Carlotta Borasio's Blog

October 28, 2020

Vedi e senti il mondo come il tuo lettore: il contesto

Storia di un abito da cocktail che non comprerò mai



È una bella mattina di marzo, fuori c’è il sole, mia figlia gioca con i Duplo sul tappeto, io sono alla scrivania che spulcio la posta.
Trovo diverse newsletter dei miei brand preferiti: uno di questi mi propone dei bellissimi abiti da cocktail per stupire gli amici.
E voi direte, embè?
Embè, è marzo 2020, siamo nel bel pieno del lockdown. Siamo chiusi in casa da almeno un paio di settimane. Ormai siamo passati da ‘No, mi vesto e mi trucco tutti i giorni’ a ‘Niente videochiamate? Evvai di pigiamone!’
Capisci, caro brand di vestiti, che forse forse non sono proprio dell’umore giusto per comprare un abito da cocktail. Ma soprattutto NON POSSO uscire di casa: come li vedo gli amici? Via WhatsApp? Il vestito non si vede via WhatsApp!





Probabilmente questa newsletter era stata programmata e scritta settimane prima, quando ancora non si immaginava che razza di casino ci aspettava.
Ma arriva nel contesto sbagliato e così fallisce nel suo intento, cioè farmi comprare roba.





Cos’è il contesto?



Quando scriviamo il contesto è tutto ciò che circonda il messaggio, il mittente e il destinatario. Deve essere almeno in parte comune, condivisibile e condiviso. Se non lo è la reazione di chi riceve il messaggio è più o meno questa.





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Da cosa è circondato il vostro lettore?



Prima di pensare di scrivere un testo è importante chiedersi in che contesto siete voi e il vostro lettore.
Cosa dicono i giornali che legge? Cosa si dice nella sua bolla Twitter? Sul calendario che festività, celebrazioni, giornate internazionali sono segnate? Vive in una piccola città? In un paese? Lavora a casa, in ufficio, a contatto con la gente?
Cosa circonderà il vostro lettore quando gli arriverà il vostro messaggio? Se fate delle citazioni siamo sicuri che lui le colga?





Se programmate con largo anticipo è importantissimo tenere in considerazione quali sono gli elementi del contesto che influenzano la vostra comunicazione e che potrebbero cambiare, anche drasticamente.





Come al solito il punto è sempre quello: ascoltare, chiedere, essere curiosi e tenere gli occhi bene aperti ed essere pronti a cambiare.





Insomma vuoi farmi comprare roba? Coinvolgermi? Sedurmi?





Cerca di vedere il mondo con i miei occhi e sentirlo con le mie orecchie.


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Published on October 28, 2020 10:40

September 7, 2020

5 consigli che non ho trovato nei libri su maternità e figli

Quando sto per affrontare qualcosa di nuovo il mio approccio è sempre lo stesso: prendo in prestito dalla biblioteca/acquisto qualsiasi libro sull’argomento per quanto improbabili.
Così ho fatto quando ho scoperto di essere incinta di Piccola Gremlin.
Settordici libri su come si sviluppa il feto, 812 libri sui primi mesi del pupo, 412 manuali di neuroscienze, intelligenza emotiva, educazione cinofila.





Sono stati utili? Assolutamente sì, a patto di scegliere fonti autorevoli.
Ci sono però un paio di cose che non ho trovato in nessun libro.
Quindi ecco i miei 5 consigli per viversi meglio la vita da genitori.





Sì a libri, riviste, video su Youtube se di persone qualificate e competenti



Qui la questione è semplice: sì a libri scritti dall’Associazione Sacri Pediatri Imperatori dell’Universo (si basano generalmente su evidenze scientifiche e non chiacchiere) e alle indicazioni dell’OMS.
No, NO, NOH, i libri scritti dall’amministratrice del gruppo Mammine …… come noi …
Le mammine come noi (ma pure i papini come voi) sono molto utili per sapere che scarpe hanno scelto da portare all’asilo o che evento organizza quella libreria tanto caruccia nella vostra zona. Per il resto…
Autorevolezza prima di tutto.





No a comprare tutto quello che vedete nei negozi per neonati



Un giorno io e Andrea siamo entrati in un negozio di roba per bambini. Piccola Gremlin non era ancora in progetto e quindi non sapevamo granché di neonati ma il messaggio di quegli scaffali era chiaro: hai bisogno di cose, tante cose. Altrimenti il tuo bambino non sarà mai sano e felice.
Inutile dire che lo scopo di chi produce la vaschetta col termometro incorporato e il set per pappe ergonomico vuole vendere, quindi deve creare paura e desiderio. C’è una paura peggiore di crescere male il proprio pargolo?
Ma vorrei prospettarvi un altro scenario: casa vostra, ingombra di roba che non sapete più dove mettere, con il vostro pupo che si aggira rischiando di tirarsi in testa scatoloni, scaffali, cassetti. Strabordanti di roba che pensavate vi servisse e invece avete usato una volta.
Proverete a venderla su Subito.it ma attirerete un sacco di gente che ‘Vengo domani a prenderlo’ e poi sparirà nel nulla.
Paura eh?





Sì agli alleati. No agli invasori



Se non volete gente in casa, se siete in crisi perché c’avete sta cosa urlante tra le mani e non sapete come disattivare l’antifurto, la visita dei cugini di 18° grado, degli amici, dei colleghi, dei nonni sono assolutamente rimandabili al 12° compleanno del pupo.
A meno che non si offrano di pulirvi casa, cucinarvi pasti decenti, assicurarsi che il vostro Gremlin non mangi dopo la mezzanotte mentre vi fate una doccia.
No, NO a chi viene in casa e vi dice: “Te lo tengo io il bambino mentre tu fai le pulizie” a meno che non sia esattamente ciò che volete.
Avete bisogno di circondarvi di persone a cui voi chiedete = loro eseguono.
È lecito che non se la sentano di farvi le pulizie: se vogliono fare gli ospiti li accoglierete quando sarete in grado di sentirvi padroni di casa e della situazione accettabili.
Parenti/amici/colleghi si offendono? Problema loro.
Però diteglielo, esplicitamente, che non è proprio il caso di piombarvi in casa per accozzarsi sul divano mentre voi vorreste solo dormire.





No a chi vi mette ansia



Allontanate le persone ansiose, negative, che non fanno altro che raccontarvi cose terribili su quella volta che al bambino è spuntato un tentacolo verde al centro della faccia e poi se lo sono dovuto tenere così (spoiler: era il naso sporco di moccio).
Generalmente si è già propensi a farsi venire l’ansia da soli: non c’è bisogno di aneddoti orrendi e inutili, magari raccontati a distanza di anni e quindi pure poco attendibili.
[Qui bisognerebbe aprire pure una parentesi su parto e gravidanza (no, non è necessariamente un’esperienza raccapricciante), ma eviterò.]
Fare i genitori non è sto gran strazio che sembra: c’è da divertirsi, parecchio. Molto spesso passi dall’incazzatura alla risata soffocata, dallo sbalordimento compiaciuto al facepalm. Presente Inside Out? Ecco, tipo gatto sulla console delle emozioni.





No a consigli non richiesti



Tutti, TUTTI vi vorranno dire come fare i genitori: non importa che non abbiamo mai visto un bambino in vita loro, abbiano figli di 47 anni o abbiano un cane e “quindi è un po’ la stessa cosa”. TUTTI vorranno dire la loro. Avete presente Facebook? Ecco, peggio.
Ora, se le persone in questione le incontrate occasionalmente si può sospirare forte forte, dilatare le narici, cominciare a battere il piede in segno di noia e irritazione. E se non capiscono avete chiaro quanto siano utili i loro consigli.
Altrimenti è ora di tirare fuori tutta la vostra assertività: grazie, ma se ho bisogno chiedo al pediatra.
Si offendono? Ho già detto “problemi loro”?
Se fate una scelta cretina a scapito del vostro pupo state sicuri che lui si offenderà molto molto di più per molto molto più tempo.
… Ok, non è vero. Ma l’idea di vostro figlio che vi giudica malissimo perché avete ascoltato tutti tranne lui ha la sua efficacia. Almeno se vi cazzia potete dire “SONO TUA MADRE/PADRE. POSSO FARE QUELLO CHE VOGLIO?”
Difficile giustificarsi con “Ma me l’ha consigliato il macellaio.”





Naturalmente il punto 5 vale anche per questi consigli: non vi piacciono? Vi mettono a disagio? Vi sto antipatica io e volete darmi torto a prescindere? Ok, cancellateli. Molto probabilmente crescerete comunque figli sani, saggi, intelligenti, gentili, ricchi, futuri candidati a un Nobel a caso.





Il 23 settembre esce per Buendia una piccola raccolta di racconti 3 Numero imperfetto.
dentro c’è un mio racconto, “Non è giornata”.
I protagonisti sono una madre e di suo figlio, la storia parla di un rapporto che non funziona.
Rileggendolo a distanza di tempo mi sono resa conto che i sentimenti dominanti sono rabbia e sconforto.
Ian e sua madre potevamo essere Piccola Gremlin e io. Essere madre poteva essere una tortura costante, mia figlia qualcosa di cui pentirsi ogni giorno.
Invece mettere a fuoco i 5 consigli che ho condiviso con voi mi ha aiutato a concentrarmi sulle cose importanti: non è che i momenti di rabbia e sconforto non ci siano, e le questioni su cui riflettere non sono solo queste 5 (vi piascerebbe eh), però per me sono stati un ottimo punto di partenza.





Alla fine io, Monica e Francesca abbiamo parlato della stessa cosa nei nostri racconti: incomunicabilità, manipolazione, mancanza di consapevolezza.
Certo abbiamo usato toni, atmosfere, personaggi, temi molto diversi. E soprattutto diversi sono i finali, a dimostrazione che non siamo condannati a rimanere soli se impariamo a parlarci davvero.


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Published on September 07, 2020 07:47

September 2, 2020

Se si sfida il Fascismo a colpi di racconti gialli

È il 1935. Siamo a Torino. Anita è giovane, bella e fidanzata: potrebbe occuparsi dei preparativi per il suo matrimonio con Corrado (giovane, bello, gentile, benestante). Invece, pensa te, si è messa in testa che vuole lavorare.





E di lavoro batte a macchina traduzioni di racconti gialli per una rivista.





È il 1935 e già la censura fascista si abbatte su tutto ciò che viene pubblicato: i racconti gialli della rivista Saturnalia si salvano, ma solo perché piacciono, tanto, alla gente, e perché ci sono i racconti (noiosi a morte) di Bonomo, fascistissimo commissario che placa gli animi dei censori.





Anita, che davvero non è una grande lettrice, con i racconti gialli americani scopre un mondo: sono storie che “mettono il fiatone da seduti” e che “mostrano lo sporco sotto il tappeto”.





Sporco che naturalmente a Torino, in Italia, durante il fascismo non può esistere e se esiste viene da fuori e si fa in fretta a debellarlo, come mostra il commissario Bonomo.





Ad Anita però capita di assistere a un fatto violento ai danni di un debole (sì, sto cercando di non spoilerare). Dietro c’è un omicidio, per mano di un assassino ora ritenuto un eroe di guerra, che non verrà mai ritenuto colpevole. A meno che qualcuno non si prenda il rischio di raccontare la sua storia.





Alice Basso con Il morso della vipera fa riflettere la sua Anita – e tutti noi – sul potere delle storie: l’importante alla fine non è che il colpevole venga messo alla gogna e punito, che venga ricordato per quello che è, che la vittima venga vendicata. Se i lettori si portano a casa un po’ di pietà per i più deboli e “Una prospettiva un po’ diversa da cui vedere le cose, che metta radici nel cuore, che lavori sottobanco.” allora la storia ha assolto il suo dovere. Se il lettore si ritrova a farsi domande, anche in un momento storico in cui farsi domande è pericoloso, le storie hanno vinto.





Il potere delle storie



Alice, come Anita, crea una storia coinvolgente, con una protagonista interessante, scritta con uno stile brillante. Che intrattiene chi vuole essere intrattenuto.





E agli altri dona una prospettiva un po’ diversa da cui vedere le cose, che mette radici nel cuore e lavora sottobanco.





Questo romanzo mette in luce un aspetto interessante della narrativa: la storie non devono necessariamente educare o ‘mandare un messaggio’. Le storie devono innanzitutto farti ragionare per ‘E se?’.





E se tutto questo ‘ordine e pulizia’ fossero ben poco giusti? E se per mantenere l’equilibrio dovessimo sacrificare la libertà e le ossa di qualche debole? E se tiriamo fuori lo sporco da sotto al tappeto e lo soffiamo in faccia alle persone?


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Published on September 02, 2020 05:35

June 16, 2020

6 elementi per capire come funziona la comunicazione

L’estate scorsa ho scelto come lettura da ombrellone Il nuovo libro della comunicazione di Ugo Volli. Ho voluto leggerlo perché mi pareva di star acquisendo tutta una serie di nozioni e competenze che però avevano bisogno di un impianto teorico che io non avevo, visto che a Lettere avevo fatto molta Linguistica ma poca Teoria della Comunicazione. 





Ho fatto bene perché proprio nelle prime pagine mi sono imbattuta in Roman Jakobson e in uno schema che poi mi ha fatto da guida quando ho strutturato il mio corso di scrittura per il web e i miei percorsi personalizzati





Intanto facciamo i dovuti distinguo: qui si parla di comunicazione verbale, cioè quando parliamo o scriviamo.





Per comunicare a parole abbiamo bisogno di 6 elementi



Per spiegarli vi racconto di Francesca:
Francesca [emittente] su Instagram [contatto o canale] presenta la sua nuova collezione di bomboniere [messaggio] alle sue clienti affezionate [destinatario]. Lo fa in italiano corretto e usando gli hashtag giusti [codice], proprio a febbraio quando le future spose stanno decidendo i dettagli per il loro matrimonio [contesto].





Insomma l’emittente invia un messaggio al destinatario (emittente e destinatario possono essere persone, gruppi, istituzioni). L’emittente usa un codice che dovrà essere almeno parzialmente comune al destinatario. Attraverso un canale (la voce, Instagram, pizzino di carta con piccione viaggiatore) in un determinato contesto, cioè in una realtà fisica, sociale, culturale. 





Queste funzioni dovrebbero esserci sempre tutte, altrimenti la comunicazione non avviene





Quando uno di questi elementi prevale, la comunicazione assume funzioni diverse





Ad esempio: 





Clicca qui! ha una funzione conativa, cioè chiede al destinatario di fare qualcosa, di ‘farlo muovere’. 





Sono davvero sconcertato… ha una funzione emotiva perché si concentra su quello che succede all’emittente. 





PRONTO, CHI PARLA?! NON SENTO! ha una funzione fàtica per perché zia Peppina che è un po’ sorda sta sottolineando il malfunzionamento del canale, uditivo o telefonico, non si sa). 





Perché sapere com’è fatta la comunicazione è importante?



Perché altrimenti parole come target, CTA, tono di voce, personal branding sono tutti pezzettini scollegati, termini magari altisonanti ma non coerenti





Fare una strategia, pensare un contenuto significa intanto capire a cosa corrispondono per noi i 6 elementi che fanno sì che una comunicazione avvenga: chi sono io, chi sono gli altri, dove, come, quando sto lanciando il mio messaggio?





Insomma se sappiamo che gli ingranaggi della comunicazione sono questi e ci facciamo domande su come girano, le nostre parole saranno sicuramente più efficaci. 





Nei prossimi post ognuno di questi elementi diventerà l’espediente per affrontare un aspetto diverso della comunicazione online, per imparare a raccontarsi sempre meglio e con maggior consapevolezza. 





Restate connessi? [Funzione conativa]


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Published on June 16, 2020 09:59

December 20, 2019

Diventare Mentore di scrittura per i business

Un giorno Gioia Gottini ci propone sul suo gruppo di partecipare al programma Mentoring. In pratica si trattava di dare o ricevere consigli su un tema specifico attraverso un percorso di 7 settimane.
Ognuno mette gratuitamente a disposizione le proprie competenze diventando Mentore e può richiedere a sua volta di essere affiancato diventano un Mentee.


L’idea mi è piaciuta subito per tanti motivi: intanto era un modo per ripagare il gruppo di tutto ciò che mi ha dato in questi anni. Poi visto che volevo concentrarmi sulla scrittura per il business era un ottimo modo per capire come strutturare un servizio da offrire ai clienti e studiare il mio target.


Dunque mi sono candidata mettendo a disposizione delle Mansardine le mie competenze in fatto di comunicazione scritta nel mondo online. Sono arrivate parecchie candidature, al punto che con un po’ di dispiacere ho dovuto rimandarne alcune e rifiutarne altre.


Come funziona il mio percorso di Mentoring

Ho strutturato il mio percorso così: 5 incontri di un’ora, via Skype.
Il primo incontro serviva a conoscere la mia Mentee: chi è? Che lavoro fa? Ma soprattutto come parla? Che tono di voce usa? Che parole? Come parla del suo target? E di sé stessa e del suo lavoro? Dove sono le sue difficoltà? Nel buttare giù una frase o nel trovare argomenti? Insomma mi sono fatta i fattacci loro, e loro, c’è da dire, erano ben contente di raccontarmeli.


Da questo primo incontro e dai materiali che mi sono fatta spedire (blog, newsletter, esercizi di branding, ecc) ho strutturato gli altri incontri. Anche se il percorso poteva differire molto da persona a persona, gli obiettivi erano sempre gli stessi: capire chi sei tu, a chi stai scrivendo, cosa vuoi dire, come vuoi farlo e dove. (Avete presente le 6 funzioni della comunicazione? Ecco, quelle).


Mi sono accorta che c’erano dei problemi che ricorrevano più spesso.


“Non so cosa scrivere”

Il problema talvolta era proprio decidere cosa raccontare del proprio lavoro.
Le mie indicazioni sono state due.
Intanto scegliere: molto spesso le idee erano tante ma confuse e c’era un po’ la paura di precludersi delle possibilità, ma io ho chiesto alle mie Mentee di scegliere soltanto un servizio. Il tempo era poco e non potevamo fare tutto e si sono rese conto anche loro che focalizzarsi aiuta a scremare e fare ordine.


L’altra indicazione è stata quella di uscire dai propri panni e mettersi in quello dei propri clienti: la mappa dell’empatia è uno strumento molto utile, ma anche raccogliere domande, leggere i loro commenti e vedere il proprio lavoro con occhi nuovi aiuta a non dare per scontate le particolarità del proprio mestiere.


Abbiamo anche lavorato su alcune tattiche per costruire i testi veri propri: ad esempio io amo le mappe mentali.
Se hai una struttura di partenza è molto difficile che poi tu non sappia cosa scrivere o da che parte cominciare


Diventare Mentore: un dono prezioso

Intanto ho potuto lavorare con persone che vengono da ambiti molto diversi, con persone molto diverse tra loro. Questo mi ha permesso non solo di apprezzare le differenze ma anche di individuare le difficoltà ricorrenti, a prescindere dal settore.


Questa esperienza mi è servita anche per mettere a punto un servizio che lancerò a gennaio: sarà un percorso di Mentoring di Scrittura per il Business e sarà strutturato esattamente come quello che ho sperimentato in Mansardina.
5 incontri via Skype in un percorso personalizzato, con esercizi e correzioni.
Obiettivo? Dare strumenti, strategia e tattiche per scrivere bene senza perdere tanto tempo davanti alla pagina bianca.


Il Mentore nel Viaggio dell’eroe 


Il Mentore è uno degli archetipi del viaggio dell’eroe: è colui che insegna e istruisce l’eroe. Ma dà anche doni, come Obi-Wan Kenobi che dà la spada laser a Luke Skywalker. Oltre a dare informazioni preziose, fornisce motivazione e sprona l’Eroe a intraprendere il suo viaggio.


Ciò che Il viaggio dell’eroe non racconta è che aiutare l’Eroe spesso diventa un dono per il Mentore stesso.


Vuoi sapere quando lancerò il servizio di mentoring? Iscriviti alla newsletter e rimani aggiornata sulle novità!














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Belli, colorati, interessanti e che sai, possono sempre servire.
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Published on December 20, 2019 07:36

October 28, 2019

Noi siamo La specie creativa: istruzioni per diventarlo davvero

Vedo questo libro allo stand di Codice edizioni e me ne innamoro subito: si intitola La specie creativa: l’ingegno umano che dà forma al mondo.
Un volume dalla copertina rigida con un sacco di illustrazioni. È scritto da un compositore musicale, Anthony Brandt, e da un neuroscienziato, David Eagleman.





Visualizza questo post su Instagram

Un post condiviso da Carlotta Borasio (@camphorina) in data: 28 Ott 2019 alle ore 11:00 PDT






E punta su una premessa davvero allettante:





Facciamo parte di un grande albero genealogico di specie animali. Perché allora le mucche non creano coreografie di balletti? Perché gli scoiattoli non progettano ascensori per raggiungere la cima degli alberi? Perché gli alligatori non inventano motoscafi? Un ritocco evolutivo negli algoritmi del cervello umano ci ha permesso di “assorbire” il mondo che ci circonda e di crearne versioni nuove e alternative che rispondono alla domanda “E se facessi così?”. Questo libro è dedicato a quel software creativo: come funziona, perché ne siamo provvisti, come lo usiamo e soprattutto dove ci sta portando.





Insomma una sorta di reverse engineering della creatività umana





Tre B per capire come funziona il nostro cervello quando crea



Bending, Breaking and Blending ossia piegare, frammentare e mischiare: sono questi i procedimenti che il nostro cervello usa per creare qualcosa di nuovo. 
In La specie creativa Brandt e Eagleman usano due esempi diversi per mostrare come funzionano concretamente. 





Il primo riguarda l’Apollo 13 e di come gli ingegneri della NASA tirarono giù gli astronauti, altrimenti spacciati, smontando la navicella, usando pezzi destinati per altri scopi e rimontandoli.
Poi c’è Picasso con Les demoiselles d’Avignon, che mescolò, frammentò e piegò per ottenere uno dei quadri più innovativi della sua epoca. 





“La nostra civiltà fiorisce a partire da queste ramificazioni zigzaganti che spuntano dalle derivazioni, dai riassemblamenti e dalle ricombinazioni.”





L’arte che ci porterà nello Spazio



All’arte viene dedicato molto spazio, ma soprattutto se ne parla come strumento necessario per fare innovazione.
L’arte infatti è un ottimo campo di addestramento per il bending/breaking/blending. Fornisce esempi che allenano la mente a pensare in un certo modo.
E quindi male fa chi si occupa di educazione ed esclude l’arte dai programmi scolastici perché con l’arte non si mangia.





Sbagliare ci renderà ricchi



Se pensate che sbagliare vi farà fallire, be’, è comprensibile ma non è necessariamente vero.
C’era una volta la 3Company, campionessa di innovazione. Fino al 2000. Quando arriva un amministratore delegato che ne tentativo di massimizzare i profitti decide di mettere le catene al dipartimento di ricerca e sviluppo. Il dipartimento doveva comunicare qualsiasi variazione nel processo produttivo, che veniva valutata in base a quanto rendeva nell’immediato.
Risultato? – 20% di vendite sui nuovi prodotti.
Appena è arrivato un nuovo amministratore delegato che ha lasciato carta bianca al dipartimento di ricerca e sviluppo le vendite si sono riprese. 





Questo perché si innova quando si osa e si tenta, perché quando proliferano le idee si hanno più possibilità di fare qualcosa di davvero nuovo e di davvero utile. 





In realtà anche le idee sbagliate sono un passo avanti perché rivelano problematiche che, una volta risolte, ci avvicinano di più alla soluzione. Il concetto di “scappatelle mentali ” (idea flings) potrebbe forse rendere meglio il concetto, perché indica cose che ipotizziamo ma poi lasciamo andare. Il processo di diversificazione e selezione è la base dell’invenzione nel mondo. Alla fine, comunque, il percorso zìgzagante della nostra specie è determinato non dalla pletora di idee che generiamo, ma dalle poche che scegliamo di seguire.





Razzismo, xenofobia, sessismo: quanta meraviglia abbiamo perso? 



Un capitolo interessante è quello dedicato ai pregiudizi che hanno impedito alle persone con delle potenzialità di esprimersi all’interno di una società danneggiando la società stessa.





Sapete quale fu uno dei motivi per cui la Germania nazista non vinse la corsa al nucleare? Perché i tedeschi bollarono le teorie di Einstein come “scienza ebraica” e quindi non attendibili. C’era addirittura chi sosteneva che queste teorie servissero a indurre il popolo tedesco in errore. 





Insomma tutti i pregiudizi che impediscono a qualcuno di contribuire alla società in cui vive diminuisce il proliferare di opzioni. E quindi anche di avere idee innovative, che funzionano.    





Insomma imparare, sbagliare, aprirsi, cambiare, provare senza arrendersi, non censurarsi, non escludere le persone ed educarle, invece, alla creatività. Questo è ciò che dobbiamo fare per essere ciò che siamo: una specie creativa, per natura.


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Published on October 28, 2019 11:12

June 24, 2019

Scaccia la vocina che ti dice che ne hanno già parlato tutti

‘Ma non ne hanno già parlato tutti? Come faccio ad aggiungere qualcosa di nuovo?’



Questa è l’obiezione che mi fanno spesso quando consiglio ai
miei clienti di partire da ciò di cui sono competenti, dal loro lavoro, dalla
loro esperienza.





Alla ricerca dell’originalità



Il timore è di non poter aggiungere niente di nuovo, di dire
quello che hanno già detto tutti, di risultare poco originali.





Ora, secondo me, l’originalità non esiste (Ah, le frasi da Vaffanguru). Se vi dico che ho scritto una storia in cui c’è lei, lui e poi arriva l’altro? Scommetto che, così al volo, mi sapete citare 10 romanzi, film, esperienze di amici, in cui capita esattamente la stessa cosa.





Se la gente si fosse stufata di queste storie non ne vedremmo più, giusto?





via GIPHY





Vale lo stesso per qualsiasi altro tipo di contenuto.





L’originalità sta negli occhi di chi guarda



A mio parere l’originalità sta molto a chi legge. Se io non
ho mai letto niente di un certo argomento mi basterà il più banale dei post per
aprire porte che mai avrei pensato che esistessero.





Immaginate di portare uno smartphone nell’800. Immaginate le
reazioni.





L’originalità sta nella forma, nello stile, nella scelta



Ci si va venire di questi dubbi se il metro di confronto è
quello dell’informazione pura e nuda. Ma noi quando scriviamo non trasmettiamo
solo un’informazione, un dato, un fatto. Facciamo anche delle scelte di stile,
di tono, di parole, di mezzo che fanno un’enorme differenza. 





E il punto di vista? E l’immagine che inseriamo nel post?





L’originalità sta nelle persone



Quando dico che non esistono lavori noiosi, intendo che
laddove ci sono persone ci sono cose interessanti da raccontare. Quello che
manca spesso sono gli strumenti e le competenze per individuare gli elementi
interessanti, come strutturarli e come raccontarli.





Le persone poi comprano da altre persone, si innamorano non
solo del prodotto ma anche di tutto ciò che ci sta dietro, dei valori che quel
paio di scarpe portano con sé. 





Un occhio esterno



Tutte le volte che faccio una consulenza penso ‘Ma questa è una storia interessantissima! Ma qui c’è materiale per un libro’ (scusate, deformazione professionale).









via GIPHY





Ora, il romanzo e i post di un blog che servono a promuovere un prodotto sono due cose diverse, ma sono fermamente convinta che se uno stabilisce che il blog è un canale che vale la pena coltivare, per farsi trovare e comprare dal suo target, allora è solo questione di lavorarci su.





È utile trovare un occhio anzi, un orecchio esterno che ti
faccia notare che quella roba lì, che tu dài per scontata, non è scontata per
niente.





Perché tu conosci benissimo il tuo lavoro e hai interiorizzato informazioni, competenze, concetti e
pratiche
[Autore sc1] al punto che fanno parte di te. Per questo che sai quanto
vale il tuo lavoro. Ma i tuoi clienti no, spesso non sanno niente di te, del
tuo lavoro e di come lo fai tu. Non sanno perché hanno bisogno di te, proprio
di te.





Dunque abbasso l’originalità e mettiti a scrivere.



Ancora dubbi? Ti aiuto io con ‘Cosa scrivo?‘ oppure facciamo una chiacchierata.





Photo by Dustin Diaz on Foter.com / CC BY-NC-ND

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Published on June 24, 2019 02:53

May 18, 2019

Smettila di trattare male i tuoi clienti

C’è una cosa che mi perplime sempre tantissimo quando vado nei negozi o sugli account/pagine online di professionisti e imprenditori: trovare un tono di fastidiosa sufficienza (se va bene) o di aggressiva insofferenza e perculo nei confronti dei clienti (che qui uso come sinonimo di utenti per comodità).





Ora, io non sono d’accordo sul fatto che il cliente abbia sempre ragione, ma se cominci a vedere solo clienti stronzi e maleducati qui c’è un problema. Ed è tuo, caro imprenditore.






Il cliente non capisce = tu stai dando qualcosa per scontato



Il mondo è pieno di gente gnugna, che non capisce, non legge, non sa. Ma a meno che tu voglia fare un trapianto di cervello a tutti i clienti gnugni devi prendere in considerazione un’eventualità.





Sei talmente immerso nel tuo mestiere e nel tuo settore che dài le cose per scontate.





Faccio un esempio: per me è scontato che cos’è una casa
editrice. È anche scontato che al Salone Internazionale del Libro ci siano per
lo più stand di case editrici, non fosse altro che nell’elenco che si trova
sulla mappa, sul sito, sulla app ci sono milioni di editori/edizioni.





Eppure volete sapere quante persone sono venute allo stand
chiedendoci se avevamo il libro di Piero Angela o il Diario di Anna Frank perché
‘ci hanno detto che ce l’hanno tutti’?





Tanti, TROPPI. Ma più che arrabbiarci ci siamo chiesti se forse va fatto un lavoro di (in)formazione. Perché sì, se vuoi che il tuo cliente compri, deve sapere cosa sta comprando, e deve poter capire perché tu a quel libro lì gli hai dato quel prezzo.






Il cliente non capisce = non hai dato tutto le informazioni che servono



Correlato al punto sopra, al cliente hai dato tutte le informazioni che servono? A cosa serve il tuo prodotto? Di cosa è fatto? In cosa consiste il tuo servizio? Come si svolge? Come devo interagire con i tuoi spazi? C’è un regolamento? È chiaro (e sintetico)?





Spesso leggo di imprenditori arrabbiati e stanchi dei clienti scemi, poi vado sulle loro pagine, sui loro siti e non trovo le informazioni che mi servono per comprare, pagare, interagire con loro.
Spesso non è chiaro cosa fanno, in cosa sono speciali, perché dovrei comprare da loro. Insomma mancano informazioni, mancano gli strumenti e la voglia di parlarmi.






Il cliente ti aggredisce = è spaventato e confuso



Spesso ti ritrovi clienti che ti aggrediscono, che usano toni che farebbero prendere in mano il lanciafiamme pure a Madre Teresa. E se non è assolutamente giustificabile in nessun caso essere aggressivi e maleducati, tu puoi con un po’ di buona comunicazione spegnere le fiamme e trasformare il tuo cliente in un alleato. Devi entrare però in empatia con la persona che hai davanti: è spaventata, confusa, per questo ti aggredisce. Esattamente come fanno gli animali.





Mettersi nei loro panni, dalla loro parte, fargli capire che vuoi aiutarli e che è nell’interesse di tutte e due trovare una soluzione per quanto possibile.






Il cliente ha domande = pappa buona per la tua comunicazione!  



Oh ma sempre le stesse domande! L’ennesimo cliente che mi chiede [inserire cosa assurda e/o ovvia a piacere]!





Sì, lo so, può essere una scocciatura rispondere sempre alla stessa domanda. Ma guarda che questo è tutto materiale buono per la tua comunicazione!





Scrivine un post sul blog, sulla tua pagina Facebook, fai un bel video, insomma approfittane e usa queste richieste per ripensare i tuoi prodotti, per variare le tue offerta, per arricchire la tua comunicazione.






Trattare male (pubblicamente) il cliente gnugnu = allontanare potenziali clienti



Ci sono casi disperati. Hai fatto tutto il possibile per spiegare, entrare in empatia ma la sola cosa da fare sarebbe mandare affangulo il cliente. MA non lo fare. Ricordati che quando comunichi non c’è solo il tuo interlocutore: altre persone vi stanno ascoltando. E se lì per lì possono ridere della risposta piccata e ironica del ristoratore che percula il cliente lamentoso, magari ci pensano due volte prima di entrare nel ristorante. Perché i disguidi, i piatti sbagliati capitano. E hanno già avuto prova del tipo di risposta che verrà riceveranno.





Lascia perdere chi dice ‘Ah, dopo questa sagacissima risposta vengo nel tuo locale.’ perché poi non lo fanno e a chiudere sei tu.   






Il cliente gnugnu sei tu



So che non vuoi sentirtelo dire ma la realtà è che siamo tutti il cliente gnugno di qualcuno. Pensa alla prima volta che hai deciso di comprare qualcosa di cui non sapevi granché, oppure a quella volta che hai fatto una domanda al commesso e ti sei beccato un f4 basito.





Alla fine non hai comprato, perché ti sei sentito imbarazzato, inadeguato, poco accompagnato. Magari hai comprato da qualche altra parte o hai lasciato perdere quel prodotto.





Alla fine è tutto qui (si fa per dire): siate le persone che vorreste trovarvi davanti.





Tipo questa ragazza mi pare tra il perplesso e il furibondo.

L'articolo Smettila di trattare male i tuoi clienti proviene da Carlotta Borasio.

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Published on May 18, 2019 07:32

March 17, 2019

Chiedere scusa: non metterti al centro





Chiedere scusa è difficile, ci viene insegnato da bambini ma spesso in maniera sbagliata.





Facciamo un casino, l’adulto ci acchiappa e ci ringhia: “Ora chiedi scusa”. Chiedere scusa diventa una punizione, una marcia della vergogna, un obbligo.





Il risultato è che quando diventiamo adulti e non c’è più qualcuno che ci obbliga a scusarci non lo facciamo. A meno che non siamo obbligati dal nostro gruppo sociale di riferimento.





E lì scatta la tragedia.





I social sono davvero un ottimo territorio in cui
raccogliere scuse che non funzionano.





Faccio l’esempio di Rita Pavone.





I fatti sono questi: Rita Pavone scrive un tweet su Greta Thunberg.





“Quella ‘bimba’ con le treccine che lotta per il cambio climatico, non so perché ma mi mette a disagio. Sembra un personaggio da film horror…”





In tanti le fanno notare che magari no, non è una cosa da fare, per tanti motivi. Qualcuno le fa notare che Greta ha l’Asperger, informazione che definirei irrintracciabile: lo scrive lei stessa nella sua biografia su twitter.





Rita Pavone si scusa e lo fa così. Cioè male.





Mi scuso, ma solo perché Greta è malata.





E se fosse stata sana? Meritava di essere perculata?





Inoltre, ribadiamolo, l’Asperger non è una malattia. Basta qualche ricerchina su Google. Sciatteria e pigrizia non stanno bene con le scuse.





Mi scuso, ma i telegiornali non avevano mai detto che era malata.





Nel dubbio uno può anche stare zitto, non dire niente,
proprio perché non sa chi c’è dietro. Inoltre, ricordiamolo, stai perculando
una ragazzina di 16 anni. Andresti davanti a una scuola a farlo di persona? No?
Ecco, appunto.





Mi scuso, ma la gente è brutta e cattiva e mi ha sbranato perché la penso diversamente da loro.





È vero, c’è gente che ti sbrana se la pensi diverso da loro. Se stai su internet, sei famosa e prendi una posizione allora devi anche calcolare che c’è questo rischio. Per questo quando si sostiene qualcosa bisogna argomentare bene ed essere, non dico inattaccabili, ma almeno preparati.





Aggiungo che se dici che ti hanno attaccato perché ‘la pensi diversamente’ stai ammettendo di aver pensato quello che dici. Cioè prima hai pensato e poi hai scritto, io non lo direi a gran voce.
E no, non ti attaccano perché la pensi diversamente. Ti attaccano perché pensavi di essere simpatica e sul pezzo. Invece sei stata solo offensiva.





 Non volevo offendere e non pensavo di creare scompiglio.





Hai sei anni? Perché se hai sei anni il tuo discorso è comprensibile, altrimenti no. Una persona adulta si prende la responsabilità di quello che fa e che dice, soprattutto in pubblico.





Ha preso come esempio le scuse di Rita Pavone ma avrei potuto prenderne ad esempio altre mille, tipo quelle di Augusto Casali, che seguono esattamente lo stesso schema.





Sono scuse inautentiche, che tradiscono esattamente il pensiero della persona che le fa, che accusano gli altri per sviare l’attenzione dal proprio grossolano errore.





Allora come si fa scusarsi? Ecco un po’ di suggerimenti:  



Non scusarti se non sei realmente dispiaciuto per le persone che hai offeso: perché si vede. Si vede tantissimo che non te ne frega niente. Se pensi di non aver offeso nessuno, di essere vittima del politically correct a tutti i costi fregatene di chi ti critica: non sono persone che ti interessano, che possono capire il tuo umorismo, che comprano i tuoi prodotti.Se ti scusi, scusati e basta. Non devono esserci distinguo di sorta. Non è che ti scusi con qualcuno sì, perché ti fa comodo, e con qualcuno no. (Ci scusiamo con i cinesi, perché sono tanti. Con gli abitanti del Liechtenstein no, perché tanto sono pochi, che ce frega?). Non fare la vittima: hai sbagliato, hai offeso, la vittima non sei tu. Non sottolineare quanto il tuo ego sia ferito. Al momento non è importante e non frega niente a nessuno. Non usare la scusa dell’account hackerato: davvero, non ci crede più nessuno. Se non ti sei spiegato bene, ok, spiegati, ma scusati per non aver usato le parole giuste. Le sceneggiate da incompreso anche no. Inoltre ragiona sul fatto che se non sai usare le parole forse è meglio lavorarci un po’ su oppure rinunciare a usare strumenti difficili come l’ironia.



Sbagliamo tutti, siamo fallibili e gli altri sono più che disponibili a perdonarci se ci percepiscono come sinceri. Poi ci sono quelli che si accaniranno, che non capiranno o non vorranno capire, ma se ritieni di aver fatto tutto quello che potevi allora direi che il problema è tutto loro.





Al centro delle scuse non ci siete voi e il vostro ego, ci sono gli altri. Le vostre scuse sono la dimostrazione che avete preso atto di aver ferito un’altra persona, e che non state solo cercando di riguadagnare il consenso degli altri.  


L'articolo Chiedere scusa: non metterti al centro proviene da Carlotta Borasio.

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Published on March 17, 2019 11:02

March 13, 2019

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Published on March 13, 2019 22:34