Questa necessità di esprimere un parere su tutto, di raccontare tutto
I social ci hanno cambiati, inutile dire il contrario. Ad oggi non esiste bambino, adulto o vecchio che non sia iscritto a Facebook, Twitter, Instagram o altro. Basta guardarsi intorno, quando si è in metropolitana, a spasso per le vie del centro o semplicemente seduti al tavolo di un bar a prendere un caffè. I social ci hanno così condizionato la vita che non riusciamo più a fare a meno di loro. Teniamo il telefono sempre a portata di mano come un fumatore tiene il pacchetto di sigarette nella prima tasca della borsa o dei pantaloni assieme all'immancabile accendino. Sono diventati una droga per molti e come una droga hanno i loro effetti collaterali.
Chi ha in mano un telefonino o si siede dietro lo schermo di un computer si sente in diritto di pubblicare ciò che vuole o di criticare ciò che vuole. Ci siamo arrogati questo diritto usando la scusa: se qualcuno pubblica una foto orrenda deve essere in grado di ricevere le critiche. Ma mai ci siamo posti il dilemma: è giusto criticare? Chi siamo noi per farlo? Giudici? Critici di arte fotografica, di stili di vita, di modi di vestire? Ci hanno rilasciato una laurea in dottorato di giudizio e critica? Se una foto, un vestito o altro non ci piace dobbiamo dirlo per forza? Se abbiamo preso un caffè al bar dobbiamo fotografarci e farlo sapere al mondo intero, sempre per forza?
Scrive Jane Austen in L'abbazia di Northanger: [...] non la disturbavano affatto i commenti e le improvvise esclamazioni della signora Allen il cui ozio mentale e incapacità di riflessione erano tali che, se non parlava mai molto, non poteva nemmeno mai starsene completamente zitta; e allora quando sedeva con il suo lavoro, se perdeva l'ago e le si rompeva il filo, se sentiva una carrozza passare per strada, o vedeva una macchia sul suo vestito, doveva dirlo ad alta voce, che ci fosse o meno qualcuno in grado di risponderle.
Published on July 11, 2019 01:48
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