CAPITOLO UNO

Una linea indistinta si apre all’orizzonte. Dalla mia stanza, a quest’ora della notte, le montagne sono un segmento spezzato, che non riesco a riconoscere ed il bosco, sotto di noi, appare come una fitta coltre di cuscini scuri. La nebbia siberiana è così: ingannevole e beffarda.
Quando ero più piccola, mi svegliavo spesso a quest’ora della notte per osservare lo strano gioco della natura. È particolare quanto spaventoso avere la sensazione di non giacere su niente di solido e di guardare davanti a sé, trovando un mare di niente. La casa si regge sul potere immenso di mio padre. Perfino la natura ne riconosce la forza e si fa indietro, come a vergognarsi perfino d’esistere.
Anche io, talvolta, mi sento così piccola, che potrei sparire come quelle montagne laggiù, avvolte dalla nebbia.
Non ho mai sperimentato l’ebrezza di dormire senza svegliarmi la notte: da piccola mi disturbavo sempre verso le quattro del mattino, per andare in bagno magari, poi mi fermavo davanti alla finestra ad osservare rapita lo spettacolo della natura. Mi riaddormentavo cullata dalla nebbia. Ad oggi, questo teatro, è diventato un’abitudine.
L’inverno della Jacuzia è così spettacolare da sentirmi quasi annientata, come se fossi io stessa nell’essenza di questa inconsistenza. Ojmjakon, poi, è uno dei villaggi più freddi della Russia, a stretto braccio con la città di Tomtor, a quaranta chilometri da qui. Siamo nel polo nord del freddo e ogni cosa, qui, si cristallizza. Mina, la maggiore di noi sorelle, quando avevo sette anni, chiamava Ojmjakon il villaggio di vetro, per le sue acque limpide gelide e le lastre levigate di ghiaccio che, sul marciapiede, la facevano scivolare.
Stanotte mi tiene sveglia un altro pensiero, però.
Malgrado lo spesso vetro della mia finestra, mi sembra quasi di sentire il motore delle Jeep nere di mio padre. Salto giù dal letto, uscendo dal tepore del piumone e della pelliccia, quindi mi muovo veloce verso la finestra. I lampioni lungo la strada illuminano le ombre dei SUV nella foschia, ma io le sento e mi sembra quasi di vederle.
Il pensiero che continua a tormentarmi si chiama Remo Romanov.
Non l’ho mai visto, ma ne ho spesso sentito parlare.
Le pareti di casa conoscono il suo nome a memoria, mentre mio padre ne tesse le lodi tutti i giorni, raccontandoci di come ormai sia diventato per lui una sorta di figliastro. Talvolta, sono anche gelosa: mio padre ed io abbiamo sempre avuto un rapporto equilibrato, io rispetto lui più di qualsiasi altra persona conosca, lui mi ha sempre aiutata, con il suo temperamento, a superare qualsiasi ostacolo, dandomi la forza di affrontare le situazioni difficili.
Sospiro e la condensa si forma sul vetro in una forma strana, appannando ancora di più la vista. La pulisco con il palmo della mano e faccio un passo indietro, per impedire al vetro di appannarsi ancora, e rimango lì, per un po’ di tempo, ad osservare la nebbia sotto di me che, con la sua coltre, copre tutto e non lascia neanche alla potente luce del lampione di penetrare.
Guardo all’orizzonte, lì dove dovrebbe essere il sole, e non lo trovo. Alle quattro del mattino è normale qui da noi, anche se in alcuni luoghi della terra sorge anche a quest’ora della notte. Ma qui a Ojmjakon non si è mai visto. Credo di non avere mai avuto occasione di ammirare il sole, forse quando ero piccola, in vacanza nella primaverile Mosca; qui è come vivere in un inferno freddo: buio, neve, ghiaccio e gelo.
Per una bambina occidentale potrebbe essere traumatizzante, probabilmente, ma per me non lo è mai stato. Sono cresciuta in questo luogo per ventidue anni, vedendo raramente altri posti. Non so se il sole potrebbe piacermi o se potrei provare paura, se i suoi raggi potrebbero scogliere la mia pelle di ghiaccio, ma dopo anni e anni di buio, vedere la luce è diventato quasi un tabù infinito.
Seduta sul letto vedo il cielo rischiararsi, mi volto a guardare l’orologio, che segna le sei del mattino. Sono rimasta a scrutare il nulla per due ore e nemmeno me ne sono resa conto, persa come sono nei miei pensieri. La nebbia si sposta in banchi e la visibilità migliora, mentre lentamente prendono forma il marciapiede della strada in salita e l’asfalto, bagnato e scivoloso, del nostro viale d’ingresso. Riconosco il nero movimento frenetico degli uomini di mio padre, mentre scaricano delle casse di legno con pesanti guantoni da neve e le braccia tese per lo sforzo, coperte da piumini caldi.
Intravedo un uomo muoversi insieme a loro, ma non trasporta casse. Sembra diverso, quasi importante, come se stesse dirigendo il trasporto delle casse. Non vedo la giacca blu grigia di mio padre e mi chiedo se sia ancora nella sua stanza, a dormire al fianco di mia madre, o se sia in garage a controllare le casse.
Riesco a riconoscere Alexander, poiché è quello più longilineo degli uomini e la giacca gli si affloscia sulle braccia magroline, mentre gli altri, per me, sono tutti uguali. Gli scagnozzi di mio padre sono sempre stati materia di pettegolezzi e fantasie: le mie sorelle sono sempre state attratte dai loro muscoli. Dasha, la terza più grande, disse perfino che un giorno avrebbe attirato Yaroslav in una “trappola”, portandolo nel rifugio oltre la foce del Nera, nella foresta di Indigirka. E inutile dire la natura del suo intento…
Rispetto alle mie sorelle, io non mi sono mai interessata agli uomini di papà, mi sono sempre sembrati tutti uguali, tutte “macchine” che dedicano la loro vita a servirlo; insomma non hanno mai suscitato il mio interesse. Hanno il volto imperscrutabile, rigido, l’espressione dura di chi svolge il suo compito da soldato.
Non sono mai stata una tipa curiosa dell’ambito lavorativo di mio padre, sono stata abituata a restare al posto mio; solo la musica mi interessa tanto, mi stimola tanto da diventare una vera e propria ficcanaso.
In realtà l’unico motivo che mi fa venir voglia di esplorare le dinamiche del mondo degli affari di mio padre è la presenza di Remo. E probabilmente è quella punta di gelosia nei suoi riguardi, questo saperlo così vicino a mio padre che mi fa venir voglia di capire dove lui “ficchi il naso”, quanto sia invischiato nei nostri affari.
Sento gli sportelli delle Jeep sbattere e sobbalzo per il rumore inaspettato. Un uomo, a sensazione diverso dagli altri, si muove sul viale tra la casa e il garage, e lo fa in modo così sicuro, scendendo le scale del portico come se gli fosse talmente familiare la mia casa, da far quasi parte di questa famiglia.
Rabbrividisco e mi lascio scivolare sulle spalle il maglioncino che prima era poggiato sulla poltrona nera. Il pavimento di legno scricchiola sotto l’incedere dei miei piedi e avverto la ruvidezza delle doghe anche oltre i calzini pesanti. Tutte le sensazioni sembrano amplificarsi.
So che è lui, che è Remo. Ed è qui per me.
Mio padre me l’ha detto, due sere fa, mentre lo accompagnavo a controllare delle casse nel rifugio oltre l’Indigirka. Ho accusato il freddo, ho ammesso di essere debole al gelo e all’umidità della foresta della Nera, lui si è fermato a guardarmi intensamente e poi mi ha dato una pacca sulla spalla, senza nemmeno accennare ad un abbraccio o una parola di conforto.
E le sue parole mi hanno fatto gelare il sangue: “Remo verrà presto qui, per te”.
Remo si ferma e vedo la sua testa, coperta da un capello di lana, scuotersi. Deglutisco e mi chiedo come sia, se è esattamente come gli altri uomini di mio padre, se sarà buono o crudele con me. Lo osservo in silenzio, ma il rumore del mio respiro mi rimbomba nelle orecchie, il vapore che esce dalle mie labbra crea nuvole di condensa sottili nella stanza.
La temperatura si è abbassata anche in casa, inizio a sentire freddo.
Mi stringo nel maglioncino e attendo, come se pensassi che lui possa voltarsi sentendo la mia paura e vedermi mentre lo osservo.
Ma lui davvero si volta e mi ritrovo a trattenere il fiato. Ha il cappello calcato fin sulla fronte, mentre un passamontagna gli copre le labbra, lasciando liberi solo gli occhi. Non riesco ad interpretarne il colore, ma sento che sono scuri e che mi stanno trafiggendo. Il passamontagna nasconde le sue emozioni, la sua espressione, ma se non l’avesse sarebbe la stessa cosa e riuscirebbe, comunque, a mettermi a disagio. Scosto le tendine della finestra in un movimento veloce e nervoso, a coprire i vetri appannati; quindi, mi stringo le braccia al petto ritraendomi.
Le parole di mio padre mi terrorizzano quanto ritrovarmi da sola nella foresta, al freddo, senza scorte e senza un aiuto. Remo vuol dire addestramento. Addestramento vuol dire onore, coraggio e resistenza. È questo l’addestramento che papà ha da sempre destinato ai suoi uomini.
Onore, coraggio e resistenza.
Resistenza a qualsiasi cosa, perfino alle emozioni.
Se io dovessi aver a che fare con Remo, saprei già che non voglio diventare come lui: non sarò mai un guscio vuoto, come tutti gli uomini di mio padre, con il cuore freddo più del ghiaccio che congela l’Indigirka. Gli uomini di mio padre non hanno stagioni in cui fioriscono, sono come un fiume siberiano: gelato d’inverno e arido in primavera.
Questa è la Siberia.
Questo è il clan dei Gorkij.
Questo è addestramento siberiano.
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Published on October 21, 2022 09:06
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