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Morire in primavera
MORIRE IN PRIMAVERA
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L’intervista di Lara Crinò
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GLI SS RAGAZZINI MANDATI A
FERMARE IL SOLDATO IVAN
Venerdì di Repubblica
di Lara Crinò
Due giovanissime reclute contro i russi: il bestseller di Raiph Rotmann racconta una generazione perduta in cui non tutti furono carnefici.
Due ragazzi costretti a diventare soldati per forza, che nell'inferno della guerra si sostengono e si aiutano, scoprendo un ultimo barlume d'umanità. La trama di Morire in primavera (Neri Pozza, pp. 205, euro 16, traduzione di Riccardo Cravero) non spiccherebbe tra tanti romanzi bellici, se non fosse che Walter e Fiete sono due giovanissime reclute delle SS, il famigerato corpo paramilitare del partito Nazional socialista tedesco, inviate negli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale a tentare di fermare «il soldato Ivan», l'avanzata dei russi sul fronte orientale. È da questa prospettiva, mettendo addosso ai suoi protagonisti la più scomoda delle divise e mostrandoci con i loro occhi l'abiezione del nazismo, che Ralph Rothmann ha conquistato i lettori e la critica tedeschi (secondo Die Zeit inaugura «l'era post-Giinter Grass»).Muovendosi sul crinalepericoloso della biografia familiare ed evocando aspetti meno noti della macchina bellica germanica, dall'uso di psicofarmaci tra i soldati al trattamento spietato verso i disertori, Rothmann fa «crescere una storia dal silenzio». Quello di una generazione in cui non tutti furono carnefici ma che ha rimosso a lungo il peso del passato.
Il romanzo si ispira alla storia di suo padre. Perché ha deciso di raccontare la sua tragica giovinezza?
«Volevo indagare il segreto che gli attribuivo, cercare una spiegazione alla sua malinconia plumbea. Immaginavo che derivasse dal fatto che lui, reclutato contro la sua volontà, si sentiva una vittima del regime e tuttavia per il fatto di aver portato l'uniforme delle SS si ritrovò dopo il 1945 nella parte del carnefice. Non ci capì più nulla e reagì ritraendosi nella tristezza, una tristezza che io da bambino riconducevo a me».
Negli ultimi mesi di guerra, Walter va in cerca della tomba del padre, violento e alcolizzato, che ha fatto la guardia a Dachau.
«Anche questo è un dettaglio biografico. Mio nonno, che era disoccupato, finì a fare la guardia nel campo. L'unica volta in cui mostrò un po' di pietà per i prigionieri firmò la sua condanna a morte: Se vogliamo capire non dobbiamo semplificare. Pur con tutta la bestialità del regime nazista, non tutti quelli che ne facevano parte erano assassini patentati. "O fai come gli altri o finisci al muro", per molti la situazione era questa. Vorrei che chi legge si chiedesse: "Cosa avrei fatto io?"».
Nel romanzo, le relazioni sociali e familiari sembrano malate. Un altro aspetto dell'incubo del Terzo Reich.
«I ragazzi cresciuti durante il nazismo non sarebbero nemmeno stati in grado di scrivere la parola "comunicare". La riduzione del vocabolario è da sempre uno strumento di potere e allora si poteva solo ordinare e ubbidire, anche in famiglia».
La Germania è uscita da quella incapacità di comunicare?
«Alle letture pubbliche c'erano persone della mia generazione, nati negli anni 50. Molti mi hanno detto che avevo reso più comprensibile il passato dei loro padri e il loro silenzio. Così sento di aver colmato un vuoto, non solo della mia storia ma anche della loro».
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