale qualcuno avrebbe dovuto spiegare che, nell’immaginario collettivo italiano, “Pierino” non è il virgulto della buona borghesia, ma il bambino pestifero delle barzellette. E se uno diceva “Gianni”, si pensava immediatamente ad Agnelli, fate voi. Non mi sembrava un’idea così peregrina che esistessero scuole per chi aveva voglia di studiare, e istituti professionali per chi no. Ma se questo lo scrivevo in un tema, venivo duramente cazziato. E non dagli insegnanti beninteso, ma dai miei genitori. Ai tempi del liceo, il problema non erano più i compagni, ma gli insegnanti e una mia personale storia piuttosto ingarbugliata che fece a pezzi la fiducia in me stesso costringendomi a recuperarla dopo molto tempo e a costo di grandi fatiche. Certo, della scuola ho un ricordo tutt’altro che lieto. Come posso immaginare una scuola “ideale”? Non posso. Non me la immagino.
Ho distribuito negli anni ai miei allievi elenchi di libri da leggere, di film da vedere, di opere d’arte da rimirare, di musica da ascoltare. Ma elenchi di valori gerarchicamente ordinati non ne ho mai redatti: Dio, patria, famiglia. Sangue e terra. La libertà, la democrazia, la giustizia. Il coraggio. La fedeltà. La fede. Naturalmente ho detto sempre in classe: sono cosí e cosí; mi ritengo cosí e cosí; penso cosí e cosí; credo che sia sbagliato questo e quest’altro. Ma non mi ricordo di aver consapevolmente sostenuto di essere custode in qualche modo di «valori». Oggi mi frugo dentro per trovare una costante a cui mi sono rifatto, a cui ritengo che sia necessario rifarsi. Ne trovo una, tra molti distinguo: il senso dell’ingiustizia. Non della giustizia, si badi bene: anche ciò che è giusto ha bisogno di un «mi sembra», un «ritengo», un «appare». E non si sa mai bene in quale punto dei «precedenti» dei nostri alunni andrà a cadere, con quali effetti. Meglio– insisto, sempre con tutte le cautele – puntare sul senso dell’ingiustizia. L’ingiustizia è visibile, riconoscibile. Può orientare il nostro comportamento come l’ago di una bussola morale. Combattere l’ingiustizia. Non tollerarla. Rifiutarsi di subirla. Rifiutarsi di assistere impassibile al suo compiersi su altre vite. Questo, forse, si può insegnare senza doversene pentire poi, chissà.
A metà strata tra memoir, saggio sulla scuola e resoconto programmatico del proprio essere insegnante e studente, Solo se interrogato è una escursione nei territori dell'identità della scuola italiana, delle sue manifestazioni e delle sue distorsioni, e insieme è una disamina antiaccademica di cosa significa studiare, apprendere e, in buona sostanza, formarsi e crescere. Il tutto condotto in modo non programmatico, come una confessione-chiacchierata da professore a genitore, in cui la malinconia per l'insegnamento che non c'è convive col ricordo dell'insegnamento che non c'era e col desiderio di un insegnamento che forse, magari, sarebbe bello che ci fosse.
che amarezza accorgersi come certe cose siano rimaste sempre le stesse, come ogni velleità e tentativo di cambiare la scuola finisca spesso nel nulla di fatto. Leggerlo in questo momento della mia vita mi ha è servito ad avere uno sguardo su quella che era la scuola di ieri ma che in parte continua ad essere quella di oggi.