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CAPITOLO DUE

L’odore di pancakes e formaggio contadino impregna l’aria. Scendo le scale in legno di corsa, perché ho una fame da lupi, e mi precipito in sala da pranzo, dove immagino già che mamma stia preparando la tavola per la colazione. È il momento più importante della giornata, ci ritroviamo tutti a mangiare ciò che ci ha preparato nostra madre con amore, le mie sorelle ed io ridiamo e scherziamo, mamma stringe la mano di papà, consapevole che tornerà la sera tardi e che, ogni singolo minuto della mattina, è prezioso.
Sto per svoltare a destra, per entrare nella sala pranzo, quando mi scontro con qualcosa di solido e caldo, che assomiglia ad una persona. Quando sollevo lo sguardo, per capire chi è, intercetto gli occhi di una persona che non ho mai visto in questa casa e non mi ricorda nessuno degli uomini di papà che io conosco.
Malgrado questo, distinguo l’intensità del suo sguardo, lo sento bruciare sulla pelle. Non indossa il passamontagna e nemmeno il cappello, i capelli color biondo cenere sono folti e le sopracciglia corrugate, come se mi stesse studiando. Tutta questa sua attenzione, questo sondarmi, mi mette a disagio.
È Remo. Lo so.
Faccio un passo indietro e anche lui lo fa, portandosi una mano al petto. “Ti chiedo scusa”.
Batto le palpebre: non mi aspettavo certo che mi chiedesse scusa con così tanta eleganza e rispetto. Non accenna ad un sorriso, niente, la sua voce si confonde nella mia testa in un eco spaventoso e così cupo, che sento il cuore avere un sussulto. Il suo tono è forte e roco, ruvido, così caldo che l’aria si riscalda all’istante.
Deglutisco e gli angoli delle mie labbra si sollevano in un sorriso timido, poiché la sua stazza e voce mi intimidiscono. A vederlo così alto e grosso, come un orso pronto ad azzannarti, mi fa uno strano effetto. “Non ti scusare” farfuglio scrollando le spalle. “Avevo la testa tra le nuvole”.
Con un tempismo perfetto, il mio stomaco emette un brontolio basso e mi sento arrossire dall’imbarazzo.
Lui non sorride, ma dal tono di voce sembra divertito. “Oppure era l’appetito…”
Sollevo le sopracciglia e faccio una smorfia, sentendomi sprofondare nella vergogna mentre la mia pancia continua a borbottare con sempre più insistenza. Mi porto una mano al ventre e sfoggio un debole sorriso di circostanza, quindi lo supero rapidamente ed entro in sala da pranzo, dove mamma sta apparecchiando con tovaglioli e posate.
“Buongiorno!” esclama con un sorriso casto vedendomi arrivare.
Le tolgo dolcemente i tovaglioli dalle mani e le poso un bacio sulla guancia. “Buongiorno” le sussurro facendola sogghignare.
Lei si scosta e si dirige rapidamente verso la credenza, per tirare giù le tazze dai ripiani. “Vedo che hai fatto la conoscenza di Remo”.
Sobbalzo e sento il cuore fare una capriola. Solitamente non è così curiosa. Perché proprio oggi deve mettermi in imbarazzo così?
“Direi di averla piuttosto spaventata, non conosciuta”. Remo entra in sala da pranzo e, malgrado sia voltata di spalle, avverto i suoi occhi su di me.
Nelle parole riconosco un accento molto marcato: non è siberiano, è russo. Strano che mio padre abbia deciso di prendere sotto la sua ala e far diventare il suo braccio destro un uomo russo. Tutti i suoi cadetti provengono dalla Jacuzia o dall’entroterra, ma Remo sembra un’eccezione sotto tutti i punti di vista.
Il suo tono è di scherno, mi sta visibilmente prendendo in giro, ma è anche freddo, distaccato, non divertito.
Nel mettere i tovaglioli sulla tavola, mi soffermo a contare quanti posti mamma abbia calcolato: di solito siamo sei con le mie sorelle, ma oggi siamo sette. E, nell’intercettare con la coda dell’occhio gli anfibi pesanti e sporchi di Remo, intuisco chi sarà l’altro ospite a colazione… e la cosa mi fa venire i brividi.
Sbuffo e gli rivolgo un’occhiata scontrosa, ma non aggiungo altro.
Lui ricambia con un’alzata di sopracciglia e afferra lo schienale della sedia, scaricando tutto il suo peso sulla povera seduta di legno. Questa scricchiola, attirando la mia attenzione, e osservo per un secondo i muscoli delle sue braccia: non sono scolpiti, ma comunque mi mettono a disagio. So perfettamente che ogni uomo, in questo clan, ha ucciso o ucciderà, sono dei sicari addestrati. L’idea non mi ha mai toccato del tutto, sono cresciuta in un clan autoritario, non ho gli strumenti per compiangere una vittima, soprattutto se questa è nemica del nostro clan.
Ma per la prima volta, vedere così da vicino una delle armi principali che Remo usa come sicario, mi fa venire i brividi freddi.
Distolgo lo sguardo e riprendo ad aiutare mamma, mentre lui è lì, con il suo maglione a collo alto pesante e i pantaloni neri cargo, appoggiato ad una sedia che potrebbe afferrare con disinvoltura e distruggere senza il minimo sforzo.
Il suo sguardo su me e mia madre, mentre ci diamo da fare ad apparecchiare anche per lui, mi fa letteralmente perdere la testa. E di certo non in senso positivo.
Vorrei rivolgergli una battuta serafica, ricordandogli che non siamo le sue serve e che un solo uomo possiamo servire: mio padre. Lui è appena entrato in sala, seguito dalle mie tre sorelle, come ninfe greche tra i boschi.
Mando giù tutto il mio risentimento e mi stampo un sorriso allegro sul viso, giusto per dissimulare ed evitare che papà faccia domande. Dasha, più grande di me di un anno, passa vicino a Remo squadrandolo dalla testa ai piedi e puntandolo come un’aquila pronta ad azzannare la sua preda. Le lancio un’occhiataccia e lei mi guarda male, come se l’avessi appena offesa.
Remo, nel frattempo, con una riverenza dignitosa saluta mio padre, e lo fa anche mantenendo un certo distacco e la freddezza educata e composta, di chi sa stare al suo posto di fronte al capo.
“Ho riposto le casse nel garage, siamo pronti a portarle nel rifugio”. Quel sussurro di Remo rivolto a mio padre, tuttavia, giunge anche alle mie orecchie e sollevo lo sguardo su di loro, attratta da quelle parole sibilate. Remo dovrebbe sapere che le figlie del suo capo sanno tutto, allora perché sussurrare come se fosse un segreto inconfessabile?
Mio padre annuisce, ma poi intercetta il mio sguardo incuriosito e liquida la questione con un semplice gesto della mano, quindi mi si avvicina e strofina la mano sul mio braccio, in un gesto composto, che non si sbilancia alla tenerezza. Ed io sono grata delle sue attenzioni, questa mattina.
“Papà” lo saluto abbassando il capo, in segno di rispetto.
“Sei raggiante oggi!” esclama guardandomi attentamente. “Segui anche tu quelle teorie salutari di tua sorella?”
Dasha smette di bere l’acqua e posa il bicchiere sulla tavola, quindi alza un dito come a voler precisare qualcosa. “Quelle mie teorie che tanto schernite, rendono più luminosa la pelle”.
Ridacchio e ripenso a Dasha che, una settimana fa, cercava in modo febbrile delle ricette di bellezza, per poi ridursi a creare degli intrugli di frutta e cereali strani, verdi e maleodoranti. Io e lei abbiamo un rapporto bellissimo, siamo nate a dieci mesi di distanza, io di febbraio lei di maggio: l’inverno e la primavera, capelli biondissimi e ciocche scure… Dasha ed io siamo come il giorno e la notte, eppure ci confidiamo qualsiasi cosa e non siamo mai state in disaccordo.
Faccio per sedermi, quando Remo prende posto accanto a me, facendomi arrestare. Con i suoi movimenti, mi si avvicina ed io mi irrigidisco d’istinto. Lo osservo di sottecchi, mentre le sue dita afferrano la sedia e la scostano con sicurezza, come se non dovesse nemmeno chiedere il permesso di accomodarsi a tavola con noi. Dà per scontato che il posto in più sia per lui. Nessun sicario di papà si è mai permesso di sedere alla nostra tavola, come nessuno si è mai preso così tante libertà e in assoluto silenzio.
Remo è speciale…
Questo tavolo è sacro, è simbolo di famiglia e raduno.
I suoi movimenti, però, così sciolti e disinvolti sono una perfetta provocazione e non ha il timore di darmi noia, poiché lui sa esattamente cosa sto provando in questo momento. E lo sguardo che mi lancia, prima di sedersi del tutto, mi conferma che sa benissimo cosa penso.
Solleva un sopracciglio e poi si avvicina al tavolo con un movimento di bacino, per sottolineare la sua completa sicurezza.
Sono tentata di cambiare sedia, ma le mie sorelle hanno già preso posto e non vorrei privare mia madre dell’opportunità di stare vicino a papà. Deglutisco il senso di disagio e mi accomodo riluttante vicino a Remo. Le sue mani sono ferme ai lati del piatto e guarda avanti a sé, come se fosse un soldato a riposo e stesse aspettando il prossimo ordine dal suo generale.
Parlando la sua stessa lingua, ossia il silenzio, studio i suoi lineamenti rigidi e quella mandibola squadrata, che getta un’ombra altrettanto dura sul suo collo lungo. Non ha grossi segni di vecchiaia sul volto, non ha rughe, ma qualcosa mi dice che almeno trent’anni li ha, a giudicare anche dalla sua posizione sociale in questo clan. Un filo di barba corre lungo le guance, mentre i capelli, così folti, gli coprono in parte le orecchie.
È indubbiamente un bell’uomo e la mia curiosità nei suoi riguardi sorprende perfino me stessa.
Emana… calore e freddezza allo stesso tempo. È caldo perché il suo corpo è massiccio e imponente, mentre la sua postura è così rigida e lineare, il suo viso è totalmente privo di emozioni da farmi rabbrividire dal freddo. Quelle mani, poi, grandi e visibilmente segnate dal duro lavoro, poggiano ferme e pesanti sul tavolo, quei polpastrelli sporchi del sangue di tanti nemici impregnano metaforicamente la tovaglia candida. Non merita di essere qui e sporcare la purezza di questo momento.
Si volta piano ed io non faccio in tempo a reagire: mi scopre ad osservarlo. Nell’istante in cui i suoi occhi scuri incontrano i miei, sobbalzo sulla sedia, più che altro per lo spavento, e mi giro a guardare mamma e Lena, l’altra mia sorella, che stanno portando a tavola la colazione.
“Ma Cajkovskij dov’è?” domanda Mina, la gemella di Lena.
Sorrido nel sentirla nominare il mio cane e faccio un cenno con il pollice in direzione della porta sul retro, alle mie spalle. “Sta facendo i suoi bisogni in giardino”.
Papà sorride appena, ma quando si rivolge a Remo intuisco che non era rivolto a me. “Cajkovskij è il cane di Tiana”.
Perché mai dare questa informazione? In ogni caso, mio padre è il capo e se ritiene necessario spiegare qualcosa a Remo, non posso obiettare.
Comunque, mi ritrovo nervosamente a bere la tazza di tè nero. Non voglio che Remo abbia qualsivoglia informazione su di me, mi dà fastidio addirittura che sappia il nome del mio Laika dal pelo scuro.
Ringrazio Lena per avermi passato i pancakes con formaggio contadino e me ne servo due, facendo poi per posare il piatto sulla tovaglia, lì dove stava prima. Mamma mi richiama con tono fermo e rigido che mi fa sobbalzare. “Tiana, offri qualcosa al tuo vicino Remo”.
Mi volto di scatto verso di lui, che solleva le sopracciglia e si rivolge a mia madre con una tale educazione, che mi si accappona la pelle. “Ho piacere a mangiare con tutti voi, ma non voglio disturbare nessuno”.
Le sue parole si ripetono nella mia testa e, quando mi rivolge un’occhiata, capisco benissimo il motivo per cui ha sottolineato le ultime parole. Si stava rivolgendo a me con un’altra delle sue provocazioni. Mamma, ovviamente, sgrana gli occhi e scuote la testa. “Mangia tutto ciò che vuoi, non farti scrupoli”.
Remo scuote la testa e insiste nel rifiutare. “Mi vedo costretto a declinare” ribatte e la sua mano si posa sulla mia, in un gesto controllato, come a invitarmi a posare il piatto. “Accetterò solo del tè: oggi mi aspetta una lunga giornata e non vorrei appesantire il carico”.
Quale carico?
Mi volto a guardare papà, che annuisce al suo sicario. Deglutisco e lancio un’occhiata a mamma, anche lei in visibile indecisione quanto me. Nel frattempo, la mano calda e grande di Remo è immobile sulla mia e il suo peso mi obbliga a cedere, facendomi sentire quasi debole. La sensazione della sua pelle sulla mia è strana, ha un tocco ruvido e garbato, avverto dei calli sulle sue dita e mi domando quante pistole abbia maneggiato e quanto duro lavoro abbia dovuto fare, per averli. E a giudicare dalla sua sicurezza, dal suo ruolo, deduco in un istante che deve essere un pilastro portante del clan.
Poso il piatto sulla tovaglia e mi libero subito del suo tocco, nascondendo la mano sotto al tavolo.
Dasha subito gli versa del tè nella tazza, che Remo accetta con un sorriso accennato nei confronti di mia sorella. Lei ridacchia e si porta una mano alla bocca per non farsi sorprendere da nostro padre: siamo state educate a non avere atteggiamenti interessati e lascivi nei confronti dei sicari, a non tentarli, e una risatina del genere desterebbe sicuramente il rimprovero del capo.
Ma Dasha è diversa, lo è sempre stata. Remo non sembra farci caso, o se lo fa ce lo comunica con la sua lingua preferita: il mutismo. So che l’addestramento di nostro padre è duro quanto l’inverno siberiano, ma evidentemente si premura di tagliare la lingua a tutti i suoi cadetti.
Rabbrividisco all’idea, ma poi riprendo a mangiare.
“Remo” lo chiama mia madre.
Lui, che si stava portando alla bocca la tazza, riposa all’istante il tè sul tavolo e si volta piano a guardare la moglie del suo capo. Nella freddezza del suo sguardo e nella mascella serrata forte, intuisco che non gradisce proprio l’interesse severo di mia madre. “Signora Gorkaja”.
“Dove sei nato?”
Remo lancia una breve occhiata a mio padre, che annuisce. E ora capisco: l’approvazione di mio padre, a parlare, è fondamentale. “Lukovetskiy, nell’O’blast dell’Arcangelo”.
È russo, ho riconosciuto il suo accento da subito.
“E che ne pensi di Ojmjakon?” Dasha si intromette.
Lui si alza con movimenti controllati dal tavolo, con la tazza in mano, e si porta una mano al cuore, in segno di ringraziamento. È così alto, che nemmeno riesco a guardarlo in faccia e se volessi davvero dovrei appoggiarmi a Mina, seduta accanto a me, e spingere gli occhi lì, oltre il suo petto. “Vi ringrazio per il tè: davvero squisito”.
Non l’ha nemmeno bevuto, penso.
“Ma ho del lavoro da sbrigare e gli altri uomini mi aspettano”.
Mi volto a guardare l’orologio appeso al muro: sono le sette e mezza del mattino. Per noi che viviamo in Siberia l’ora è relativa, non riusciamo mai del tutto a distinguere il mattino dalla sera; Ekaterina, la mia amica, ed io chiamiamo crepuscolo solare, un sole così fioco da sembrare un vespro al contrario.
La luce è solitamente oscurata dal gelo.
Il colore del cielo sembra carta di zucchero cristallizzata.
Remo porta la sua tazza nel lavello della cucina e la posa insieme a qualche piatto sporco. Osservo i suoi movimenti intrigata dalla sua estrema silenziosità e da questo compassato distacco, che per noi è davvero strano, perché la colazione è il momento in cui possiamo stare insieme e riempire la stanza di parole.
L’unico momento…
Un ultimo crudo saluto e abbandona la stanza, muovendosi veloce verso l’ingresso di casa. Mentre le mie sorelle commentano la scena e si fanno domande sulla stranezza di Remo, io rimango a fissarlo: recupera il suo piumino nero dall’appendiabiti vicino la porta e lo indossa, allacciandoselo fino al collo. Le sue mani si muovono a tastare le tasche, alla ricerca di qualcosa, e quando lo trova riconosco le dita digitare qualcosa sullo schermo. Mi chiedo a chi stia scrivendo, se ha una fidanzata lontana, nell’O’blast dell’Arcangelo, o se sta parlando con un amico, magari.
Come prima, mi sorprende l’idea di studiarlo, ma stavolta non distolgo lo sguardo. Una scintilla mi fa tremare e mi stringo nelle spalle, guardandolo con insistenza. Lui corruga la fronte e rimette il telefono nella tasca, ma non fa trasparire alcuna emozione. Rimane lì, sulla porta, ad infilarsi il cappello sul capo e a calcarselo per bene, mentre con l’altra mano solleva il passamontagna fino alla bocca, comprendo anche una parte del naso.
Non ho mai osservato così uno degli uomini di mio padre.
Con così tanta… indiscrezione.
Sbatto le palpebre e distolgo lo sguardo, sentendomi una maleducata. Do un morso al pancake, evitando di pensarci, ma ho come la sensazione d’avere i suoi occhi, stavolta, puntati addosso. Ed è una sensazione di calore quella che provo, quella di un fuoco che mi sta facendo arrossire le guance. Penso a quanto sia buono questo formaggio, alla decorazione floreale bellissima della tovaglia, alla risata melodica di Dasha… a qualsiasi altra cosa che non sia Remo.
Sposto l’attenzione su di lui e lo trovo ancora lì, sulla porta, che mi osserva.
Forse sta aspettando mio padre o un messaggio, non saprei proprio.
Mi schiarisco la voce e mi volto verso Lena. “Come procede il corso all’università di Yakutsk?”
Onestamente, le ho fatto questa domanda solo per distrarmi. Lena inizia a parlare, annuisco ascoltando i suoi progressi con il tirocinio all’ospedale nel reparto infantile, quindi, facendo finta di voltarmi per prendere il piatto con il porridge, i miei occhi fuggono verso il salone.
Remo è andato via.
Silenzioso e gelido…
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Published on October 27, 2022 12:58 Tags: romance-darkromance-badboy