Nella paura cosmica di Gina, cane dalle zampe troppo lunghe e le orecchie enormi, c'è lo sgomento della vita di fronte alla propria nullità. È questo che ci affratella agli il sentimento ineludibile, spaventoso, della nostra imperfezione.
Chiunque riesca a continuare a imparare anche da adulto, chiunque mantenga la mentalità dell'allievo anche quando non va piú a scuola risulta un sapiente, un iniziato. Ed è proprio ciò che viene da pensare di Emanuele Trevi, leggendo questo bellissimo libro, pervaso com'è in ogni pagina dallo strenuo, solitario, e dunque eroico sforzo di capire le cose che l'autore ha sotto gli occhi tutto il giorno, laddove lo schema sociale cui appartiene gli chiede solamente di accumularle e amministrarle. Trevi è l'allievo; sua moglie è la compagna di banco; la loro cagnetta Gina, con le sue misteriose manifestazioni di dio minore, è la maestra; il tinello di casa, la scuola. E l'abbecedario è una struggente poesia di d'Annunzio appesa al frigorifero». Sandro Veronesi
È l'ottusa, spudorata tenacia con cui cerca l'attenzione dei padroni a definire il carattere di Gina, «avanzo di canile municipale» tenero e sproporzionato, in cui emotività e furbizia paiono incarnare l'essenza stessa della femminilità. Una sera, davanti a una sua specie di possessione, il narratore e la moglie credono di assistere a un evento cruciale. Potrebbe essere un'epifania, invece non offre alcun insegnamento, o loro sono refrattari a coglierlo. Vivere, d'altronde, significa alimentare la confusione, accorgersi che l'inconsapevolezza cresce giorno dopo giorno. Di fronte all'esistenza, non si può provare altro che stupore panico. In fondo, come i cani di d'Annunzio nella poesia che apre il romanzo e ne è il filo rosso, gli esseri umani sono «stupidi e impudichi», e al pari del vecchio poeta capiscono infine di non essere nulla. Tra conversazioni domestiche, uccellini in gabbia, passeggiate sui marciapiedi reggendo un guinzaglio e scatole di farmaci la cui «profonda giustizia» ripara dal disordine senza rimedio del mondo, l'autore costruisce un meraviglioso romanzo digressione. Se è vero che la vita «fa grumo, non si lascia trasformare in una storia», è pur vero che Emanuele Trevi sa restituirla, nella sua miseria e nella sua rivelazione, con una grazia senza paragoni.
Emanuele Trevi (Roma, 7 gennaio 1964) è un critico letterario e scrittore italiano. Figlio dello psicoanalista junghiano Mario Trevi, è editor e autore di saggi e romanzi. Ha debuttato nella narrativa nel 2003 con I cani del nulla, uscito presso Einaudi Stile Libero. È stato direttore creativo (con Arnaldo Colasanti) della Fazi editore, ha curato una collana presso Quiritta editore e, con Marco Lodoli, l'antologia scolastica Storie della vita edita da Zanichelli. Ha inoltre curato le edizioni di: - la Tavola ritonda, classico italiano del XIV secolo - Amore, figura e intendimento: osservazioni sull'allegoria in Cavalcanti e nella «Vita nuova» (di Dante Alighieri) la Storia di fra' Michele Minorita di anonimo fiorentino - l'introduzione a Charles Perrault, I racconti delle fate e Le fiabe francesi della Corte del Re Sole a Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi - le Istruzioni per l'uso del lupo, una lettera alla critica italiana, in due edizioni - Altri saggi vanno dall'introduzione a Il mio Carso di Scipio Slataper, all'intervista per «Paris Review» a Milan Kundera, dalla collaborazione per la parte delle prose all'edizione di Lucio Felici delle opere di Giacomo Leopardi, alla presentazione di una collezione di saggi di Viktor Borisovič Šklovskij, e ancora di opere di Emilio Salgari, John Fante, Gabriella Sica, Goffredo Parise, Giosetta Fioroni, Giorgio Manganelli, Alexandre Dumas, Ferenc Molnar, Edmondo De Amicis (i viaggi), Henri Michaux ecc.
Con il libro reportage sul poeta Pietro Tripodo, "Senza verso. Un'estate a Roma" edito da Laterza ha vinto il Premio Sandro Onofri.
Collabora con Radio 3 e ha scritto su diverse riviste come Nuovi argomenti, Il caffè illustrato e su quotidiani quali la Repubblica, la Stampa e Il Manifesto.
Bartolomeo Passarotti: Ritratto di un uomo col suo cane, (1585, Roma, Musei Capitolini).
Tutte cose che faccio, questo prendere nota di cose ambiguamente memorabili e questo ripensarci su, nel tentativo vano di opporre una rgine al disordine che sento dilagare dentro di me, di giorno in giorno, e che sembra davvero irrimediabile.
Chissà mai perché definire questo romanzo-romanzo e non per esempio Sogni e favole, tanto per citare il primo libro di Trevi che mi viene in mente (è quello con e da cui ho iniziato la sua conoscenza, giunta adesso al sesto incontro). L’unica differenza mi pare che sia il fatto che questa volta l’io narrante non s’identifica esplicitamente con lo stesso Trevi, e il fatto che la moglie si chiama Martina e non Chiara.
Gustave Courbet: Autoritratto con cane nero, (1842, Petit Palais, Parigi).
Per il resto, per tutte queste centocinquanta paginette siamo in puro Trevi style: divagazioni, collegamenti, raccordi, digressioni, epifanie, illuminazioni, da un argomento all’altro, partendo dall’osservazione del suo cane Gina per spostarsi ad altri aspetti del vivere, della società, dell’arte (D’Annunzio, da cui il titolo, Pascal, Dante, Ungaretti, Montale, ma soprattutto il cosiddetto Vate). Considerato che lo spunto di partenza è il cane, si capisce che qui Trevi sia più scatologico che altrove. E considerato che si tratta di una delle sue prime opere (2003), si giustifica il fatto che sia un pelo – tanto per restare in argomento a quattro zampe – meno fluido e compatto che nei lavori a seguire.
Jose Moreno Carbonero: Prince Carlos of Viana, (1881, Museo del Prado, Madrid).
Il cane ha tre anni e viene definito bastardo, come si faceva una volta prima di adottare il termine meticcio. Gina, il quadrupede domestico, volente o nolente, cosciente o inconsapevole, regala i momenti migliori del libricino, e Trevi nell’osservarla e descriverla raggiunge momenti di pura magia. È vero che le chiacchiere tra padroni di cani che s’incrociano accompagnando in passeggiata il proprio quattro zampe sono tra le cose più noiose che capita d’ascoltare: tutti sono convinti d’avere il cane più raro, con la personalità più unica. Mentre è invece vero che tutti i cani - proprio come i neonati, proprio come gli amori, per citare un altro paio di soggetti a torto ritenuti ogni volta differenti dalla massa – si assomigliano. Oppure, sono i loro padroni ad assomigliarsi. Oppure, sono i discorsi e i racconti dei loro padroni ad assomigliarsi. Ciò nonostante, Trevi riesce a rendere il banale ovvio risaputo che concerne la sua Gina in qualcosa di affascinante, divertente, magico, profondo. Un cabaret metafisico.
Tanto più arcane e belle, tanto più inspiegabili, le cose, quanto più sono semplici, non significano realmente nulla, sembrano non volere fare nemmeno lo sforzo…
Anthony van Dyck: I cinque figli maggiori di Carlo I, (1637, Royal Collection Trust, Queen’s Gallery, Windsor Castle, Londra).
Una lenta, inesorabile, vagamente noiosa successione di pensieri, citazioni (basho, hillman, dante, pontormo, d'annunzio, beckett, ovidio, petrarca...), dialoghi coniugali, elenchi medicinali, presunti pensieri canini. Un libretto di quasi 20 anni fa, prontamente ristampato in occasione dello Strega. Niente di eccezionale, uno svolgimento anche gradevole, a volte, di un tema abusato. Di qui a chiamarlo romanzo culto...ci sarebbero gli estremi per una denuncia. Non me ne voglia Trevi, che scrive anche bene, ma se ne può fare a meno. Tranquillamente.
Non ci siamo proprio. Un libro in cui abbiamo un protagonista che narra come se fosse uno scrittore e, non si capisce, se lo sia. Alla fine del romanzo viene riportato il suo quaderno dove scrive commenti e spiegazioni su diversi autori e artisti e sembrerebbe voler sottolineare l’impulso poetico del personaggio. Ma poi?Quello che scrive è inattendibile ed è volutamente gonfiato, perché l’autore vuole che questi commenti siano suggestivi e malinconici agli occhi del lettore. Quest’uomo, oltre che lamentarsi e contemplare il suo ego, il suo povero ego incompreso e schiacciato dall’esistenza, cosa fa nelle sue giornate? Questo romanzo voleva essere palesemente una critica alla contemporaneità. Ma no, Trevi non è riuscito a rappresentare il disagio di questo secolo. L’intenzione c’era, ma il risultato a mio avviso non è originale, proprio perché è estremamente banale. La critica alla contemporaneità sembra più una posa, un’occasione di vanto per far capire ai lettori quanto il protagonista - e quindi lo scrittore - la sappia più lunga (sarà pure così, ma non bisognerebbe darlo a vedere). Sicuramente alcune riflessioni sono interessanti (come quella sul perché abbiamo smesso di dare valore alle cose essendone sommersi), ma il romanzo scade in una narrazione quasi assente e che sfocia nella pura astrazione. Ci si chiede infatti, una volta terminata la lettura, che senso abbia avuto scomodare un cane per questa storia (tra l’altro screditato costantemente dal protagonista, ma se non ti piacciono i cani perché continui a tenerne uno?). Abbiamo letto una storia o il delirio di ogni potenza di un uomo che contempla con piacere il suo sentirsi più “esperto” degli altri? Inoltre questo quadrupede perché viene investito da suggestioni poetiche e esistenziali? Perché viene dipinto come se fosse la fonte atavica di tutte le sofferenze del mondo? Sembra un Edipo a quattro zampe. Io credo che questo romanzo sia stato scritto sulla base di alcune suggestioni letterarie tratte dalla poesia che D’Annunzio dedica ai suoi cani; c’è un eccessivo simpatizzare per D’Annunzio e in più punti questo libro si trasforma in un saggio sulla vita e sulla poetica del poeta abruzzese. È apparentemente inspiegabile, poi, l’attenzione al fecale e al putrido che il protagonista ama disseminare per tutta la narrazione. Ma? Ew. È scritto bene (ma direi che è il minimo se vuoi scrivere un libro), tuttavia essendo un esercizio di stile risulta volontariamente impostato su un tono alternativo e anticonvenzionale.
"qui giacciono i miei cani gli inutili miei cani, stupidi ed impudichi, novi sempre et antichi, fedeli et infedeli all'ozio lor signore, non a me uom da nulla. rosicchiano sotterra nel buio senza fine rodono gli ossi i loro ossi non cessano di rodere i lor ossi vuotati di medulla et io potrei farne la fistola di pan come di sette canne i' potrei senza cera e senza lino farne il flauto di pan se pan è il tutto e se la morte è il tutto. ogni uomo nella culla succia e sbava il suo dito ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla" (gabriele d'annunzio) cose che non si imparano in un giorno: ardere, rigirarsi nel calore dello stimolo, speronati dalla voglia. una elaborata visione del mondo, un sottile arabesco di pensieri, valori, pulsioni variamente sublimate. filosofia quotidiana, filosofia perenne. queste sono le canzoni. brucio sotto i tuoi piedi.
Incipit L’altra notte Gina, la nostra cagna bastarda di tre anni, ha passato un paio di minuti davvero complicati. Un brutto momento, non c’è che dire. I cani del nulla Incipitmania
Il racconto di Trevi (assolutamente non adatto a chi cerca una narrazione coerente e da “storia vera”) è come bere uno spritz Hugo: buono, la menta è delicata e fresca, ma non è uno spritz. Scritto magistralmente, curatissimo, scorrevole, è però in contrasto con un contenuto filosofico — forse un po’ pretenzioso — e letterario difficile, spesso incomprensibile. È una riflessione umana e sincera sul nulla della vita, sulle abitudini e sui legami che segnano la nostra esistenza nonostante la loro inutilità. Toccante e profondo, ma anche inutile e brutto (come cani, fedeli e infedeli).
"Tutte cose che faccio, questo prendere nota di cose ambiguamente memorabili e questo ripensarci su, nel tentativo vano di opporre un argine al disordine che sento dilagare dentro di me, di giorno in giorno, e che sembra davvero irrimediabile." (p. 67)
Abbastanza disordinato, è più un commento a una poesia di D'Annunzio intervallato da riflessioni ispirate dalla cagna Gina e dal paragone tra l'uomo e l'animale. Eccezion fatta per alcuni periodi, non mi è piaciuto granché.
Trevi sceglie D'annunzio e Pasolini come riferimenti nella letteratura italiana, andando in cerca proprio di un legame fisiologico tra i fatti della vita e le parole con cui la si racconta. Va proprio a cercare un’impossibile radice di questa relazione, non so come dire. Quando parla della trascrizione delle blaterazioni di d’annunzio in stato di shock dopo l’incidente, o quando si rilegge in continuazione la poesia del suo amico, cercando delle vibrazioni letterarie, ha uno sguardo che mi inchioda, perché, anche quando vedo che è una strada che non condivido, comprendo invece la sua ricerca di una certa dimensione, fosse pure delle più ridicole, delle più vulnerabili. Lui che resta in contemplazione davanti agli assorbenti macchiati di sangue, o gli elenchi dei nomi delle medicine come se fossero divinità. E' uno stimolo questo che riconosco bene. Una tensione dolorosa, ricerca laica e mistica allo stesso tempo. Gli si potrebbe rimproverare di perdersi un pò alle volte, come autore (e parrebbe anche come uomo), in chiacchiere o riflessioni marginalissime che neanche ci andrebbe di ricordare figuriamoci di metterle in un libro. Credo sia un problema di mancanza di supervisione dell'editore, ecco lo trovo un libro mal editato e a tratti con degli eccessi di stile. Secondo me, la timidezza degli editori è un cattivo servizio, non solo in questo caso specifico, mi viene in mente anche T.Scarpa, editori che pensano spesso in una luce del tutto provvisoria, fanno uscire libri destinati a durare non più di 15 giorni in libreria e max un mese nel dibattito delle idee, anche delle persone interessate.
"Qui giacciono i miei cani gli inutili miei cani, stupidi ed impudichi, novi sempre et antichi, fedeli et infedeli all?ozio lor signore, non a me uom da nulla. Rosicchiano sotterra nel buio senza fine rodon gli ossi i lor ossi, non cessano di rodere i lor ossi vuotati di medulla et io potrei farne la fistola di Pan come di sette canne i'potrei senza cera e senza lino farne il flauto di Pan se Pan è il tutto e se la morte è il tutto. Ogni uomo nella culla succia e sbava i suo dito ogni uomo seppellito è il cane del suo nulla."
Gabriele D'Annunzio, 31 ottobre 1935 Epigrafe per il progettato cimitero dei suoi cani nei giardini del Vittoriale "Sarà, nei giardini, il simbolo del Nulla"
Digressioni e narrazioni, esegesi della poesia di D'Annunzio.
"Tanto più arcane e belle, tanto più inspiegabili, le cose, quanto più sono semplici, non significano realmente nulla, sembrano non voler fare nemmeno lo sforzo...Qui, ancora in piedi in cucina, ancora indeciso, come se avessi perso la strada di casa nel bel mezzo di casa mia, a quest'ora tarda della notte, qui, adesso, penso a quelle cose passate, penso con rimpianto e disperazione, vero rimpianto e vera disperazione, al loro essere passate. E tutto questo pensarci, questa disperazione e questo rimpianto, sono inutili, non cambiano di nulla le cose, non le spostano di un millimetro."